ORA! LE RIFORME LIBERALI – CAIAZZA, ROSSO, RUBINI, PUTZOLU E RIPAMONTI
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ORA! LE RIFORME LIBERALI
di Gian Domenico Caiazza, Eriberto Rosso, Paola Rubini, Domenico Putzolu e Daniele Ripamonti
Le trascrizioni degli interventi tenuti nel corso della manifestazione a chiusura dell’astensione dei penalisti italiani “Ora! Le riforme liberali” per la realizzazione delle riforme annunciate dal governo. Dopo l’introduzione del Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Gian Domenico Caiazza, gli interventi su impugnazioni e intercettazioni, prescrizione, misure cautelari personali e ordinamento giudiziario, del Segretario Eriberto Rosso, del vice Presidente Paola Rubini, del componente dell’ufficio di presidenza Daniele Ripamonti e del Tesoriere Domenico Putzolu.
1. Le ragioni dell’astensione. 2. Le riforme che vogliamo. Impugnazioni e intercettazioni. 3. Le riforme che vogliamo. Prescrizione. 4. Le riforme che vogliamo. Misure cautelari. 5. Le riforme che vogliamo. Ordinamento giudiziario.
- Le ragioni dell’astensione. Gian Domenico Caiazza
Il Ministro Guardasigilli Carlo Nordio ha comunicato ai penalisti italiani, ovviamente a nome del Governo, che il Consiglio dei ministri ha finalmente approvato il “cronoprogramma” delle riforme liberali della giustizia da subito annunziate, ma che in questi primi sei mesi di governo avevano lasciato il passo ad interventi legislativi di segno radicalmente opposto. Entro la fine di maggio saranno depositati i disegni di legge su riforma della prescrizione, delle intercettazioni telefoniche, della custodia cautelare, delle impugnazioni, oltre che dei reati di abuso in atti di ufficio e di traffico di influenze. Nel secondo semestre del 2023 sarà la volta dei decreti attuativi della riforma Cartabia sull’ordinamento giudiziario, e della riforma costituzionale della separazione delle carriere, che dunque affiancherà alla iniziativa parlamentare già intrapresa, quella del Governo.
È stata questa la risposta del Ministro alla ferma protesta delle Camere Penali, che con tre giorni di astensione dalle udienze avevano denunziato il grave ritardo delle riforme annunziate e le forti contraddizioni della politica della giustizia nei primi mesi del nuovo governo. Una risposta importante, che abbiamo dunque apprezzato per la significativa scelta delle priorità -da noi pienamente condivise- che connotano quel cronoprogramma.
Ora però si tratta di comprendere quali saranno, in concreto, i contenuti di queste riforme; del che sappiamo poco o nulla, mentre immaginiamo al contempo le resistenze che ad esse saranno opposte, forse dall’interno della stessa maggioranza di Governo e certamente dalla Magistratura associata e dai suoi avamposti presso i ruoli cruciali della amministrazione ministeriale.
Abbiamo perciò ritenuto utile ed anzi necessario, proprio in occasione della bella e partecipata manifestazione nazionale del 21 aprile scorso, affidare ai componenti l’Ufficio di Presidenza della Giunta UCPI il compito di ricordare, per ciascuno di quei cruciali temi di riforma, le idee dei penalisti italiani, che il Ministro ha già annunciato saranno protagonisti, insieme alla Magistratura associata, di una serrata interlocuzione nel percorso avviato dal Governo.
Desidero perciò ringraziare Paola Rubini, vice-Presidente, Eriberto Rosso, Segretario, Domenico Putzolu, Tesoriere, e Daniele Ripamonti, tutti componenti del nostro Ufficio di Presidenza, non solo per la qualità e la efficacia sintetica delle loro relazioni, ma soprattutto per avere in tal modo consentito di ricostruire con chiarezza le nostre idee di riforma, che ci guideranno in questo decisivo tratto di strada nella interlocuzione con il Governo e con il Parlamento, e con esse un vero e proprio profilo identitario, una mappa genetica di ciò che siamo, e che orgogliosamente vogliamo continuare ad essere.
- Le riforme che vogliamo. Impugnazioni e intercettazioni. Eriberto Rosso
La nostra astensione è perché finalmente si passi dai manifesti condivisi ai provvedimenti legislativi. Abbiamo ritenuto di dover dare un segnale forte alla politica, che ha emanato provvedimenti, nella migliore delle ipotesi lontani dalla nostra idea di libertà e di processo penale, in qualche caso davvero inaccettabili, contrari al senso di umanità e alla funzione della pena per come declinata all’art. 27 della Costituzione. Il pensiero va alla nuova disciplina delle ostatività e al terribile contagio ostativo che rende la connessione non un viatico per un trattamento sanzionatorio più mite ma il virus che infetta l’intera esecuzione.
Chiediamo al Ministro Nordio di essere interprete e realizzatore di quelle riforme da lui annunciate e da noi assai apprezzate. Ora, e non dopodomani.
In sede di consultazione con il Ministro siamo stati informati in modo preciso sugli ambiti degli interventi oggetto del cronoprogramma di governo in materia di giustizia. Sono tutti temi sui quali negli ultimi mesi l’Unione ha dato specifici contributi, anche coadiuvata dalla attività del proprio Centro studi; la scelta per la nostra manifestazione nazionale è quella di un protagonismo diretto della Giunta che, attraverso gli interventi dei componenti dell’Ufficio di Presidenza, darà conto del merito delle riforme che vogliamo.
Appello del Pubblico Ministero e abrogazione dei commi 1 ter e 1 quater dell’art. 581 c.p.p.
Sentiamo ancora riecheggiare proposizioni che mettono in relazione l’appello del Pubblico Ministero alla obbligatorietà dell’azione penale; si tratta di considerazioni da tempo superate, confutate sin dalla vigenza del codice Rocco. In allora si dubitava già della costituzionalità di tale prerogativa riconosciuta all’accusa. È una lunga storia, ma che possiamo riprendere in ogni sede e nel corso di qualsiasi consultazione.
Qui ci basta dire che l’intervento della Corte costituzionale, che ha abrogato la nuova disciplina introdotta dalla cd. legge Pecorella, da una parte ha mostrato i suoi limiti interpretativi al punto da convincere la commissione presieduta da Giorgio Lattanzi a riconsiderarne almeno uno dei capisaldi, dall’altra dobbiamo anche ammettere che da essa si sono volute far discendere conseguenze capziose. Quel che è certo è che tale decisione risalente non è ritenuta dagli operatori l’unico riferimento del pensiero della Consulta e gli stessi Giudici costituzionali hanno avuto modo di ribadire che parità tra accusa e difesa non si traduce necessariamente nella identità dei poteri e delle prerogative processuali tra Pubblico Ministero e imputato.
L’appello del Pubblico Ministero è certamente incompatibile con il principio del ragionevole dubbio. Un giudice ha già dubitato della colpevolezza dell’imputato e lo ha fatto in una cornice scevra da censure di legittimità, poiché evidentemente a quelle il Pubblico Ministero avrebbe fatto ricorso.
L’appello dell’imputato è all’evidenza uno strumento, non un privilegio, di cui il sistema abbisogna per evitare l’errore giudiziario. Il sistema delle garanzie che discendono dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (comma 5: «Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge») e che ha come ulteriore presidio l’art. 2 del protocollo CEDU e l’art. 24, comma secondo, della Costituzione impone il riconoscimento dell’impugnazione di merito da parte del condannato, non certo legittima una generica da parte dell’accusa ad un esito liberatorio.
Senza indugiare sul richiamo a vicende umane ma anche dagli importanti risvolti politici, incastonate nella più recente cronaca del nostro Paese, non si può non rilevare come la condanna per la prima volta in grado di appello – lo ha già detto la dottrina processuale più illustre – sottragga definitivamente all’imputato il diritto al riesame del suo caso, diritto che invece si riconosce al Pubblico Ministero.
Abbiamo avanzato, in questi mesi, in un preciso percorso che ha coinvolto l’Accademia e la nostra Inaugurazione dell’anno giudiziario, tante proposte per superare le criticità che ci hanno consegnato i decreti delegati “Cartabia” e che cominciamo a verificare negli effetti nella quotidiana esperienza professionale. Il Ministero ci ha chiamati a comporre una commissione, ne abbiamo chiesto l’ampliamento; in quella sede daremo il nostro contributo per risistemare quella disciplina.
Ma al Ministro abbiamo portato due proposte fuori sacco.
La Corte di cassazione, in una impostazione che non abbiamo mai condiviso, ci ha oramai imposto specificità intrinseca ed estrinseca dei motivi di impugnazione. Ma se volete che a ragioni si oppongano ragioni ci dovete spiegare il senso di un intervento ispirato solo da una logica burocratica e forse di una convinzione comunque sbagliata di sollevare il lavoro di cancelleria, di imporre elezione di domicilio e mandato specifico per la ammissibilità dell’atto. Una sanzione devastante per evitare la verifica di un indirizzo che comunque dovrebbe essere fatta, atteso che all’evidenza anche il domicilio indicato all’atto del conferimento del nuovo mandato potrebbe rivelarsi inidoneo.
Il Ministro ha i nostri documenti. L’abrogazione dei commi 1 ter 1e 1 quater dell’art. 581 si impone al fine di consentire il corretto esercizio del diritto di impugnare.
Su una cosa ha ragione ANM quando ci ricorda che tale era nella delega, ma noi pensavamo che potesse essere diversamente interpretata e proprio per questo abbiamo chiesto un intervento separato ed immediato. Su questo si gioca una partita che ha a che vedere con la effettività dei principi del giusto processo e, se mi consentite, anche con la serietà con la quale deve essere svolto il mandato professionale. Il Ministro, così attento alla cultura liberale, dovrà stare con noi.
Altra questione che porteremo subito alla sua attenzione è la possibilità di celebrare le udienze di prova da remoto. Neppure Bonafede aveva osato tanto. A questo dobbiamo porre subito rimedio.
Le intercettazioni.
Ulteriore materia del cronoprogramma di riforme del governo, che il Ministro ci ha assicurato essere alle viste, è quella delle intercettazioni telefoniche. Anche qui approfondiremo, e siamo pronti a dare il nostro contributo; ma debbono essere chiari alcuni capisaldi necessari per superare l’attuale disciplina sulla quale la precedente Legislatura ha inteso fare “melina”. È sì necessario migliorare la tutela del segreto interno ed esterno ed arginare il fenomeno della indebita pubblicazione delle conversazioni intercettate. Ma prima di tutto l’intervento riformatore, come ben chiarito nel documento depositato dal Presidente Caiazza in occasione di una sua recente audizione dinanzi alla Commissione giustizia del Senato, «per assicurare il pieno rispetto della Carta costituzionale […] dovrà prevedere:
- un tassativo e limitato catalogo di reati per i quali, a fronte di gravità indiziaria e assoluta indispensabilità per la prosecuzione delle indagini, sia consentito al giudice di autorizzare l’attività di intercettazione;
- l’utilizzabilità delle intercettazioni medesime esclusivamente in relazione al reato per il quale sono state disposte. È infatti necessario salvaguardare il principio per cui la deroga alla garanzia costituzionale, autorizzata dal giudice, interviene esclusivamente con riguardo a una ben definita fattispecie incriminatrice;
- il divieto assoluto di intercettazione e, comunque, di ascolto delle comunicazioni tra difensore e assistito; nonché il rafforzamento della sanzione processuale di inutilizzabilità, con l’obbligo di distruzione dell’intercettazione eventualmente realizzata».
Unione e ANM.
Il nostro rapporto con l’Associazione Nazionale Magistrati vive un momento complicato. Vorrei dire loro che le Camere penali hanno come modalità naturale il confronto con la Magistratura, nel rispetto di ruoli e funzioni, ma che insieme dobbiamo trovare almeno scampoli di una cultura dei diritti che non può che essere comune. Fate male a opporvi, spesso con argomenti speciosi, alla separazione delle carriere, al rafforzamento cioè del ruolo e della forza del giudice, la effettività della cui terzietà è garanzia per tutti. Fate male a non considerare il terreno delle garanzie e la effettività delle forme del contraddittorio come bene comune da preservare, senza fumisterie, quali ad esempio il recupero degli atti già compiuti o le udienze da remoto. Confrontiamoci, verifichiamo ai tavoli e nelle sedi territoriali spazi per proposte comuni. Siate comunque certi che, anche quando non condivideremo la vostra azione, saremo baluardo per la vostra autonomia e per la vostra indipendenza.
- Le riforme che vogliamo. Prescrizione. Paola Rubini
La prescrizione è un tema che ha impegnato i penalisti italiani nel passato.
Tutti ricordano la straordinaria “Maratona oratoria per la verità sulla prescrizione” del dicembre 2019.
È ancora oggi un tema rilevante oggetto della nostra azione politica per la realizzazione delle riforme liberali.
Abbiamo espresso il più vivo apprezzamento per quanto dichiarato dal Ministro della Giustizia Nordio in particolare in occasione della presentazione in Parlamento del programma delle riforme sulla giustizia, approvato a larga maggioranza. Tra le riforme annunciate anche quella sulla prescrizione.
Ancora si odono i pifferai magici che strenuamente difendono l’indifendibile – “il fine processo mai” – sotto il cappello del PNRR, una sorta di panacea per i mali della Giustizia. Ma il PNRR non è un miracoloso unguento se le risorse così generose provenienti dall’Europa alla fine tendono solo ad annientare le garanzie del diritto di difesa. In nome dell’efficienza (rectius “efficientismo”) si rovescia sul cittadino sottoposto a processo la incapacità dello Stato di assicurare il rispetto dei tempi ragionevoli per giungere alla sentenza definitiva.
I penalisti italiani chiedono che sia ripristinato nel nostro sistema l’istituto della prescrizione sostanziale con le necessarie modifiche quale quella della abrogazione dell’art. 344-bis c.p.p. che ha introdotto lo spurio istituto della prescrizione processuale ma anche quella alla Legge Orlando n. 103/2017 che ormai a seguito della sua entrata in vigore il 3 agosto 2017 comincia a svolgere i suoi effetti deleteri collegati alla sospensione della prescrizione durante il tempo necessario al deposito della motivazione della sentenza di primo e secondo grado e per un tempo non superiore a 1 anno e sei mesi: (cfr. art. 1, comma 11, lett. b) L. n. 103/2017).
È quindi necessario prevedere criteri mitigatori e di ripensamento della complessiva disciplina, oramai assai difficile da applicare al singolo caso di specie in conseguenza della successione nel tempo di diverse affastellate normative, una volta abrogata la prescrizione processuale.
Si ponga mente al fatto che l’art. 344-bis c.p.p. determina il proscioglimento per improcedibilità dell’azione penale invece della mera sospensione: vanno pertanto recuperate le garanzie del giusto processo ormai offuscate in gran parte dall’avvento della Riforma introdotta dal Decreto Legislativo n. 150/2022, magari utilizzando come base di discussione il progetto elaborato dalla Commissione Lattanzi.
La analisi delle risultanze statistiche afferenti alla durata media dei giudizi di impugnazione, come è noto, sono pubblicate periodicamente nel rapporto di valutazione della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (c.d. CEPEJ). Il più recente rapporto pubblicato il 5 ottobre 2022 fotografa anche la durata media dei giudizi di impugnazione nel biennio 2019-2021 degli Stati aderenti alla UE, pur nella diversità di ogni sistema giudiziario: in Italia il giudizio di cassazione viene definito in media in circa 150 giorni considerando che il carico annuo è di circa 50mila ricorsi.
Il dato, evidentemente, non tiene conto della elevatissima percentuale di inammissibilità che certamente contribuisce alla “rapida” definizione dei ricorsi. Nel 2021 le inammissibilità dichiarate in cassazione si sono attestate sul 70,8% mentre le prescrizioni sono state 756 corrispondenti all’1,6% dei procedimenti.
Al contrario, il disposition time (l’indicatore di durata utilizzata a livello europeo che fornisce una stima del tempo medio atteso di definizione dei procedimenti mettendo a confronto il numero di quelli pendenti alla fine del periodo di riferimento con il flusso dei definiti nel periodo) del giudizio di appello è pari a 906 giorni, ben 8 volte superiore alla media europea e più del doppio del giudizio di primo grado. Nel grado di appello si registra infatti il 25% delle prescrizioni corrispondenti a circa 30mila sentenze.
La “formula magica” del legislatore della riforma per raggiungere gli obiettivi del PNRR si concentra sull’abbattimento dell’arretrato, quello del passato e quello in entrata. Il tema è di enorme interesse perché il meccanismo delle inammissibilità inserite nell’art. 581 c.p.p. con i nuovi commi 1-ter e 1-quater, tra le ragioni della astensione deliberata il 27 marzo scorso, costituiscono il punctum dolens ma anche il grimaldello dell’intero sistema delle impugnazioni, scardinato letteralmente dalle sue fondamenta con buona pace del favor impugnationis.
L’obbligo di elezione di domicilio da rilasciare dopo la sentenza oggetto di impugnazione per tutti gli imputati e il mandato specifico ad impugnare per gli assenti hanno già chiaramente manifestato i loro effetti: per l’intanto i difensori, soprattutto di ufficio, non potranno più proporre appello o ricorso per cassazione se non saranno stati in grado di reperire i loro assistiti, ancorché con il termine per impugnare maggiorato di 15 giorni. Così facendo l’arretrato in appello si ridurrà per forza dato che viene eliminata alla radice la facoltà di impugnare con altissimo rischio di generare molti errori giudiziari se è vero che la percentuale di riforma delle sentenze di primo grado raggiunge il 45%.
Altro meccanismo introdotto dalla riforma per abbattere l’arretrato è il nuovo art. 420-quater c.p.p. che prevede la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. Precedentemente veniva pronunciata una ordinanza di sospensione del processo che riprendeva il suo corso se l’imputato, entro il termine di prescrizione del reato, veniva rintracciato. La scelta “tattica” di sostituire l’ordinanza con una sentenza, che conserva la forma e il contenuto di un’ordinanza, ha una immediata ricaduta benefica sul raggiungimento degli obiettivi del PNRR: la diminuzione dell’arretrato dato che la sentenza fa statistica. L’effetto è però paradossale e, per un certo verso, inquietante: le ricerche, come prescrive la lett. e) del comma 2 dell’art. 420-quater c.p.p., e a seconda del tempo della prescrizione, vengono rigorosamente calendarizzate in epoca in cui quasi certamente nessuno (imputato e difensore per l’intanto) sarà sopravvissuto tanto sono in là da venire per certe tipologie di reato.
Il timore, non proprio infondato per il vero, è che in nome dell’efficienza (e del PNRR) si perda di vista la qualità del sistema Giustizia e quindi la connessa aspettativa del cittadino, sia esso imputato o vittima, a una risposta che soddisfi le sue esigenze di giustizia.
- Le riforme che vogliamo. Le misure cautelari personali. Domenico Putzolu
Tra gli interventi in materia penale previsti nel cronoprogramma approvato dal Consiglio dei ministri parrebbe esserci anche le norme in materia di misure cautelari personali. Va dato conto che sull’argomento non vi sono, in epoca recente, proposte organiche da parte dell’Avvocatura Penalistica. Non essendo noti che pochi dettagli sul futuro intervento normativo, proverò, quanto meno, a sottoporvi alcune considerazioni.
Due le riflessioni per così dire preliminari: la prima è relativa all’eventuale opportunità di introdurre modifiche nel nostro sistema delle misure cautelari. La seconda, alla prima stremente connessa, è quali siano, nel nostro ordinamento, le criticità rilevanti che rendano indispensabile un intervento normativo.
La risposta a tale ultima domanda è affatto scontata: in ordine alle misure cautelari e a quelle coercitive in particolare, si sono radicate nel nostro ordinamento nel tempo gravi criticità. Nonostante la Costituzione Repubblicana ne fissi in manieri netta i limiti della materia con l’articolo 13 che sancisce tutela la libertà personale e con la presunzione di non colpevolezza di cui al comma 2 dell’art. 27, da tempo si lamento sia tra giuristi che nella società civile in genere un utilizzo distorto delle misure cautelari che va a discapito di uno dei diritti fondamentali della persona nell’ordinamento democratico Le criticità non hanno trovato risoluzione, neppure dopo l’entrata in vigore del codice del 1988 che con l’introduzione di un rito tendenzialmente accusatorio dovrebbe essere quanto di più ontologicamente lontano dal concetto di misura cautelare intesa come accertamento preventivo della responsabilità o come anticipazione della pena. Già nel 1970 la Corte costituzionale, con la sentenza n. 64, avvertiva che le misure limitative della libertà devono essere esclusivamente finalizzate a soddisfare esigenze di carattere processuale o di cautela. I numeri consentono di dubitare fortemente che tale chiaro indirizzo sia stato recepito. Infatti nell’anno 2022 su un totale di 56.196 detenuti, i condannati non definitivi erano 7145 dei quali 3754 appellanti, mentre 8430 erano le persone ancora in attesa addirittura del primo giudizio; nel 2008 il dato era ancora più preoccupante atteso che i detenuti non definitivi erano pari al 52% del totale della popolazione carceraria; tale percentuale si è attestata negli ultimi anni intorno al 30%. Dal dato numerico emerge con chiarezza che nel nostro Paese si continua ad avere un concetto di misura coercitiva come anticipazione della pena.
Rispondendo così alla domanda scaturente dalla mia prima riflessione si può affermare che un intervento è forse necessario, ma bisogna subito dopo chiedersi quale sarebbe la riforma della quale vi è necessità Pur argomentando a spanne, visti i tempi molto limitati, è necessario avvertire che relativamente all’ articolo 274 che come sapete disciplina le esigenze cautelari e all’ art. 275 che invece individua i criteri di scelta delle misure, sono intervenute negli anni 8 modifiche legislative; in ordine all’articolo 275, inoltre, sono state emesse ben 8 sentenze di illegittimità costituzionale. È quindi opportuno chiedersi, primariamente, se il problema è solo di qualità della norma o sussiste un problema applicativo. Per rimanere sui numeri debbo segnalare che nel 2021 le misure cautelari sono state circa 81.000 (negli ultimi anni il dato è pressoché costante e si attesta sempre intorno ad 80.000 provvedimenti cautelari personali emessi), la custodia in carcere risulta essere stata applicata nell’anno 2021 nel 30% dei casi, mentre la misura degli arresti domiciliari ricorre nel 22% dei casi la modalità del braccialetto elettronico è pari al 3%. La custodia cautelare in carcere, ed è un dato che deve fare necessariamente riflettere, continua a farla da padrone tra le misure custodiali ricorrendo nel 60% dei casi.
Una delle critiche più diffuse, come è ben noto agli avvocati, è quella che concerne la motivazione dell’ordinanza che applica la misura. È noto a tutti il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine alle tecniche di redazione della motivazione e tra queste, in ragione dell’evidente comodità per colui che è chiamato ad emettere il provvedimento, ha trovato ben presto ampia diffusione quella, invero impropria, del cosiddetto “copia incolla”, vale a dire: l’apparato motivo viene confezionato riportando testualmente la richiesta del Pubblico Ministero, di tanto in tanto, intercalata da frasi di stile. La mancanza di un vaglio critico da parte del giudice sulla richiesta di emissione della misura risultava talmente evidente da rendere necessario un intervento normativo: nel 2015, infatti, con una modifica del comma 9 dell’art. 309 del codice di rito è stato previsto che l’ordinanza debba contenere l’autonoma valutazione da parte del giudice degli elementi sui quali deve fondarsi la misura e di quelli forniti dalla difesa, sanzionandone la carenza a pena di nullità. Si tratta di una norma senz’altro resa necessaria dal contesto applicativo, ma affatto pleonastica in un corretto esercizio dell’attività decisionale; posto che l’autonomia della valutazione dovrebbe essere una delle regole insite nell’adozione non solo dei provvedimenti giudiziari, ma di qualsivoglia esito decisionale. Il fatto che per ottenere l’applicazione di una regola di palmare evidenza sia stato necessario introdurre un’espressa previsione normativa e addirittura una sanzione processuale ne certifica indubitabilmente l’anomalia. Di fronte a una ponderosa richiesta di misura cautelare, talvolta accompagnata da una altrettanto ponderosa e non sempre agevolmente gestibile documentazione, risulta più comodo recepirla acriticamente con una sorta di atto di fede.
Secondo quanto si apprende, la modifica che il Ministro Nordio intenderebbe proporre prevederebbe l’attribuzione della competenza ad emettere la misura cautelare ad un collegio di giudici. Non si può non convenire che un giudice collegiale dia maggiori garanzie di ponderazione nella valutazione della richiesta del Pubblico Ministero, in una fase procedimentale, peraltro, di estrema delicatezza. Si deve, a tal proposito, rammentare che la composizione collegiale del giudice della misura cautelare non è, almeno sotto il profilo del dibattito, una novità assoluta; della attribuzione di tale competenza ad un organo giudicante collegiale si discusse nel 2006, all’epoca della Commissione Riccio (quanto meno relativamente ai reati di criminalità organizzata). Le critiche si appuntarono allora sul fatto che quale contrappeso si ipotizzava l’abrogazione della facoltà di riesame. Per esprimersi compiutamente sulla materia è ovviamente necessario acquisire elementi di maggior dettaglio: si pensa, ad esempio, di introdurre anche il contraddittorio anticipato prima dell’adozione della misura, con partecipazione, pertanto, dell’indagato/imputato e del difensore? Questa specifica ipotesi di modifica era stata dibattuta dalla Commissione Dalia nel 2004, i cui lavori confluirono in due disegni di legge presentati nel 2006 (a firma tra gli altri di Gaetano Pecorella) e nel 2008 (a firma di Pecorella e Costa) ed era stata fatta oggetto di discussione anche durante la Commissione Riccio. Il contraddittorio anticipato, previsto anche da alcuni ordinamenti stranieri, contempla, come è noto, un primo provvedimento totalmente sommario teso ad assicurare la presenza dell’indagato, al quale fa seguito la misura restrittiva adottata all’esito del contraddittorio. Si è a lungo discusso sul soggetto che dovrebbe adottare il provvedimento; è opportuno prevedere la competenza del Pubblico Ministero (con attribuzione allo stesso, comunque di un potere privo di alcun controllo preventivo) oppure del Giudice medesimo che così però verrebbe a conoscenza della tesi accusatoria ancor prima di instaurare il contradditorio? Il contraddittorio anticipato all’epoca non venne valutato favorevolmente neppure dall’Avvocatura, la quale ne segnalava l’inutilità attesa la totale disparità di forze, sul piano della conoscenza degli atti di indagine, tra accusa e difesa.
Va dato atto che un provvedimento collegiale in materia di libertà personale, con una sorta di contraddittorio, è previsto nel nostro ordinamento dalla legge 22 aprile 2005 n. 69 in materia di mandato di arresto Europeo.
Ciò che, a nostro avviso, deve essere chiaro è che non può essere minimamente messa in discussione la facoltà di poter richiedere il riesame nel merito dell’ordinanza. Il Giudice collegiale e anche il contraddittorio anticipato non debbono, quindi, avere come contropartita l’abrogazione della facoltà attualmente prevista dall’art. 309 del codice di rito.
Per quanto si apprende un ulteriore intervento normativo dovrebbe prevedere che per i soggetti affetti da tossicodipendenza, piuttosto che la custodia in carcere si adotti quale provvedimento cautelare personale la misura del ricovero in luogo di cura. Si tratta di una scelta condivisibile; i detenuti affetti da problemi collegati all’abuso di droga sono attualmente circa il 25% della popolazione carceraria, in tali ipotesi è evidente che il problema da affrontare prima che giudiziario è sanitario.
Per concludere si può segnalare qualche ulteriore spunto per un intervento normativo.
Una riflessione può essere, ad esempio, fatta sugli automatismi nella scelta della misura cautelare. Attualmente l’art. 275 prevede una presunzione forte per i reati associativi in materia di terrorismo, eversione e criminalità organizzata e una meno forte per altri reati quali l’omicidio ed i reati concernenti la sfera sessuale; sarebbe opportuno eleminare ogni automatismo attribuendo al giudice piena autonomia di valutazione; allorquando si parla di libertà personale, non si deve presumere nulla. Sarebbe, inoltre, opportuno rivisitare i limiti di pena e comunque il catalogo dei reati. Un profilo sul quale, infatti, si deve riflettere nel nostro Paese è quello dell’organicità e della riconducibilità a logiche di sistema delle scelte legislative. Come voi ben sapete con la riforma di cui al D. lgs 150 del 2022 è stato ampliato in maniera cospicua il catalogo dei reati per i quali è prevista la citazione diretta di cui al secondo comma dell’articolo 550, includendovi, conformemente al criterio previsto dalla legge delega, anche reati perseguibili con una pena edittale sino a sei anni; si tratta di un gruppo di reati ritenuti di rapido accertamento, come evidenziato anche nella relazione al decreto legislativo. Per questi reati è ora possibile richiedere, in ragione dell’inclusione nell’art. 550 comma 2, la sospensione per messa alla prova di cui all’art. 168 bis. È, però, parimenti possibile, in ragione della pena edittale, applicare una misura coercitiva anche custodiale; risulta, quindi, evidente la contraddittorietà introdotta nel sistema: si andrebbe, infatti, ad applicare una misura coercitiva, anche gravemente afflittiva, per una condotta che potrà essere definita con una sentenza di proscioglimento in ragione della scelta procedurale. Si tratta di una disomogeneità non tollerabile. In tale prospettiva dovrà essere fatta un’ulteriore riflessione anche in conseguenza dell’introduzione delle pene sostitutive che possono ora applicarsi per condanne sino a quattro anni di reclusione, per le pene sino a tre anni sono previsti solo i lavori di pubblica utilità. Il sistema delle misure cautelari dovrà, pertanto, essere coordinato con tali nuove modalità di definizione della vicenda processuale.
È evidente che non si può continuare a legiferare a compartimenti stagni; se si sceglie la strada di favorire le opzioni deflattive, anche per rispettare i vincoli Europei, indirizzo sul quale siamo tutti d’accordo, bisogna percorrerla sino in fondo; per ottenere i risultati è necessario fare scelte coraggiose.
Un’ultima considerazione: Per quanto ci si possa adoperare nella ricerca di soluzioni, quali quella qui dibattuta del Giudice Collegiale in materia cautelare, tese a favorire una “valutazione in autonomia” da parte di colui che deve decidere sulla richiesta del Pubblico Ministero: la soluzione è una soltanto ed è quella della separazione delle carriere. Il rigetto di una richiesta cautelare in una inchiesta importante e mediaticamente di impatto, può segnare talvolta per il Pubblico Ministero una battuta di arresto anche dal punto di vista delle prospettive di carriera; solo un Giudice davvero terzo anche per percorso professionale e organo di autogoverno, può decidere senza condizionamenti. Inutile, quindi percorrere strade tortuose quando si è individuata quella maestra: la separazione delle carriere tra Giudice e Pubblico Ministero.
- Le riforme che vogliamo. L’ordinamento giudiziario. Daniele Ripamonti
Le riforme di carattere strutturale si fanno dalle fondamenta e nel procedimento penale le fondamenta sono costituite dalle norme sull’ordinamento giudiziario.
Come sappiamo, verificandolo quotidianamente nello svolgimento della nostra funzione difensiva, in Italia abbiamo un processo penale formalmente garantito, ma l’assenza di una effettiva terzietà del giudice, rispetto all’accusatore, vanifica le garanzie, rendendole sostanzialmente inefficaci. Questa circostanza dipende non dalle norme del codice di procedura penale, ma dal fatto che il magistrato della decisione ed il magistrato dell’accusa appartengono alla medesima organizzazione e quindi dalle norme dell’ordinamento giudiziario.
È questo il vizio originario che impedisce l’effettiva imparzialità della decisione: di qui l’indispensabilità e l’indifferibilità di una modifica legislativa che separi giudici e pubblici ministeri, quale pre-condizione essenziale, connaturata alla essenza stessa del giudizio penale.
Perché ogni struttura ordinamentale è creata per lo svolgimento di una ed una sola funzione: ed allora, siccome la funzione del decidere è diversa ed anzi antitetica rispetto a quella dell’accusare (come a quella del difendere), occorre creare due strutture ordinamentali separate.
Si tratta di un’operazione che, per essere effettiva, richiede un intervento sulla Costituzione, mentre va chiarito che ogni norma che limiti o anche escluda il passaggio da una funzione all’altra nel corso della medesima carriera realizza solo la separazione delle funzioni, mantenendo la genetica appartenenza comune del giudicante e del requirente.
I contenuti della riforma che noi vogliamo sono noti e qui possono essere riassunti indicandone gli aspetti essenziali: un nuovo art. 104 Cost., il quale preveda che “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente”; due concorsi, due carriere e due CSM; un pubblico ministero indipendente ed autonomo da ogni altro potere, con lo stesso statuto di magistrato del giudice.
Con una felice sintesi abbiamo detto e confermiamo che noi vogliamo “Un PM indipendente dalla politica. Un giudice indipendente dal PM”.
Solo così il diritto di difesa sarà effettivo, così come le garanzie processuali previste dal codice di procedura penale.
Venendo quindi alla concreta attuazione di tale prospettiva riformatrice, nel mantenere gelosamente la nostra trasversalità noi osserviamo e registriamo le mutazioni del quadro politico, che sono anche il riflesso di evoluzioni di storiche posizioni politiche in tema di giustizia penale, a cui forse non siamo estranei con il nostro decennale contributo.
E la prima osservazione che si impone è che le persone contano: da Bonafede a Cartabia, da Cartabia a Nordio, come non rilevare un percorso dal più schietto giustizialismo populista al più autentico garantismo liberale?
Anche se più delle persone contano i contenuti ed i programmi politici, perché essi costituiscono un impegno preso nei confronti dei cittadini ed a questo proposito noi ricordiamo come il programma di governo della coalizione che ha vinto le elezioni contenga, in modo espresso ed assolutamente prioritario, la riforma dell’ordinamento giudiziario con la separazione delle carriere.
Ma ciò che ancora più conta, dopo le persone ed i programmi, sono i fatti concreti e, sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, i fatti al momento ci preoccupano.
È vero che ad ogni nostra sollecitazione pubblica su questo tema tutte le componenti della coalizione di governo (ed anche una significativa parte dell’opposizione) confermano il loro impegno, ma poi dobbiamo registrare alcuni fatti concreti.
Innanzi tutto, il partito di maggior peso nel governo, che ha anche espresso il Ministro della Giustizia, non ha presentato una propria proposta di legge di riforma sull’ordinamento giudiziario con la separazione delle carriere (mentre lo hanno fatto le altre forze politiche di maggioranza, ed una di opposizione, ricalcando sostanzialmente la proposta di legge di iniziativa popolare che promosse l’UCPI raccogliendo oltre 70.000 mila firme tra i cittadini).
Poi, la parte della riforma Cartabia relativa all’ordinamento giudiziario (Legge 17.06.22, n. 71) di delega al governo per la adozione dei decreti legislativi attuativi, contenente importanti novità in tema di valutazione di professionalità dei magistrati, progressione in carriera per merito, collocamento fuori ruolo e successivo reingresso, porte girevoli tra magistratura e politica, partecipazione degli avvocati ai consigli giudiziari, è già stata neutralizzata dalla magistratura, che ha ottenuto un rinvio dell’entrata in vigore dal 30 giugno al 31 dicembre 2023.
Ed ancora, nei ministeri ed in particolare in quello della giustizia le funzioni apicali sono ancora state assegnate a magistrati distaccati, in assoluto spregio al principio della separazione dei poteri e con il rischio concreto che a dare esecuzione ad una volontà politica riformatrice siano chiamati magistrati che non condividono tale volontà (e dunque vedremo se mai e come costoro scriveranno i decreti legislativi che secondo la riforma Cartabia debbono limitare la loro collocazione fuori ruolo e poi la loro reimmissione).
Insomma, noi crediamo di saper cogliere i segnali ed alcuni di questi non sono sicuramente in linea con il programma liberale di riforma dell’ordinamento giudiziario.
E tuttavia, con approccio costruttivo, noi continuiamo a confidare nella possibilità di questa riforma, in questo confortati in primo luogo dalla storia personale del Ministro, che non ammette dubbi circa le sue convinzioni.
Così come dobbiamo confidare nell’attuale quadro politico, che per la prima volta ha i numeri per fare una riforma liberale della giustizia penale.
Ma soprattutto non possiamo che confidare nella coerenza delle forze politiche che hanno sottoscritto un programma e lo hanno proposto ai cittadini, vedendosi premiati con la fiducia.
Per queste ragioni, con la nostra iniziativa di questi giorni, che in verità ha immediatamente prodotto una reazione positiva, intendiamo rilanciare il programma di riforma liberale della giustizia penale attraverso un richiamo agli impegni presi ed uno stimolo alla loro realizzazione.
Ovviamente sugli impegni assunti noi saremo attenti a verificarne i contenuti, anche perché non possono essere la riforma di un singolo istituto o di una norma, per quanto rilevanti, a cambiare il processo penale dalle fondamenta ordinamentali.
Seguiremo dunque il percorso parlamentare della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario in modo costante, attento ed attivo, intercettando e comunque denunziando ogni tentativo di affievolimento, nei tempi e nei contenuti, e soprattutto mettendo a disposizione di tutti, come sempre, il nostro contributo e la nostra passione.