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LE MISURE DI PREVENZIONE TRA RIFORME E RIVOLUZIONE – DI MARCELLO FATTORE

LE MISURE DI PREVENZIONE TRA RIFORME E RIVOLUZIONE – DI MARCELLO FATTORE

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LE MISURE DI PREVENZIONE TRA RIFORME E RIVOLUZIONE

di Marcello Fattore*

Tra le tante disfunzioni che la prevenzione ha prodotto c’è anche quella, concettuale, inerente alla contemperazione del livello di critica che un accostamento non formalistico deve organizzare verso un congegno connotato, in via strutturale, dalla mancanza di uno spazio di legittimazione, nonché, in fase applicativa, dalla significativa assenza di garanzie. Coltivare programmi di modifica del meccanismo preventivo non può significare acquiescenza alla sua stessa esistenza così come un atteggiamento di contrasto ideologico non può essere di ostacolo alla indispensabile azione riformatrice.

Sommario. 1. Premessa. Perché non possiamo non essere contro le misure di prevenzione. 2. La prevenzione che visse due volte. Le possibili ragioni della persistenza di una pseudo-avanguardia repressiva assurta a “sistema”. 3. Prevenzione e lotta alla mafia: simul stabunt. 4. Tra riforme e rivoluzione.

  1. Premessa. Perché non possiamo non essere contro le misure di prevenzione

Perché la nostra Costituzione esaurisce con le pene e con le misure di sicurezza la dimensione afflittiva collegata a una compromissione della pari dignità sociale.

Perché sempre la nostra Carta scolpisce l’unico senso possibile della prevenzione nel capoverso dell’articolo 3: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Perché il congegno della prevenzione si è sviluppato al di fuori della materia penale, in una zona di confine ove i concetti di Legalità e Giurisdizione hanno visto sfumare tutta la loro sedimentazione storica, la loro portata culturale e il loro significato di limite all’intervento repressivo statuale.

Perché la modernità ha mostrato che i sistemi afflittivi possono nascere e svilupparsi solo a partire dalla consapevolezza dei propri limiti mentre i concetti di “prevenzione”, “pericolosità” e “sicurezza” possiedono una congenita vocazione espansiva, hanno una ineliminabile connotazione soggettivistica e sono particolarmente esposti alle lusinghe di una bruta politica dell’ordine pubblico.

            Perché l’ampliamento crescente del meccanismo preventivo afflittivo disimpegna e allontana sempre di più lo Stato dagli obblighi costituzionali di integrazione e assistenzialismo.

            Perché lo sbilanciamento della prevenzione verso il potere esecutivo prima e poi anche verso il potere giudiziario – con svuotamento delle prerogative del potere legislativo – ha determinato uno spostamento dell’asse democratico verso le ragioni dell’Autorità rispetto a quelle della Libertà.

            Perché storicamente le misure di prevenzione sono state uno strumento di oppressione di chi era stato escluso dal consorzio civile; di chi non era inquadrabile in alcuna delle categorie sociali dello Stato liberale e di quello fascista; di chi aveva fatto una libera scelta di vita ritenuta incompatibile con i dettami di quelle forme ordinamentali; di chi coltivava il dissenso ideologico contro il potere di governo.

Perché già il diritto penale è un sistema preventivo.

Perché il diritto penale già incentra il giudizio di pericolosità nelle misure di sicurezza.

            Perché il diritto penale, quale sistema afflittivo, è costituzionalmente limitato dai poli del fatto tipico, offensivo e colpevole, mentre la prevenzione – pur parimenti o più repressiva – disconosce l’esistenza di un fatto, non si occupa della lesione o messa in pericolo di beni giuridici, emargina ulteriormente classi di persone già esposte al rischio di desocializzazione.

            Perché la teoria generale del reato inserisce con funzione ordinante e raziocinante il diritto penale all’interno di un progetto di convivenza civile mentre il sistema della prevenzione – pur essendo assurto alla dignità di un testo unico – ne è del tutto privo.

            Perché la subordinazione del dispositivo preventivo alla sola idea di scopo, in uno con la dilatazione senza confini del concetto di pericolosità, fa si che le relative norme non posseggano alcun equilibrio interno tra esigenze repressive e garanzie individuali e siano – per l’appunto – “misure” da applicare, non difendibili.

            Perché tali connotati hanno determinato una sorta di inversione del meccanismo di produzione del diritto della prevenzione: non più “dall’alto” della riflessione sul bilanciamento tra valori ma “dal basso” dalla pura, ritenuta efficienza applicativa, diventata poi sinonimo di legittimazione stessa del congegno.

            Perché la intrinseca lacunosità di una materia costituita da “misure”, unita alla possibilità di assegnare significato tipizzante alle decisioni giurisdizionali nelle materie non penali, hanno comportato una sovrapposizione tra la funzione di ius dicere e quella legislativa, di tal che le principali riforme in materia costituiscono null’altro che generalizzazioni di decisioni stabilmente adottate in sede di legittimità.

Perché l’inesistenza nel sistema della prevenzione di un precetto indirizzato alla persona con funzione di adeguamento dei comportamenti determina l’impossibilità di ipotizzare gli standard minimi di prevedibilità delle conseguenze dell’agire.

            Perché l’assenza di una dogmatica della prevenzione, l’orientamento a criteri di presunta efficienza e la ubiquità della natura giuridica della materia – ondeggiante tra le logiche preventive e di controllo del diritto amministrativo e quelle afflittive del diritto penale – fanno si che la prevenzione sia stato e sia un laboratorio ove si sperimenta la repressione del futuro prossimo venturo, quasi sempre al di fuori e al di là del confronto pubblico.

            Perché il meccanismo della prevenzione non è strutturalmente in grado di garantire la protezione dell’innocente.

            Ecco perché nel Manifesto del Diritto Penale Liberale e del Giusto Processo dell’Unione delle Camere Penali Italiane due principi sono espressamente dedicati al sistema preventivo:

  1. Le misure di prevenzione sono estranee ai principi del diritto penale liberale e del giusto processo. Nato come strumento eccezionale di controllo sociale di categorie particolari di soggetti, le misure di prevenzione tendono oggi ad assumere il carattere di diritto comune e rappresentano un sottosistema parallelo al diritto penale, destinato a colpire dove quest’ultimo non potrebbe mai giungere.
  2. Le misure di prevenzione – personali e patrimoniali – vigenti sono afflittive, talvolta più della stessa pena, e, quindi, devono avere lo statuto di garanzie della materia penale. Per la loro applicazione non è sufficiente la tutela giurisdizionale, ma occorre il requisito della massima tassatività dei presupposti, accompagnato dall’attualità della cd. pericolosità sociale del soggetto al momento della richiesta della misura. Deve essere in ogni caso rispettata la garanzia della irretroattività sfavorevole.

  1. La prevenzione che visse due volte. Le possibili ragioni della persistenza di una pseudo-avanguardia repressiva assurta a “sistema”

Nonostante ciò, le misure di prevenzione sono sopravvissute due volte al loro destino.

La prima con l’ingresso di una Costituzione che – come sopra ricordato – le aveva deliberatamente tenute fuori dallo schema dei possibili interventi di afflizione limitativi di diritti fondamentali[1].

All’inizio della sua entrata in funzione, la Corte Costituzionale con le sentenze 2 e 11 del 1956 legittimò la prevenzione afflittiva attraverso un percorso che ancora oggi testimonia tutta la difficoltà di rinunciare a quella che è stata – ed è – ritenuta una indispensabile avanguardia nella lotta contro il crimine:

  • sul piano del metodo la Corte attuò una radicale inversione di paradigma, interpretando la Carta alla luce della legge ordinaria e non il contrario, come si doveva;
  • con riferimento all’oggetto, la Corte mise a fuoco e sciolse solo il nodo della riserva di giurisdizione, così dando per scontato che sul piano della legalità non ci fossero censure da muovere nei confronti del dispositivo; la legge fondamentale in materia di prevenzione, n. 1423 del 1956 – promulgata a seguito dell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sul rimpatrio per traduzione e sull’ammonizione – nacque pertanto avvolta in un’illusoria aura di costituzionalità;
  • in relazione al bilanciamento tra i valori in discussione, la Corte assemblò un principio fondamentale costituto dalla “attività di prevenzione dei reati”, riguardo al cui esercizio “non vanno frapposti ostacoli”.

La seconda volta in cui non si è consumato l’epilogo della macchina preventiva è stato – ma siamo ai giorni nostri – a seguito della Sentenza della Corte EDU nel caso De Tommaso c. Italia.

È necessario richiamare in nota determinati passaggi per sottolineare che la Corte europea ha avuto come punto di riferimento non solo e non tanto gli articoli poi oggetto di specifica critica, quanto “la legge”[2].

            In sede di successiva rimessione della censura della Grande Camera da parte del Giudice interno, la Corte costituzionale ha valutato – verrebbe da dire: ancora una volta – con spirito di conservazione le questioni affrontate.

Proprio le dinamiche di eterno recupero del congegno imporrebbero di ricercare le ragioni di questa persistenza, nascosta a un’analisi incentrata sui soli aspetti di tipo tecnico giuridico.

Un ruolo essenziale può aver giocato la sfiducia nel diritto penale d’impianto liberale – costruito attorno al concetto di offensività e al ripudio della penalizzazione degli stati soggettivi – a poter appagare il bisogno di sicurezza.

Al tempo della cacciata dal paradiso dei valori liberali, la repressione delle forme di pericolosità trovò una collocazione esterna ai codici, colà sviluppandosi in forma autonoma, grazie soprattutto alla lontananza anche testuale dal diritto penale e all’affrancamento dai relativi principi.

In questo modo, dalla iniziale forma embrionale il dispositivo ha potuto sviluppare autonomi caratteri adattativi, opportunisti, rigenerativi, che ne hanno consentito la sopravvivenza anche in situazioni ambientali divenute sfavorevoli, come – appunto – quelle determinatesi dopo il collasso del regime fascista, che le aveva quasi elette a strumento identitario di tipo oppressivo.

Qui è emersa un’ulteriore caratteristica della prevenzione, quella di mostrare tutta la sua duttilità funzionale all’esercizio del potere di governo – qualunque governo – che l’ha resa indispensabile al controllo, alla disciplina, alla coazione, alla inabilitazione, alla repressione.

Solo così può spiegarsi, il silenzio – definito “imbarazzato” – dei Costituenti sulle misure di prevenzione, determinato verosimilmente dalla ulteriore prosecuzione dell’utilizzo del confino di polizia a fini di lotta antifascista, previsto dai decreti luogotenenziali e dai decreti presidenziali emessi dal 1944 al 1947, come anche dal ruolo svolto dall’istituto dell’ammonizione in un momento storico – sempre quello successivo al secondo conflitto mondiale – nel quale le forze di polizia non avevano riacquistato la normale efficienza.

Solo con l’esistenza di un sentimento quasi-ancestrale di indispensabilità del congegno, può spiegarsi la timorosa cautela con la quale la Corte costituzionale, nell’accogliere con la Sentenza n. 11 del 1956 la censura sul contrasto tra l’istituto dell’ammonizione e la riserva di giurisdizione, avvertì l’esigenza di tranquillizzare la comunità sull’assenza di ricadute in punto di difesa sociale[3].

Quasi settant’anni dopo ritroviamo la stessa apprensione in una recentissima sentenza della Consulta sulla inapplicabilità degli effetti interdittivi derivanti dalle misure di prevenzione ai condannati per i delitti di truffa aggravata ai danni dello Stato e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche[4].

Sempre di recente, la Corte costituzionale nella Sentenza n. 24 del 2019 ricostruisce in modo molto franco lo spaccato giurisdizionale successivo alla censura proveniente dalla Grande Camera EDU sopra citata, evidenziando come e quanto i Giudici di legittimità abbiano profuso un consapevole impegno al fine di colmare il deficit di tassatività colto dalla Corte di Strasburgo[5].

Ancora, l’essere stata la prevenzione storicamente adoperata come metodo di contrasto a manifestazioni di criminalità ritenute emergenziali, ha ulteriormente radicato un senso di urgenza verso l’utilizzo del sistema stesso, articolatosi poi, come noto, in ircocervi giuridici – confisca di prevenzione, confisca allargata o per sproporzione, misure interdittive – ad alto tasso di lesività e quota ammezzata di garanzie.

In particolare, come noto, un ruolo fondamentale ha giocato lo stretto collegamento tra le misure di prevenzione e la “lotta alla mafia”.

  1. Prevenzione e lotta alla mafia: simul stabunt

La nascita del concetto di criminalità mafiosa è avvenuta nel favorevole ecosistema della pericolosità per la sicurezza pubblica.

La legge Pica del 1863, orientata alla tutela della sicurezza contro il brigantaggio, all’articolo 5 inserì al fianco degli oziosi, vagabondi, sospetti, il camorrista e il “sospetto manutengolo”, sorta di fiancheggiatore, figura antesignana del concorrente esterno.

Con la legge 575 del 1965, l’ideologia preventiva confermò le sue proprietà demiurgiche inaugurando il concetto degli “indiziati di mafia”, prima ancora che di quest’ultima ne venisse tipizzata la definizione.

Nel 1982 la legge Rognoni-La Torre introdusse – come noto – l’associazione di tipo mafioso e, contestualmente, la confisca di prevenzione.

Nel 1994, è stato immesso sul mercato della lotta alla mafia un altro derivato della prevenzione, la confisca allargata o per sproporzione.

Dunque, il concetto di “lotta alla mafia” è intrecciato con quello della prevenzione sin dall’avvento sulla scena para-penalistica di questa dottrina, tant’è che l’ultimo prodotto legislativo in argomento – il decreto legislativo 159 del 2011, già più volte ritoccato – è titolato “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”.

In realtà, queste ultime – sia nella forma generica, sia in quella qualificata – hanno uno spettro applicativo molto più esteso del contrasto alla grande criminalità associata e tale equivoco riteniamo abbia smussato non poco la capacità critica della Corte EDU[6], come si evince anche dalla Sentenza della Grande Camera De Tommaso, se si pongono a raffronto alcuni passaggi della motivazione – di ampio respiro critico sulla legge tout court – e la parte dispositiva.

La stessa sensazione si ricava se si leggono le opinioni parzialmente dissenzienti dei Giudici Pinto de Albuquerque, Sajó e Kūris sulla violazione dell’art. 5 della Convenzione, inerente come noto alla libertà personale, e non dell’articolo 2, protocollo 4, riguardante la libertà di circolazione.

Con la Sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2019 si è chiusa la parabola aperta con la Pronuncia della Corte di Strasburgo e con essa le speranze di vedere finalmente riconosciuta la reale natura giuridica di un meccanismo che anche su tale ambiguità ha costruito la sua capacità di sopravvivenza e di allargamento dei margini applicativi.

In estrema sintesi, la Corte ha convalidato l’impianto del congegno, ritenendo che:

  • le misure di prevenzione non hanno una finalità punitiva bensì, appunto, preventiva proprio perché sono strutturate su un giudizio di pericolosità sociale;
  • lo scopo coltivato dalle misure stesse assorbe e neutralizza la indubbia dimensione afflittiva, che resta una conseguenza collaterale;
  • l’applicazione delle misure non comporta un problema di legalità, posto che vengono rispettati i requisiti di cui all’art. 13 Costituzione (riserva di legge e riserva di giurisdizione);
  • la confisca di cui all’art. 24 D.Lgs 159/2011 – da preventiva che era – è solo la naturale conseguenza della loro [dei beni confiscati] illecita acquisizione … risultando … un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità … ed avendo dunque … carattere meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell’illecita acquisizione del bene;
  • la giurisprudenza di legittimità aveva già compiuto … un commendevole sforzo di conferire, in via ermeneutica, maggiore precisione alle due fattispecie di “pericolosità generica” qui all’esame. Tale sforzo interpretativo è stato ripreso e potenziato successivamente alla pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di porre rimedio a deficit di precisione in quella sede rilevato;
  • tale attività di integrazione del senso è possibile nel caso di specie, perché si versa al di fuori della materia penale … ove … non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione.

            Il dispositivo preventivo è dunque oggi formalmente legittimato, nel rapporto con la Costituzione e con riferimento al diritto internazionale.

            Lo è anche sul versante del consenso di tipo politico-criminale, per le ragioni che abbiamo cercato di sintetizzare in precedenza.

            Come fronte critico, residua, sul piano dell’elaborazione scientifica, la riflessione di gran parte della Dottrina penalistica sostanziale e processuale – con le naturali differenze di posizione – e, sul piano della politica giudiziaria, l’azione dell’Unione delle Camere Penali Italiane.

            Eppure, a una successiva lettura dei punti-dispositivi della Sentenza n. 24 del 2019, in filigrana si intravede una linea unica che li tiene assieme, corrispondente alla ferma convinzione della indispensabilità delle misure di prevenzione – come attualmente strutturate – e della loro consustanzialità al sistema penale lato sensu.

            Da qui si è innervato lo sforzo concettuale, ermeneutico di trovare uno spazio di legittimazione alla prevenzione, che non sia puramente autoreferenziale o derivato dalla equazione efficacia-legittimità o ancora riflesso da una vicenda di ineffettività del diritto penale, che apre di per sé uno spaccato dai margini smisurati.

            La dimensione di (sotto)sistema in senso proprio, ossia inserito in modo coerente all’interno dell’ordinamento giuridico, le misure di prevenzione difficilmente avranno – almeno nella forma attuale assunta, non invertibile considerata la progressione a senso unico che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni di politica legislativa.

            La conferma sulla perenne ricerca di un’area di validazione al dispositivo passa, nel caso della Sentenza n. 24, per la riduzionistica lettura – a nostro avviso – dell’articolo 13 della Carta, nel solco tracciato dalle prime Pronunce della Corte costituzionale.

            Eppure, l’impegno all’individuazione di uno spazio definito assegnabile alla prevenzione non si può coltivare solo in senso verticale – nei rapporti con la Costituzione – ma viepiù in senso orizzontale, nella relazione con il diritto penale, entrambi così vicini e così lontani.

Si potrebbe difatti sostenere che il successo delle misure di prevenzione è garantito dal corrispondente significato di delegittimazione del diritto penale che, come un suono di sottofondo, accompagna il loro incedere.

            Esse hanno preso e prendono dall’elaborazione afflittiva del diritto penale – unita a quella giuspubblicistica di controllo – quanto loro occorre per sorvegliare, coartare, inabilitare, reprimere; scartando quel che invece ne forma l’indispensabile contrappunto, costituito dalle garanzie di carattere sostanziale e processuale, tese ad evitare la punizione dell’innocente.

            Eppure, oggi, quell’ente saprofitico è inestricabilmente legato alla pianta penalistica da cui sugge la linfa, al di là delle letture nominalistiche improntate alla netta separazione degli ambiti: da una parte, le coppie reato-pena e fatto-colpevolezza, dall’altro la pericolosità per l’ordine pubblico.

            In realtà, da tempo, la politica criminale si sviluppa sulla stratificazione dell’impianto complessivo, gettando uno sguardo corretto dalle lenti dei principi al diritto penale ma strizzando l’altro occhio alle misure di prevenzione, nel miraggio di una loro complementarietà, secondo la quale in corrispondenza dell’eventuale addolcimento del volto penalistico tout court esiste, in via compensativa, il confine mobile quanto affilato della sorveglianza speciale, delle confische, delle misure interdittive, che può essere avanzato alla bisogna; così come – correlativamente – possono essere coltivate politiche repressive simboliche attraverso l’introduzione di fattispecie connotate da originaria ineffettività perché esiste comunque il nucleo duro del “diritto di lotta”, costituito soprattutto dalla repressione, in via indiziaria, delle forme basiche di pericolosità.

  1. Tra riforme e rivoluzione

La complessità concettuale rappresentata da filosofie antinomiche di contrasto alla criminalità, realizzative di un sistema-matrioska dal senso rarefatto, spiega effetti anche sulle riflessioni improntate all’indispensabile recupero delle garanzie nell’ambito delle misure di prevenzione.

            Se, da un lato, potrebbe apparire come una sorta di narcisistica presa di posizione, quella coltivata da chi persevera nella contrapposizione ideologica ad un congegno oggi incastrato nelle logiche politico-criminali – e comunque giustificato a livello costituzionale e sovranazionale – dall’altro non può eludersi l’idea di una mancanza di legittimazione del concetto di prevenzione, dalla quale scaturiscono, come effetti derivati, le disfunzionalità, gli attriti, le asimmetrie, gli arcaismi, in ultima analisi le ingiustizie quotidianamente prodotte.

            In modo reciproco, la consapevolezza di trovarsi al cospetto della “truffa delle etichette” per antonomasia non deve costituire ostacolo mentale al tentativo di restituire all’ambito della prevenzione quel carniere minimo di garanzie che da tempo si reclama invano e che, di recente, è stato oggetto di due iniziative legislative[7].

            Tali istanze minime di civiltà giuridica non possono però – in una sorta di argomentazione a spirale nella quale si trascorre continuamente dall’idea alla realtà e da questa a quella – essere interpretate come l’implicita acquiescenza a una ideologia che mostra, tra i diversi, il suo versante meno limpido nella continua capacità di sperimentazione afflittiva, all’interno del cono d’ombra di relazioni non fisiologiche tra i poteri dello Stato.

* Avvocato del Foro di Napoli e componente dell’Osservatorio Misure Patrimoniali e di Prevenzione

[1] Attraverso una lettura sistematica degli articoli 3, 13, 14 e 25 della Costituzione, si è condivisibilmente ritenuto incompatibile con l’organizzazione dei valori della Carta il sistema preventivo: l’assenza di una indicazione espressa delle misure di prevenzione; l’esaurimento dell’afflittività stigmatizzante con le pene e le misure di sicurezza; la consumazione dei profili di pericolosità con le misure di sicurezza; la possibilità di limitazione della libertà personale solo in seguito alla commissione di un reato e con le forme previste dal codice di procedura penale; la estensione delle garanzie rinforzate inerenti alla limitazione moralmente degradante della libertà personale anche ai sequestri., sono alcuni tra gli elementi che militano in favore della estraneità delle misure di prevenzione dai sistemi coattivi di autorità previsti dalla Carta . L’analisi dei lavori parlamentari dell’Assemblea Costituente conferma questa ricostruzione: l’accoglimento dell’emendamento Leone-Bettiol sulla pericolosità limitata alle misure di sicurezza e la mancata risposta all’emendamento Bulloni-Mortati, teso a inserire nell’art. 13 le “misure di polizia”, non sono suscettibili di revocare in dubbio la volontà di estromissione delle misure di prevenzione dall’impianto costituzionale, pur non essendosi ciò tradotto in un divieto esplicito. “Il concetto della misura di sicurezza è decisivo: accanto al criterio della repressione del delitto si accetta anche quello della prevenzione, basata sul presupposto della pericolosità del delinquente. La cosa è molto importante. La misura di sicurezza si presenta con carattere indeterminato e, quindi, incide più marcatamente della pena stessa sulla libertà dell’individuo, tanto è vero che oggi i delinquenti temono molto di più le misure di sicurezza che la pena stessa, appunto per questo carattere di indeterminatezza. Sullo sfondo vediamo balenare lo Stato di polizia, quindi non si tratta d misure che siano consone, al cento per cento, ai principi di una Costituzione liberale.  Ma siccome lo Stato deve difendersi contro i delinquenti, è necessario che in certi casi possa disporre di provvedimenti difensivi di carattere preventivo. Si tratta sempre di misure di sicurezza che entrano in considerazione nella legge penale, e quindi vengono applicate nei confronti di persone socialmente pericolose, in occasione della perpetrazione di un reato.  Non sono misure di polizia: questo devo chiarire perché non sorgano equivoci. Si tratta di misure preventive di sicurezza, che devono essere applicate, a norma del Codice penale, nei confronti di individui imputati o imputabili in occasione della perpetrazione di un reato. Data la grande importanza di queste misure, dato il loro incidere sulla libertà personale, e dato che sono riconosciute anche dalle altre legislazioni moderne, è bene fissare anche per esse il principio di legalità, onde la discrezionalità sia bloccata, in modo che anche per queste misure si possa avere il presidio della legge scritta sull’arbitrio del giudice o delle altre autorità statali che possano privare il cittadino della libertà individuale.” Intervento di Giuseppe Bettiol, Assemblea Costituente, LXXXIX, seduta antimeridiana di martedì 15 aprile 1947.

[2]117. La Corte osserva che, nonostante il fatto che la Corte costituzionale sia intervenuta in diverse occasioni per chiarire i criteri da utilizzare per valutare se le misure di prevenzione fossero necessarie, l’applicazione di tali misure resta legata a un’analisi prospettica da parte dei tribunali nazionali, dato che né la Legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le “prove fattuali” o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione. La Corte ritiene pertanto che la Legge in questione non contenesse disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società.” …” In altre parole, la Corte ha basato il suo ragionamento sull’assunto dell’esistenza di “tendenze criminali”, criterio che la Corte costituzionale aveva già considerato insufficiente – nella sua sentenza n. 177 del 1980 – per definire una categoria di soggetti cui potevano essere applicate le misure di prevenzione (si veda il paragrafo 55 supra).
La Corte ritiene pertanto che la legislazione vigente al momento pertinente (articolo 1 della Legge del 1956) non indicasse con sufficiente chiarezza la portata o la modalità di esercizio della ampissima discrezionalità conferita ai tribunali interni, e non fosse pertanto formulata con sufficiente precisione in modo da fornire una protezione contro le ingerenze arbitrarie e consentire al ricorrente di regolare la propria condotta e prevedere con un sufficiente grado di certezza l’applicazione di misure di prevenzione”… “125. La Corte conclude pertanto che la Legge n. 1423/1956 era redatta in termini vaghi ed eccessivamente ampi. Né le persone cui erano applicabili le misure di prevenzione (articolo 1 della Legge del 1956) né il contenuto di alcune di queste misure (articoli 3 e 5 della Legge del 1956) erano definiti dalla legge con sufficiente precisione e chiarezza. Ne consegue che la Legge non soddisfaceva i requisiti di prevedibilità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte. 126. Conseguentemente, non si può affermare che l’ingerenza nella libertà di circolazione del ricorrente sia stata basata su disposizioni di legge che soddisfano i requisiti di legittimità previsti dalla Convenzione. Vi è pertanto stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 a causa dell’imprevedibilità della Legge in questione.

[3]Né può preoccupare il fatto che per effetto di questa decisione risulti impedita l’applicazione di una misura preventiva di cui il costituente non sembra averne voluto, come tale, la soppressione. La preoccupazione muove da presupposti ed opera in un piano sul quale la Corte, nell’esercizio del controllo di costituzionalità, in linea giuridica, non può entrare. Ma la Corte stessa non ignora che, sulla materia, vari progetti di legge trovansi in avanzato stato di elaborazione dinanzi all’organo competente, e cioè al Parlamento, appunto al fine di adeguare alle nuove disposizioni costituzionali le misure preventive di sicurezza pubblica”.

[4] “6.2. Anche per la truffa ai danni dello Stato, d’altronde, l’esigenza di prevenire l’infiltrazione mafiosa nel tessuto socio-economico rimane coperta da altre previsioni legislative.

Da un lato, infatti, sebbene la truffa stessa non rientri tra i “reati spia” di cui all’art. 84, comma 4, cod. antimafia, una condanna per tale fattispecie può sempre costituire un elemento da cui desumere che il condannato vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; elemento che, ai sensi degli artt. 1, comma 1, lettera b), e 4 cod. antimafia, può portare all’adozione di una misura di prevenzione (con i conseguenti effetti interdittivi).

Dall’altro lato, anche per tale delitto, i già ricordati artt. 32-ter e 32-quater cod. pen. consentono di aggiungere alla pena principale quella accessoria dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione; pena che, come sottolineato, ha effetti in parte sovrapponibili alle conseguenze interdittive di cui all’art. 67, commi 1 e 2, cod. antimafia.

[5]Tale sforzo interpretativo è stato ripreso e potenziato successivamente alla pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di porre rimedio a deficit di precisione in quella sede rilevato.” Corte Costituzionale n. 24 del 27 febbraio 2019, Considerato in diritto, 11.4.

[6] «Resta però da verificare se quest’ingerenza sia sproporzionata al legittimo scopo perseguito. In proposito, la Corte sottolinea che la misura controversa rientra nell’ambito di una politica di prevenzione della criminalità e ritiene che, nell’attuazione di tale politica, il legislatore debba avere un ampio margine di manovra per pronunciarsi sia sull’esistenza di un problema di interesse pubblico che richiede una normativa che sulla scelta delle modalità applicative di quest’ultima. Tra l’altro, la Corte osserva che il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto, in Italia, dimensioni davvero preoccupanti. I guadagni smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite danno loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato, Quindi, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, ed in particolare controversa, possono risultare indispensabili per poter efficacemente combattere tali associazioni», Corte EDU, 5 gennaio 2010, Buongiorno e altri c. Italia; «Il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto in Italia proporzioni davvero preoccupanti. I profitti smisurati che le associazioni di stampo mafioso traggono dalle loro attività illecite conferiscono loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato. Così, i mezzi utilizzati per contrastare questo potere economico – quali la confisca denunciata nel caso di specie – possono risultare indispensabili per contrastare efficacemente tali associazioni», Corte EDU, 17 giugno 2014, Cacucci, Sabatelli c. Italia.

[7] Disegno di legge n. 3059 d’iniziativa degli Onorevoli Siracusano, Zanettin, Cassinelli , Cristina, Pittalis, Ruggieri, Marrocco, Versace, Vitiello, avente ad oggetto “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in materia di soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali e di disciplina delle misure di prevenzione patrimonlali”, presentato alla Camera dei Deputati il 26 aprile 2021, nonchè  Disegno di legge n. 2334 d’iniziativa dei Senatori Giammanco, Caliendo, Craxi, Modena, Papatheu, Caligiuri, Rizzotti, Siclari, Masini.,Barboni, Gallone, Toffanin, De Siano, Berardi, Binetti, Floris, Galliani, Aimi, Cangini, Tiraboschi e Ferro, avente ad oggetto “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al deceto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in materia di misure di prevenzione patrimoniale”, comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica il 22 luglio 2021.