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PARADIGMA VITTIMARIO E IDEA RIPARATIVA. CRITERI DI ORIENTAMENTO IN UNA POTENZIALE CONTRADDIZIONE DI SISTEMA – DI MASSIMO DONINI

PARADIGMA VITTIMARIO E IDEA RIPARATIVA. CRITERI DI ORIENTAMENTO IN UNA POTENZIALE CONTRADDIZIONE DI SISTEMA – DI MASSIMO DONINI

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PARADIGMA VITTIMARIO E IDEA RIPARATIVA. CRITERI DI ORIENTAMENTO IN UNA POTENZIALE CONTRADDIZIONE DI SISTEMA

VICTIM-CENTERED PARADIGM AND RESTORATIVE IDEA. CRITERIA FOR ORIENTATION IN A POTENTIAL SYSTEMIC CONTRADICTION
di Massimo Donini*

Lo scritto è dedicato all’idea riparativa in generale nel processo penale, al suo significato “sanzionatorio” (per le conseguenze tipizzate nelle norme penali) in un contesto culturale vittimocentrico intriso di antinomie ideologiche. L’analisi riassume i termini del rapporto tra delitto riparato (legato all’offesa o al danno, una riparazione prestazionale) e mediazione penale (un percorso di riconciliazione con esiti eventualmente anche solo simbolici). Pur ribadendo la convergenza delle due forme riparative, e l’attrazione dell’esito (non del percorso) della mediazione nel paradigma principale della riparazione dell’offesa, l’oggetto specifico dell’analisi è costituito da una critica alla piena equivalenza tra riparazione prestazionale e mera riconciliazione immateriale: la sottolineatura dei rischi permanenti di sbilanciamento vittimocentrico della giustizia riparativa verso una sua possibile torsione retributiva e la tendenziale preferenza accordata al modello più laico di delitto riparato incentrato sull’offesa rispetto alla più ambigua, indeterminata e opportunisticamente strumentalizzabile riparazione solo simbolica.

The paper is devoted to the restorative idea in general in the criminal process, its “sanctioning” significance (for the consequences typified in criminal norms) in a victim-centered cultural context steeped in ideological antinomies. The analysis summarizes the terms of the relationship between repaired crime (linked to offense or harm, a performance reparation) and penal mediation (a path of reconciliation with possibly even symbolic outcomes). While reaffirming the convergence of the two reparative forms, and the attraction of the outcome (not the pathway) of mediation into the main paradigm of reparation of the offense, the specific object of the analysis is a critique of the full equivalence between performance-based reparation and mere immaterial reconciliation: an underlining of the permanent risks of victim-centered imbalance of restorative justice toward its possible retributive twist, and the tendency to give preference to the more secular model of offense-centered reparative crime over the more ambiguous, indeterminate, and opportunistically instrumentalized symbolic-only reparation.

 

Sommario: 1. Una premessa di fondo. 2. La tradizione. 3. Mutamenti in corso. 4. Pena agìta e rafforzamento del precetto. 5. Delitto riparato e giustizia riparativa. Differenze. 6. Se sia vera pena la riparazione “prestazionale”. 7. Convergenze tra le due forme di riparazione. 8. Divergenze culturali, tecniche e processuali, tra il delitto riparato e la riparazione mediativa. 9. Il vento europeo e internazionale a protezione delle vittime.

  1. Una premessa di fondo.

La sanzione penale, che interviene dopo la commissione del reato, non ha avuto tradizionalmente la finalità primaria di tutelare ex post la vittima, non potendo cancellare il delitto. Invece il meccanismo preventivo della legge penale, e della politica criminale nei suoi tratti caratteristici sia di formazione ai valori, sia di deterrenza, sia di neutralizzazione secondaria degli effetti del reato e di protezione delle persone offese o dei familiari nel corso delle indagini e dai pericoli e dai danni indotti dal reato, ha visto crescere in grado massiccio le logiche vittimocentriche, facendo emergere un paradigma vittimario dentro al confliggente modello classico processuale, incentrato sul tema della responsabilità e dei diritti dell’imputato. È un trend internazionale. La stessa pena assume finalità riparatorie, e la riparazione diventa pena. Ciò si potrebbe declinare in chiave retributiva o in prospettiva umanistico-riconciliativa. Tale ultima prospettiva apre scenari davvero nuovi nel triste panorama del diritto penale tradizionale. Purtroppo, l’idea riparativa, nelle sue diverse declinazioni, convive con il riemergere di paradigmi vittimari vendicativi e spesso ottusi. Questo è lo scenario attuale, il quale non può che sollecitare una attenzione e anche una preoccupazione rilevanti per la funzione difensiva. Oggetto della presente disamina saranno principalmente gli aspetti problematici della pretesa della riparazione simbolica di occupare le logiche processuali dell’idea riparativa e la coesistenza di paradigmi conflittuali al suo interno.

  1. La tradizione.

Nessuna pena può trasformare la vittima in “persona non offesa”. Questo è il dramma del diritto penale più classico, fondato su fattispecie lesive a modalità violenta o fraudolenta, a differenza degli illeciti civili. Nessuna composizione, nessun risarcimento, nessuna riparazione, nessun pentimento è in grado di riavvolgere le sequenze del delitto perché tutto regredisca a prima di esso. Non si torna indietro. In questa visione c’è qualcosa di umanamente terribile e drammatico, che distacca in misura incolmabile il diritto penale da quello dei privati, e in buona parte anche da quello amministrativo. Non solo. Secondo tale concezione la pena-vendetta non potrà mai bastare alla persona offesa: la lascerà vittima per sempre, fotografata perennemente in quel ruolo passivo. C’è qualcosa di tragico in tutto ciò. Una tragedia per nulla inevitabile, e che si riflette sullo stesso modo di concepire la pena, o che reciprocamente la riproduce. Da questa esperienza, infatti, e soprattutto da quella dei reati del tutto irreparabili in termini economici o di lesività personale e sociale, deriva la persuasione tradizionale che la pena sia una sanzione non riparatoria. E se la pena non è riparatoria, non le rimane altro che essere afflittiva: un male aggiunto, perché le altre finalità, di risocializzazione, rieducazione, emenda, prevenzione speciale ecc. sono obiettivi del tutto eventuali nell’esito, che se non si ottenessero (come ben spesso accade) non farebbero venir meno quel contenuto afflittivo residuo, ma anche essenziale.

Infatti. La giustizia riparativa e la riparazione dell’offesa costituiscono un segno positivo, ma sono rimaste fino ad oggi eventuali nella concezione della pena, perché la scansione è questa: ci sono dei doveri, dovere di subire la pena, la pena subìta, la pena come pati, la sanzione coercibile; poi invece c’è l’obbligo del risarcimento, risarcimento civilistico, sanzione ovviamente eseguibile coercitivamente con esecuzione forzata. Invece, la riparazione dell’offesa in senso stretto viene concepita come un onere, perché non è coercibile, perché non si può costringere a un facere, a un fare, a parte l’interferenza fra riparazione e risarcimento che concettualmente sono due cose diverse: anche quando c’è il risarcimento di un reato patrimoniale, questo non ripara interamente l’offesa perché l’offesa non è solo il danno, essendoci anche il disvalore di azione, che rende l’offesa penale più complessa. Quindi il mero risarcimento non ripara pienamente, risarcisce ma non ripara integralmente l’offesa. Esistono poi forme di riparazione coatta, o ipotesi di coercizione a prestazioni come la confisca per equivalente del profitto del reato: tuttavia quest’ultima è pienamente riparativa se il bene confiscato ritorna al soggetto passivo, non se viene semplicemente incamerato dallo Stato.

Non solo. La riparazione è vista come mero onere anche perché la società (rectius: una sua parte rilevante) non crede che questa forma di ristoro rappresenti la risposta vera al delitto. La risposta vera, nella sua scansione ordinaria, nella misura normale, è parametrata sull’offesa cagionata e sulla colpevolezza dell’autore del fatto, e prescinde geneticamente dalla riparazione (che ritorna tra i criteri impliciti della capacità a delinquere, al n. 3 dell’art. 133 c.p., parte seconda). Questa è la legge millenaria del diritto penale: la pena c’è a prescindere dalla riparazione, si impone proprio perché la riparazione o è impossibile (oggettivamente o soggettivamente), o non potrebbe bastare mai. Questo assunto rappresenta una verità scientifica per il diritto penale tradizionale, conosciuto fin qui.

 

  1. Mutamenti in corso.

La scommessa del tempo presente, invece, è quella di rendere le più riparabili possibile le conseguenze del reato e i più reinseribili possibile i loro autori, salvo quelli che si intendono escludere per sempre, o almeno per un lungo periodo di tempo. Inclusi ed esclusi sono le due categorie di fondo, sia pur nel rispetto del principio di umanità imposto dall’art. 27, co. 3, Cost.[1] Nello stesso tempo, la scommessa si gioca a favore delle persone offese, affinché la pena stessa risulti, per esse e per la società, riparatoria. Questo programma mette in gioco la rilevanza del postfatto. Dopo il delitto c’è ancora una chance. Anche se non si torna indietro, si va avanti in un percorso utile e anche umanisticamente positivo. La pena non è solo compensazione di una colpa passatista, che guarda solo al fatto commesso, a quel fatto immutabile per sempre nel suo disvalore simbolico, che resta dunque solo limite, e non fondamento, del punire.

La prima domanda, quindi, è: quale è il rapporto tra il postfatto, la condotta successiva al reato, e la pena?

Si tratta di una politica del diritto che mette in gioco profondamente anche il ruolo del difensore dell’imputato, ma altresì dell’accusa e del giudice, quanto più essa si inserisca nei tempi e nei gradi del processo ordinario, durante il quale l’indagato-imputato è innocente per presunzione costituzionale.

Ci sono buone ragioni per affermare che la misura-proporzione muta per effetto della riparazione (chi estromette la parte civile sa bene, da sempre, quale positivo effetto ciò abbia sul giudizio), ma soprattutto che anche la riparazione è pena, perché se si realizza il fatto sopravvenuto di un risarcimento o di una condotta riparativa, esso diminuisce la pena e dunque fa parte di quel complesso sanzionatorio (art. 62, n. 6 e 133 cpv. n. 3, c.p.): la pena già in astratto non è solo pena subìta, potendo diventare anche pena agìta. Ciò sarebbe tuttavia insufficiente per affermare la natura penale-punitiva della riparazione, che suona ancora come una sorta di controsenso ideologico se rapportato ai millenni di teoria e prassi della pena-sofferenza subìta. Invece, la declinazione di questa riparazione muta allorché lo Stato costruisca un vero programma di sanzioni riparative, che offre in alternativa alle pene principali minacciate[2]. Si può usare la riparazione dell’offesa e del danno come pena, al posto della classica pena subìta. Si tratta di concepire la riparazione come un servizio sociale che lo Stato allestisce. Non in funzione meramente retributiva: prima ripari il danno-offesa, e subisci la pena meritata residua, poi verrai rilasciato per aver saldato il tuo debito; ma in funzione riconciliativa per autore, vittima e società: la prima offerta sanzionatoria è la riduzione del male complessivo prodotto dal reato, non raddoppiandolo con una pena simmetrica, che resterà per i delitti più atroci o odiosi, almeno in prima battuta, ma eliminandone le conseguenze personali (il rapporto autore-vittima) e sociali (il danno fatto alla nazione).

La nuova strategia concepisce risarcimento e riparazione come componenti della risposta punitiva. È qualcosa di inusitato, in effetti, ma interno ai paradigmi classici: il postfatto riparatorio è sempre stato vagliato come attenuante-esimente, prima che diventasse un programma politico-criminale dello Stato. La novità è questo progetto, a largo raggio.

  1. Pena agìta e rafforzamento del precetto.

Lo Stato dovrebbe offrire come prima scelta, come programma principale, un percorso riparativo, cioè una sorta di pena agìta attraverso la riparazione, ed è suscettibile, se accolta, di modificare l’entità e anche la qualità della pena afflittiva subìta, in vari casi inevitabile in parte; e poi solo in forma sussidiaria o alternativa la pena subìta, perché se non c’è la prima, allora non si può negare una vera sanzione afflittiva, che a questo punto costituirà l’extrema ratio perché il primo progetto non è stato seguito.

Si noti che anche la pena subìta, anche la pena carceraria classica deve essere vissuta ed eseguita come pena “agìta” affinché risulti rieducativa[3]: e tuttavia siamo nell’ambito del trattamento, dell’esecuzione, non di una scelta originaria e pattizia fra Stato, responsabile, vittima e società com’è nel modello restorative, dove essi fin dapprincipio possono scegliere o convenire un progetto di restaurazione, ripristino, risarcimento, riparazione e riconciliazione.

Questa prospettiva non costituisce un indebolimento del precetto[4]: chi pensa di poter avere sconti di pena perché potrà risarcire e riparare, da sempre lo sa (v. l’art. 62, n. 6 c.p. che prevede una diminuzione fino a un terzo e l’art. 56, u.mo co. c.p., che prevede una pena attenuatissima per i casi di ravvedimento operoso nel delitto tentato, e la non punibilità in tutti i progetti di riforma) e queste figure sono oggi tantissime, conducono varie volte ad attenuazioni molto rilevanti o alla non punibilità; chi può risarcire perché benestante o ricco non dovrà avere una scappatoia patrimonialmente agevole e capace di agevolare in partenza la commissione dei reati; chi non ha questi mezzi dovrà poter riparare con prestazioni diverse da quelle patrimoniali; le forme di riparazione, compresa la neutralizzazione di danni e pericoli, le tipologie di lavori di pubblica utilità, le mediazioni con vittime reali e sostitutive, mirano a un nuovo umanesimo penale, pur convivendo con logiche utilitaristiche spinte, che sostengono tanti condoni come le collaborazioni processuali. È sempre più evidente il riconoscimento da parte dello Stato di una umanità della persona sia dell’autore e sia della vittima, in una prospettiva di dialogo con la comunità di riferimento e di prestazioni utili, e non solo simboliche, ma sempre al fine di riconoscere il precetto, l’altro e la necessità di riparare le conseguenze degli illeciti[5]. Con un residuo, di regola, di pena subìta, per non ridurre il postfatto alla fiera degli sconti sanzionatori, ma neppure al saldo negativo che produce solo esclusione dopo l’offesa del delitto. Se la riparazione costa davvero al responsabile, aggiunta a una parte di pena subìta, e non è un articolo da discount, riafferma il valore del precetto.

Che tutto ciò conviva con logiche di esclusione è un fatto innegabile: il penale da sempre ospita culture antagoniste.

La pena agìta di tipo anche riparativo può già oggi, come vedremo, risultare assorbente e tale da condurre a numerose ipotesi di non punibilità (o anche di estinzione del reato, secondo il lessico legale), una sorta di depenalizzazione in concreto, ma condizionata a prestazioni reali e per nulla simboliche a favore delle vittime: il modello del delitto riparato non è un discount sanzionatorio. Vediamo se si possa dire altrettanto della riparazione mediativa.

  1. Delitto riparato e giustizia riparativa. Differenze.

L’idea del delitto riparato come base per una diversa commisurazione della pena non è vittimocentrica[6], ma prospetta un sistema sanzionatorio che guarda alle conseguenze sociali del reato, recuperando alla sanzione penale un ruolo ripristinatorio o risarcitorio, e assegnando al magistrato una funzione positiva diversa da quella classica della alternativa secca tra assoluzione o raddoppio del male. In uno studio dedicato alla rifondazione della pena su base riparativa, come tale ancorata al “danno fatto alla nazione” (Beccaria), piuttosto che a incerte valutazioni interiori sul quantum di colpevolezza, ho proposto una disequazione: delitto riparato ≤ delitto tentato, vale a dire la prospettiva (de lege ferenda), e salvo mirate eccezioni, che il trattamento punitivo del delitto riparato sia o meno grave di, o equivalente a, quello del tentativo. Ciò è realizzato esemplarmente nel modello della responsabilità degli enti (art. 12, co. 3, d. lgs. 231/2001), ma alla fine è ancor più attuato da una disciplina come quella della messa alla prova, che non conduce a una riduzione sanzionatoria rilevante, ma alla non punibilità (estinzione del reato) (art. 168 bis, ter c.p.). Analoga valenza spetta alla riparazione di offesa e danno nell’art. 162 ter c.p., con estinzione del reato per condotte riparatorie nei reati perseguibili a querela. Il delitto riparato, peraltro, potrebbe costituire un titolo autonomo generale di reato, come il tentativo, al di là delle varie espressioni sanzionatorie specifiche dell’idea riparativa[7].

Riprendendo un tracciato concettuale già tematizzato in precedenti scritti, si può dire che nel lessico penale contemporaneo, anche legislativo, la riparazione è di due tipi[8]. Uno tradizionalissimo, e in realtà fondante, generale, che è cresciuto e si è trasformato profondamente negli anni, rappresenta la riparazione dell’offesa in senso tecnico, il delitto riparato, di rilevanza squisitamente processuale o in vista di conseguenze accertate nel processo. Sono le azioni che eliminano gli effetti del reato mediante restituzioni, condotte attive di neutralizzazione di situazioni pericolose o offensive, prestazioni a favore di vittime o della collettività, forme speciali di recesso attivo, collaborazione processuale, risarcimenti, attività regolate da condoni, sanatorie, indulti, oblazioni etc. La presenza del difensore qui è molto importante. All’interno di queste “prestazioni” si possono collocare anche le riconciliazioni interpersonali con la vittima, quali momenti qualificanti, là dove una vittima è presente. Molto spesso, invece, ci sono riparazioni di reati senza vittima, di offese di pericolo, relative alla sicurezza di situazioni ambientali, imprenditoriali etc. Questo modello è tecnicamente imprescindibile e basico anche per la rilevanza processuale del secondo e oggi più pubblicizzato paradigma riparativo, che è quello della restorative justice, rappresentato da comportamenti di mediazione penale, di riconciliazione con la vittima, che mirano a risolvere il conflitto generato dall’illecito, talvolta anche a prevenirlo, e si collocano fuori dal processo, con la collaborazione di un soggetto terzo formato e imparziale: il mediatore (artt. 2, comma 1, lett. d), Direttiva 2012/29/UE; I. 3 Raccomandazione CM/Rec (2018)8).

Del tutto marginale, in questa tipologia di giustizia riparativa, è la presenza del difensore tecnico, mentre è centrale l’esistenza o la presenza di una vittima (anche sostitutiva di quella reale).

Si tratta di una giustizia riparativa interpersonale, relazionale, e non essenzialmente prestazionale nel senso di orientata a un risultato tipico obiettivabile.

Questo secondo modello, che singolarmente occupa quasi tutta la discussione attuale, mentre non è ancora operativo (salvo che presso le sedi giudiziarie che ritengono di aggirare i testi legislativi applicando comunque i benefici sulla base di relazioni irrituali) per la mancata attivazione dei Centri per la Mediazione penale, se vuole avere rilevanza processuale, paradossalmente deve (ri)entrare nel processo attraverso il primo modello, che presenta una formidabile vis atractiva: uno spazio autonomo della mediazione nel giudizio di cognizione (oltre la istruzione) è possibile essenzialmente negli spazi indeterminati dell’art. 133 c.p. (il regno della discrezionalità), mentre ogni volta che si miri ad effetti tipici quali circostanze o cause estintive o di non punibilità, non si potrà pensare a una pedissequa equiparazione delle forme simboliche della riparazione a quelle prestazionali.

C’è quindi un delitto riparato che esprime una giustizia riparativa “prestazionale”, dove è decisiva una condotta attiva che mira a un risultato tipico interno alle dinamiche dell’offesa, e non solo del rapporto con la vittima. Riguardando l’offesa attiene anche al reato, non alla pena. Il suo nesso col bene giuridico e col danno è insuperabile. Accanto a questa attività promossa dall’ordinamento, e non più lasciata a singole iniziative spontanee, c’è una seconda linea di intervento, anch’essa ora promossa dallo Stato, che riguarda una riparazione “interpersonale”, anche esterna all’offesa e dunque al fatto, al tipo, dove la presenza di una vittima è necessaria (senza vittima non c’è restorative justice[9]) e dove è altrettanto imprescindibile la figura di un mediatore, ma non quella del difensore, che potrà semmai intervenire (oltre che nella fase prodromica di raccolta del consenso) a cose fatte, in sede di redazione di un verbale conciliativo finale.

L’incontro tra queste due logiche, peraltro, ha prodotto una estensione del concetto di riparazione a condotte che non riguardano l’offesa, ma “prestazioni” a favore della collettività, della comunità, di tipo sociale, le quali presentano anch’esse un possibile significato riparativo in senso lato. Tale incontro, peraltro, ha anche generato l’illusione e l’errore prospettico che la RJ abbia un ruolo processuale del tutto prevalente rispetto alla idea riparativa prestazionale. Gli stessi processualisti si occupano solo di questo modello, regolato dalla riforma Cartabia con inusitata dovizia di regole procedurali: ma a quale tipo di diritto penale sono destinati gli accertamenti processuali della mediazione?

 

  1. Se sia vera pena la riparazione “prestazionale”.

Si può ora rispondere alla domanda se una pena agìta, una prestazione volontaria a favore della vittima e/o del danneggiato in funzione riparativa, sia una “vera pena”.

Non parliamo qui della mera riconciliazione, che rappresenta l’esito di un “percorso”, più che un “risultato” riparativo tipico. Né parliamo della mediazione, del “percorso” riconciliativo, che non può essere pena. Il suo esito, peraltro, se concretizzato in una prestazione, in un facere, è interessato a questo momento sanzionatorio.

Già l’attenuante dell’art. 62 n. 6 c.p., che abbatte la pena edittale (e quella in concreto) fino a un terzo, non è una regola realmente esterna alla pena minacciata, come potrebbe sembrare all’apparenza. Il postfatto è già parte della cornice ordinaria (anche se non contiene la diminuzione fino a un terzo). Tanto ne è ricompreso che occupa anche la seconda parte dell’art. 133 c.p. (la capacità a delinquere è desunta: « 3) dalla condotta contemporanea e susseguente al reato »).

La cornice ordinaria (per es. da 1 a 4 anni di reclusione) non è dunque pensata solo per il fatto commesso (la gravità del reato, prima parte dell’art. 133 c.p.). E se il postfatto è già al suo interno, non possiamo pensare a una diminuente del delitto riparato come qualcosa di estrinseco alla pena: è pena essa stessa.

Lo stesso accade se diventa programma sanzionatorio dello Stato una diminuente più generale per la riparazione (la messa alla prova, in parte, lo è già). È una modalità sanzionatoria. E dunque la pena astratta non è più costitutivamente una pena solo retrospettiva, dominata dalla colpevolezza per il fatto e che guarda al futuro solo perché c’è l’art. 27, co. 3, della Costituzione, in vista di programmi di prevenzione speciale. La stessa cornice edittale, il quantum di pena e non solo le sue modalità alternative, sopravvenute al disegno codicistico, contengono da sempre una chiara limitazione della prospettiva retributiva, quella “passatista” e retrospettiva.

Tradizionalmente è stata solo considerata la possibilità di una attenuante comune per la riparazione, salvo ipotesi speciali. Ma è in corso una evoluzione[10].

La commisurazione infraedittale (che guarda alla condotta successiva al reato) ex art. 133 c.p. non è un genere di pena diverso da quella extraedittale che utilizza cornici nuove, per es. le circostanze o altre strategie sanzionatorie: la stessa mediazione penale che fino a poco tempo fa era valorizzabile solo ex art. 133 c.p., se realizzata prima del giudizio, quando entra in un programma come quello della messa alla prova, che prelude alla estinzione del reato (art. 168 bis, ter c.p.), è vista in sinergia con forme di pena agìta. Se poi avviene in executivis è per definizione una pena agìta. Qui il ruolo delle condotte riparatorie assume un significato decisamente sanzionatorio, in quanto è la porta per ottenere l’estinzione del reato o premi e modalità di trattamento più favorevoli: sia o meno questo lo scopo soggettivo di chi segue quei percorsi.

Analoga valenza spetta alla riparazione di offesa e danno nell’art. 162 ter c.p., con estinzione del reato per condotte riparatorie nei reati perseguibili a querela.

Siamo così approdati a un diverso orizzonte di senso, perché mediazione e riparazione dell’offesa entrano entrambe in una logica anche processuale e sanzionatoria.

 

  1. Convergenze tra le due forme di riparazione.

La c.d. riforma Cartabia (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150) ha prodotto un importante assetto normativo che si muove in questa direzione profondamente innovativa dell’immagine tradizionale della pena, con l’introduzione di un binario autonomo di riparazione relazionale, la c.d. restorative justice basata sulla mediazione penale. In essa, peraltro, prevale una sorta di idealismo, piuttosto che un utilitarismo sanzionatorio, dal quale il processo, invece, è contrassegnato.

Si veda l’art. 42 del d.lgs. n. 150/2022. «Definizioni. Ai fini del presente decreto si intende per: a) giustizia riparativa: ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore. b) vittima del reato: la persona fisica che ha subìto direttamente dal reato qualunque danno patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona»[11].

Sennonché, sempre la medesima riforma ha interpolato l’art. 62, n. 6 c.p. con una previsione aggiuntiva: «o l’avere partecipato a un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con un esito riparativo. Qualora l’esito riparativo comporti l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la circostanza è valutata solo quando gli impegni sono stati rispettati».

Tale norma, letta insieme all’art. 56 del d. lgs. 150 del 2022, ammette la possibilità di una riparazione simbolica[12], che non comporti l’assunzione di impegni comportamentali, e la equipara a un risarcimento integrale o alla riparazione effettiva dell’offesa.

Un esito culturalmente problematico che contiene il rischio di una disparità di trattamento potenzialmente sproporzionata rispetto alle altre ipotesi di integrale riparazione che sono foriere della medesima attenuante e, ancor più, dell’apertura a esiti di non punibilità come quelli oggi possibili per effetto della sospensione del processo con messa alla prova.

La convergenza negli effetti, qui, rischia di celare una divergenza nei presupposti, come subito si dirà (§ seg.).

A questa “riparazione interpersonale” si aggiungono, nel sistema, le diverse forme preesistenti di riparazione prestazionale o di delitto riparato già menzionate, basate su risarcimenti e condotte determinate di neutralizzazione dell’offesa, sul modello di quello che già il codice del 1930 ha delineato nella attenuante comune dell’art. 62 n. 6 c.p.

Nel delitto riparato (riparazione prestazionale) si registra un percorso successivo, per esempio la restituzione volontaria del profitto o una prestazione a favore della vittima, della società, un lavoro di pubblica utilità, condotte “aperte” per il momento, e di tipo riparatorio, che dovranno essere meglio tassativizzate, o tipizzate in via ermeneutica: tra queste c’è anche la neutralizzazione del rischio di eventi futuri se il reato è di pericolo, il che prova l’avvenuta restaurazione del valore del precetto violato; c’è la bancarotta riparata; ci sono la collaborazione processuale alla ricostruzione dei fatti, le bonifiche dei siti, le condotte riparatorie inserite in un programma di messa alla prova, la restituzione volontaria del maltolto, la neutralizzazione delle condotte fraudolente o ingannevoli, etc. Ciò avviene tuttavia – come parti o esempi del delitto riparato – anche attraverso forme di riconciliazione con la vittima, ma più spesso mediante prestazioni volontarie a favore di terzi o della comunità, anche di vittime sostitutive o vicarie, perché se la vittima reale non vuole riconciliarsi rimane il diritto (non semplicemente la scelta opportunistica) di riconciliarsi o di effettuare un percorso corrispondente, non con la vittima reale o con i parenti della vittima reale: forme sostitutive già praticate nella mediazione.

Si tratta di una scoperta straordinaria che consente, nei limiti che stiamo delineando, di unificare delitto riparato e RJ in un discorso unitario: il concetto stesso della pena contiene componenti che sono compatibili con programmi sanzionatori — come quelli della giustizia riparativa in generale, o del delitto riparato — che vedono un ruolo attivo e ripristinatorio del responsabile, e che non sono dunque un male aggiunto.

Questa presa d’atto cancella la possibilità di generalizzare un discorso solo retributivo-afflittivo, che appartiene o al passato dei supplizi, o ad alcune tipologie di reati e autori “esclusi”. Un discorso di pura e definitiva esclusione appare tuttavia oggi anche incostituzionale: è dunque necessario vedere sempre un programma di scopo nella pena applicata, che è la vera pena giuridica, mentre quella minacciata è una pena politica, cioè una scelta di politica legislativa di condizionare la collettività e orientare i giudici verso certi tipi di risposte.

 

  1. Divergenze culturali, tecniche e processuali, tra il delitto riparato e la riparazione mediativa.

Non si possono tuttavia nascondere alcune divergenze culturali di fondo tra il delitto riparato e la RJ mediativa, che potrebbero condurre a una sorta di crisi di rigetto dell’innesto della logica conciliativa in quella della riparazione dell’offesa.

Lo Stato, tradizionalmente, lasciava a iniziative private le condotte riparative. Erano un onere dell’imputato, ma non un obiettivo dello Stato, perché il diritto penale restava una lex minus quam perfecta[13]: applicava la sanzione, ma non si preoccupava di eliminare le conseguenze dell’illecito.

Il pubblico ministero era ancor meno interessato a queste vicende “private”. Ottenere una condanna, dopo la richiesta di rinvio a giudizio o la citazione diretta, era la sua missione quotidiana.

La logica del processo era anticonciliativa: lo Stato-amministrazione, rappresentato dalla accusa,  si poneva e si pone contro l’imputato, non a favore di un incontro umanistico.

Il difensore dell’imputato, sempre attento ai profili risarcitori possibili, mira a risultati processuali: non ha interesse a perseguire cammini extraprocessuali dai quali rimane estromesso, perché sostituito da un mediatore. Se poi persegue strategie di non colpevolezza non può certo suggerire una mediazione. L’imputato condivide con la difesa un destino di distanziamento dalla vittima, se si proclama innocente, e se quella è costituita parte civile o persona offesa, non è certo la figura più conciliante che l’immagine della restorative justice promette: è assai spesso orientata alla pena-vendetta e al risarcimento, senza nessun dialogo con l’imputato. I suoi difensori sono accaniti partner di una accusa ancora indirizzata alla pena-castigo. La riparazione è vista semmai come un momento della retribuzione nel suo complesso.

Come può questa plurisecolare dimensione anticonciliativa incontrarsi con la RJ? Il delitto riparato, nella sua laicità per lo più compatibile con una difesa giudiziale a sostegno della non responsabilità dell’imputato, non ha mai sollevato dubbi in termini di compatibilità con il diritto di difesa: anche la bancarotta riparata, il risarcimento integrale del danno, la bonifica dei siti, la neutralizzazione delle condizioni di insicurezza nell’impresa o la collaborazione processuale all’accertamento dei fatti, sono compatibili con una linea difensiva di innocenza o di soluzioni favorevoli prive di momenti confessori.

La mediazione, invece, suppone implicitamente che l’accusato sia colpevole o si dichiari tale fuori del processo: in segreto, certamente, ma tutto ciò è immanente, coessenziale al percorso mediativo. La riforma Cartabia non esige nessuna confessione, ma la suppone come implicita nella mediazione. Dunque, la mediazione è destinata a imputati che non sono innocenti o che non si dichiarano innocenti nel processo. È una incompatibilità di presupposti, anche se non giuridica, quella che riguarda la presunzione di innocenza e la mediazione[14].

Il giudice che volesse “spedire” l’imputato, contro le indicazioni della sua difesa, all’ufficio di mediazione, romperebbe il sacro vincolo della presunzione di innocenza e potrebbe essere ricusato?[15] C’è chi contesta questo esito[16], ma molto dipende da come verrebbe gestito il potere che il codice gli accorda. Una norma come l’art. 129 bis c.p.p., in realtà («Art. 129 bis (Accesso ai programmi di giustizia riparativa). – 1. In ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa»), per non essere illegittima, esige una interpretazione conforme: l’autorità giudiziaria ha il divieto di inviare “d’ufficio” imputato e vittima a un Centro per la giustizia di riparativa contro il loro consenso, o contro la linea difensiva dell’imputato. La pena agìta di tipo anche riparativo può già oggi, come vedremo, risultare assorbente e tale da condurre a numerose ipotesi di non punibilità (o anche di estinzione del reato, secondo il lessico legale), una sorta di depenalizzazione in concreto, ma condizionata a prestazioni reali e per nulla simboliche a favore delle vittime. Secondo il modello del delitto riparato, che mi sento di ribadire, il delitto non paga, perché gli effetti del reato sono oggetto di programmi mirati contro i profitti illeciti, ma a favore delle vittime[17]. Vediamo se si possa dire altrettanto della riparazione mediativa simbolica.

La riparazione interpersonale, eccessivamente enfatizzata da media, politici e suoi sostenitori, non può tecnicamente applicarsi a una quantità amplissima di procedimenti, a cominciare da quelli senza vittima. Potenzialmente estensibile a tutto, anche a stragi e genocidi, essa resta destinata, nel processo di cognizione, o a fatti per lo più minori (tanto più se limitata a riparazioni simboliche: questa l’esperienza comparata), o comunque a processi per reati di acclarata responsabilità o dove la discussione verte su aspetti giuridici o di qualificazione, reati da abbreviato, patteggiabili o reati colposi. Oltre questi limiti naturali, è il diritto di difesa a tracciare il confine: se la mediazione suppone strutturalmente una colpa o una autoria, il giudice non può fingere il contrario quando sollecita l’entrata in un centro per la giustizia riparativa.

Il discorso è oggi ancora abbastanza teorico, dato che i centri non sono operativi, ma si confida che presto lo siano, e si cominci a discutere di questioni realistiche, e meno ideologiche.

Una cultura laica della difesa tecnica, comunque, non si concilia con l’afflato confessorio della mediazione. Qui l’opposizione “culturale” di una parte dell’avvocatura a taluni eccessi dell’attuale clima vittimocentrico di parte della penalistica è del tutto comprensibile[18]. Tuttavia, come ancora si dirà, sarebbe miope un rifiuto difensivistico in blocco della giustizia riparativa di tipo mediativo, per espungerla dal processo: occorre invece verificare gli spazi di compatibilità processuale ulteriori agli aspetti discrezionali-commisurativi in senso stretto, e dunque affrontare i problemi di tipicità dell’esito riparativo in termini di diritto penale sostanziale, in tutti gli istituti che sono costruiti su logiche prestazionali, e non simboliche.

Essa presenta rilevanti problemi di tassatività normativa. Questo è un warning forte. Già la riparazione tradizionale in sé, allargata per es. a tutte le fattispecie oggi destinate alla messa alla prova, esige sforzi ermeneutici nuovi, reato per reato, al fine di ricostruire quale sia l’offesa riparabile. È anche un momento di riviviscenza del valore del bene giuridico, anziché della più inafferrabile personalità o della colpevolezza dell’imputato.

A maggior ragione esige questo recupero di tipicità una riparazione relazionale che, secondo la nuova versione dell’art. 62, n. 6, c.p. (§ prec.), è suscettibile di effetti giuridici equiparati alla riparazione prestazionale, ma in presenza di soli impegni o comportamenti a contenuto psicoattivo, facilmente esposti a relazioni di mediazione compiacenti e a un rischio di traffico delle indulgenze, riproducibili “a cascata” negli esiti più lucrativi dell’estinzione del reato a seguito di messa alla prova.

Perché risarcire se basta un sorriso? Ritengo che in questa equiparazione si celi un vizio di possibile illegittimità costituzionale ex art. 3, co. 1, Cost., per l’equiparazione di forme lontanissime negli effetti e nella valenza risarcitoria-riparativa[19], salvo che la lettura e applicazione della regola riduca gli effetti equivalenti della riparazione simbolica a casi per lo più lievi di offese di modesto significato materiale, o recuperi al testo una tassatività oggi molto incerta[20].

In realtà, a mio avviso, le due riparazioni, una volta attratte nella logica del processo, devono conoscere una assimilazione culturale nella valutazione degli effetti, con prevalenza della logica prestazionale nella vita del processo. Essa non significa la prevalenza di una lettura contabile o ragionieristica, che solo rispetto al risarcimento è più praticabile, mentre rispetto alla riparazione non è mai stata veramente ammessa. È possibile anche il riconoscimento di un esito riparativo in senso lato, qualora sia diretto a favore della comunità, della collettività, e non integri una vera riparazione dell’offesa in senso tecnico. Tuttavia, anche questa estensione deve essere apprezzabile nei suoi aspetti reali, se non materiali, non solo ideali.

Si consideri, infine, a favore del ridimensionamento del ruolo della riparazione mediativa, un aspetto centrale del nostro processo, costituito dalla esclusione della persona offesa dal dibattimento.

Si presenta spesso la vittima, cioè la persona offesa del reato, che è il titolare del bene giuridico offeso dall’illecito penale, come un soggetto che avrebbe pretese punitive, come se avesse diritto a ottenere giustizia penale, vantando un diritto giustiziale alla pena del colpevole. Nulla di tutto ciò secondo il diritto vigente[21].

La persona offesa può promuovere mediante querela (art. 120 ss. c.p., 336 ss. c.p.p.) o istanza (art. 9, 10 c.p., 341 c.p.p.) l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., manifestando la sua titolata volontà: ma non può proporre richieste sanzionatorie, salvo opporsi, senza che ciò sia vincolante, alla richiesta di patteggiamento o essere sentita in merito ad alcune misure cautelari. La persona offesa non ha un ruolo determinato nel giudizio penale (altro ruolo ha invece nelle indagini preliminari) come semplice vittima, ma solo come titolare di un diritto risarcitorio ai danni da reato, sia materiali e sia morali (art. 185 c.p., 90-95 c.p.p.): solo costituendosi parte civile la persona offesa, o un terzo comunque danneggiato che non sia persona offesa, può “partecipare” al giudizio (art. 74-82 c.p.p.). Ovviamente ha diritto a partecipare a un programma di giustizia riparativa, di mediazione penale, ma ciò suppone una iniziativa o un’adesione dell’indagato/imputato/condannato. Essa non ha invece diritto a pretendere l’applicazione di una pena, un quantum o un quomodo di sanzione: è totalmente esclusa da questa materia, perché le sue pretese “vendicative” sono neutralizzate alla radice.

Anche rispetto all’accertamento dei fatti, tutti i diritti principali della persona offesa si consumano nell’istruzione preliminare, perché al dibattimento ha solo diritto di essere citata (art. 178, lett. c), 519, co. 3, c.p.p.) per rendere eventuali dichiarazioni, in forma testimoniale, se convocata in tale veste.

Più rilevanti e anzi centrali sono le sue prerogative nel corso delle indagini[22]. Nel dibattimento, invece, salvo che venga citata come testimone, si tratta di una presenza che ha efficacia dialettica e probatoria solo se la persona offesa è costituita parte civile, e dunque se presenta specifiche istanze non di pena, ma di risarcimento dei danni subìti, sul presupposto della responsabilità dell’imputato. E a tali effetti è previsto lo stesso diritto di impugnazione della parte civile (art. 576 c.p.p.), mentre il diritto di impugnazione della persona offesa è limitato alla facoltà di «presentare richiesta motivata al pubblico ministero di proporre impugnazione a ogni effetto penale» (art. 572 c.p.p.), ciò che il p.m. può rigettare con decreto motivato non impugnabile (co. 2).

La vittima, dunque, non ha diritto a pretese punitive nel corso del giudizio, ma solo risarcitorie, e tutto il sistema processuale vittimocentrico che sta crescendo a livello internazionale non può concludersi, secondo il sistema vigente, in una richiesta di pena.

Non solo. Una corretta lettura di questo dato dovrebbe orientare il giudice del dibattimento a limitare gli interventi dello stesso difensore di parte civile orientati non all’an, ma al quantum di pena, cioè a sostenere il volto malvagio, il disvalore soggettivo dell’imputato, che nulla hanno a che vedere con le pretese risarcitorie di tipo civile.

Il sistema vigente, dunque, neutralizza in giudizio le istanze strettamente punitive della vittima.

Questa situazione normativa può subire tuttavia distorsioni attraverso prassi sistemiche indotte da altre regole o spinte punitive. Non solo l’ossessiva presenza di 167 richiami alla giustizia riparativa nella legge Cartabia (il citato d. lgs. 150 del 2022), che è il prodotto di una pressione politica inusitata, più che di un equilibrio nella visione tecnica. È preoccupante, per la difesa, il vento che soffia da ogni parte a favore di un nuovo vittimocentrismo, e che prescinde del tutto dal tema della riparazione dell’offesa o della RJ, spostando il focus sulla tutela della vittima come obiettivo di sistema.

 

  1. Il vento europeo e internazionale a protezione delle vittime.

Come illustrato in esordio, è in atto l’avanzare di un paradigma vittimario spinto, che può gettare cattiva luce anche sul paradigma riparativo in senso lato. Tuttavia, a mio avviso, è solo la RJ mediativa che rischia di essere attratta in questo paradigma marcatamente vittimocentrico, non il delitto riparato.

Ma tale rischio, come dirò, non è intrinseco alla mediazione, nata da esperienze extraprocessuali e ispirata a una cultura umanistica riconciliativa, anziché a programmi processuali di induzione coatta, anche se indiretta, alla riparazione.

Se un magistrato, convinto della responsabilità dell’imputato, giungendo a una valutazione processuale (da giudice o da p.m.) volesse fare pesare sul responsabile la sua mancata disponibilità a forme riparatorie o risarcitorie, con effetti negativi in termini sanzionatori, questo esito costituirebbe il tradimento dell’idea riparativa come forma di libertà e opportunità difensiva e sociale, trasformandola in uno strumento retributivo-simmetrico.

Sarebbe in tal caso comprensibile una opposizione dell’avvocatura a questo esito maligno e ci vedrebbe solidali in tale resistenza.

La riparazione può essere solo un vantaggio, e non deve convertirsi in un pregiudizio se omessa volontariamente da parte dell’imputato. Resta, in tal caso, la pena simmetrica, ma non una pena “più simmetrica”. Se è giusto quindi che il delitto non paghi e la vittima sia risarcita, tuttavia la riparazione non deve diventare la riedizione di una giustizia retributiva. Rimane un onere, così come un obbligo civile è il risarcimento. Sono equilibri delicati, perché il contesto sociale è dato da masse non educate all’illuminismo penale e al garantismo e la “democrazia penale” in atto è quella di media, social e ministri la cui cultura penale è quella più orientata alla raccolta dei voti, ora dei colletti bianchi, ora del popolo securitario.

Questo trend è sostenuto da un vento europeo e internazionale che alimenta il paradigma vittimario.

La Corte Edu si è fatta portatrice di letture vittimocentriche, contribuendo allo sviluppo di una teoria e di una giurisprudenza incentrate sugli obblighi di criminalizzazione, sconosciuti alle tradizioni delle Costituzioni nazionali: per lo più, si tratta di dare effettività alla tutela di crimini intollerabili e ovunque previsti dalle legislazioni, ma non ovunque perseguiti: e tuttavia queste logiche presentano profili ed eccessi antigarantisti[23]; sul versante processuale, dall’art. 2 Cedu sulla tutela della vita e dall’art. 3 relativo a divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti, si è sviluppata una giurisprudenza che è diretta a sindacare il livello di protezione offerto alle vittime dalle discipline statali, là dove organi istituzionali abbiano impedito o intralciato l’accertamento dei più gravi delitti contro la persona[24].

Nel quadro delle fonti ispirate alla tutela dell’offeso si devono poi menzionare la Direttiva vittime 2012/29/UE; la Direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato a cui l’Italia ha dato attuazione con la Legge europea 2015-2016; la Raccomandazione CM/Rec(2023)2, 15.3.2023 sui diritti, i servizi e il supporto delle vittime di reato, sostitutiva della Raccomandazione Rec(2006)8, con cui gli Stati membri sono invitati a ispirare la normativa interna ai principi ivi fissati a tutela dell’offeso. Negli ultimi anni si sono registrati lo sviluppo internazionale di associazioni a protezione delle vittime, la diffusione di numeri verdi, di call center di ausilio contro aggressioni di tipo sessuale, minorile, familiare etc.; un apparato amministrativo e processuale di misure preventive, interdittive, sanzionatorie, orientate alla protezione ante e post delictum (dallo stalking ai casi regolati dal codice rosso); l’inserimento, nel codice di rito (d. lgs. 2012 del 2015), dell’art. 90 quater c.p.p. e in esso della nuova situazione soggettiva costituita dalla «condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa», dove si precisa che «per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato»; l’estensione dell’apparato delle misure di prevenzione (c.d. codice antimafia, d. lgs. n. 159 del 2011, modificato dal codice Rosso: l. 19 luglio 2019, n. 69) anche a fattispecie relative alla vita familiare e privata, come i maltrattamenti, la cui esplosione a livello di indagini è oggi vastissima su tutto il territorio; sul versante cautelare in senso stretto si ricorda l’intervento della persona offesa nell’incidente de libertate, l’introduzione (sempre con il codice Rosso) di una norma penale sanzionatoria per l’inosservanza di misure cautelari interdittive (la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, è ora sanzionata anche con la reclusione da sei mesi a tre anni). Pendono da tempo d.d.l. costituzionali (AN, FDI) che mirano a una modifica dell’art. 111 della Costituzione, per inserire un secondo comma nel quale si affermi che «la vittima del reato e la persona danneggiata dal reato sono tutelate dallo Stato nei modi e nelle forme previsti dalla legge».

Ma più di recente il convergere di d.d.l. di FdI, di PD, 5Stelle, Alleanza verdi e Sinistra ha consolidato un testo di revisione dell’art. 111 Cost., così concepito: «La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato»[25]. Una volta inserito in Costituzione, in apparenza senza dire nulla di nuovo, il principio potrebbe conoscere concretizzazioni nuove verso un ruolo della vittima anche in giudizio, così rovesciando quel paradigma già descritto, che esclude istanze penali-punitive in capo alla persona offesa.

Nell’uso spiccatamente neutralizzante di alcune misure preventive o cautelari, oltre che nell’aumento indiscriminato delle pene per reati di maltrattamenti, stalking, violenza sessuale, assistiamo a forme di diritto penale del nemico, del tutto antagoniste alla logica riconciliativa della RJ: per accennare soltanto a situazioni del tutto incomparabili nel contesto vittimocentrico descritto.

Istanze contrastanti convivono in questa ricerca del consenso vittimario e della tutela delle persone offese. Alcune voci in dottrina vorrebbero perfino sostituire il paradigma del bene giuridico (una categoria più moderna, e irrinunciabile per gli aspetti più vari e fondanti della razionalizzazione del sistema) con quello dei diritti delle vittime del reato e del danno loro arrecato[26].

Anche chi scrive, secondo una visione ben distante dal vittimocentrismo, ha sottolineato da tempo che il garantismo penale, oggi, non può più essere circoscritto a un tema binario, relativo ai rapporti fra Stato e individuo, o imputato, ma ha una natura tripolare o triadica, dove anche la vittima deve essere tenuta presente nell’obiettivo di una riduzione complessiva del male prodotto dai reati, che tenga presente un’economia di minimizzazione, anziché di aumento, dell’entropia rappresentata dalle azioni-reazioni degli attori della vicenda punitiva.

E ancora una volta l’idea centrale del delitto riparato, che può meglio sostenere misure concrete come l’assegnazione dei profitti confiscati per equivalente alle persone offese, e non allo Stato, o una commisurazione della pena incentrata sul danno, prima che sulla colpevolezza, declina una propria e autonoma visione in un quadro assai più composito di orientamenti.

Sarebbe quindi illusorio prospettare come sicure e univoche le varie tendenze in atto[27]. Mi è parso tuttavia doveroso fare chiarezza su alcuni rischi e differenze di fondo tra le situazioni emergenti, che restituiscono un quadro per nulla unitario. Per orientarsi in questo contesto appare necessario l’abbandono di slogan e posture tribunizie, per volgersi verso una lettura più meditata e attenta che sola ci consente di governare le antinomie disseminate nella legislazione e nelle coscienze.

*Professore ordinario di Diritto penale presso l’Università di Roma – “La Sapienza”

[1] Più ampiamente, M. Donini, Diritto penale, parte gen., vol. 1, Giuffrè Francis Lefebvre, 2024, cap. 1, §§ 22-24, cap. 4, § 1 ss., § 8.

[2] M. Donini, Pena agìta e pena subìta. Il modello del delitto riparato, in Studi in onore di L. Monaco, Urbino Univ. Press, 2020, 389 ss., e altresì in QG online, 29 ottobre 2020, 1-24.

[3] Lo osserva G. Fiandaca,  Considerazioni su riparazione e rieducazione, in SP, n. 10/2023, 139, come rilievo critico alla pretesa esclusività di questo dato nel delitto riparato, ma da sempre condivido che anche la normale pena rieducativa (esecutiva, trattamentale) possa essere soltanto agìta.

[4] Contra, D. Pulitanò, Minacciare e punire, in Studi in onore di E. Dolcini, vol. I, Giuffrè, 2018, 22 ss.; Id., Il penale tra teoria e politica, in SP, 9 novembre 2020, 7 ss.; sul punto v. M. Donini, Riparazione e pena da Anassimandro alla CGUE. La basi di un nuovo programma legislativo per la giustizia penale, in SP, 20 dicembre 2022; e le maggiori aperture espresse infine in D. Pulitanò, Riparazione e lotta per il diritto, in SP, 9 febbraio 2023, 65 ss.

[5] M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in DPC Trim., 2015, 236-250; L. Eusebi, «Gestire» il fatto di reato. Prospettive incerte di affrancamento dalla pena «ritorsione», in Studi in onore di E. Dolcini, vol. I, Giuffrè, 2018, 223 ss.

[6] M. Donini, Il delitto riparato, cit., 247.

[7] Una “proposta teorica molto suggestiva, almeno a prima vista”, secondo  G. Fiandaca, Punizione, Il Mulino, 2024,  134. Il presente scritto valga come risposta ad alcune obiezioni ivi contenute. Anche A. Ceretti, I nuovi orizzonti della giustizia riparativa nella riforma Cartabia, in A. Ceretti, I nuovi orizzonti della giustizia riparativa nella riforma Cartabia, in Riforma Cartabia. Le modifiche al sistema penale, Commentario diretto da  G. L. Gatta- M. Gialuz, vol. IV, a cura di A. Ceretti, G. Mannozzi, C, Mazzucato, Giappichelli, 2024, 31, in nota,  avverte l’innovatività e importanza (“rivoluzionaria”) della prospettiva del delitto riparato. La RJ è una parte del delitto riparato per come lo intendo. Non il contrario. Le distanze dalla RJ sottolineate nel presente scritto riguardano soprattutto il rovesciamento (e il dominio) della logica interpersonale rispetto a quella prestazionale nel contesto del processo secondo la riforma Cartabia, la sua indeterminatezza e manipolabilità nella versione simbolica.

[8] Amplius su tale distinzione M. Donini, Le due anime della riparazione come alternativa alla pena-castigo: riparazione prestazionale vs. riparazione interpersonale, in CP, 2022, 2027 ss.

[9] Almeno nel modello dell’art. 42 d. lgs. n. 150 del 2022, cit. infra al § 7. Che la mediazione penale si occupi oggi, anche nelle fonti internazionali, di programmi più vasti di tipo preventivo che coinvolgono la comunità civile anche prima di, e a prescindere da un fatto illecito (ampia disamina in P. Maggio, Lo sguardo alle fonti internazionali, in V. Bonini, a cura di, Accertamento penale e giustizia riparativa, Giappichelli, 2023, 13 ss.), non supera il tratto per così dire fisiologico principale e vittimario della sua introduzione nel sistema processuale italiano.

[10] La letteratura anche solo nazionale è ormai vastissima (v. i richiami di diritto sostanziale in M. Donini, Diritto penale, parte gen., vol. 1, cit., 246 s., nota 68). Tra gli interventi  più recenti, M. Bouchard, F. Fiorentin, La giustizia riparativa,  Giuffrè Francis Lefebvre, 2024; A. Ceretti, I nuovi orizzonti della giustizia riparativa nella riforma Cartabia, cit.,  23 ss., e amplius, tutto il volume; G. Fiandaca, Punizione, cit., 125 ss.; V. Bonini, a cura di, Accertamento penale e giustizia riparativa, in Proc. pen. giust., fasc. str., 2023;  P. Maggio, La riforma organica della giustizia riparativa  nel d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150: un approccio ispirato dalla fiducia, in Jurisdictio, n. 4/23023, 250 ss.; D. Bianchi, Giustizia riparativa e giustizia punitiva: un dialogo interculturale complesso, in RIDPP, 2024, 121 ss.; A. Malacarne, Presunzione di non colpevolezza e giustizia penale riparativa: una diade problematica, in Arch. pen., 2024, 35 ss.

[11] Si tratta di una nozione allargata di vittima, contenuta nella riforma: v. Venturoli, La vittima del reato tra riconoscimenti formali e nuovi orizzonti sanzionatori, in Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, a cura di D. Castronuovo, M. Donini, E. M. Mancuso, G. Varraso, Wolters Kluwer – Cedam, 2023, 509 ss.

[12]  L’art. 56, co. 2, d. lgs. n. 150 del 2022 precisa che «l’esito simbolico può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o di luoghi», mentre l’esito “materiale” include «il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori».

[13] Ulpiano, Regulae (I,1-2): “meno che perfetta” è la legge che, vietando qualcosa, sanziona il comportamento che la trasgredisce, ma non annulla gli effetti dell’illecito.

[14] Nel senso della incompatibilità giuridica, invece, O. Mazza, sub art. 129-bis, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda, G. Spangher, Ipsoa, 2023, I, 1969 s.; Id., Attenti però: presunzione d’innocenza e riparazione non sono conciliabili, in Il dubbio, 13 marzo 2023.

[15] Lo ha sostenuto per es. O. Mazza, L’efficientismo del processo post-accusatorio, in Arch. nuova proc. pen., 2022, 498.

[16] Per es. P. Maggio, Le valutazioni da parte dell’autorità giudiziaria, in V. Bonini, a cura di, La giustizia riparativa (d. lgs. 150/2022 – d. lgs. 31/2024), Giappichelli, 2024, 186.

[17] V. pure M. Bouchard, F. Fiorentin, La giustizia riparativa, cit,  29 ss., 92 ss., 407 ss.

[18] D. Caiazza,  Se il difensore lascia il passo al mediatore, in PQM, 29 giugno, 2024, p. 1.

[19] Una lettura contraria in R. Orlandi, Giustizia penale riparativa. Il punto di vista processuale, in Dir. pen. e proc., 2023, 95, che vede una equiparazione perfetta tra prestazione materiale e gesto puramente simbolico. Ogni valutazione sostanziale o costituzionale è esclusa nel giudizio “processuale” sull’equiparazione tra le due forme: una stretta di mano potrebbe legittimamente lucrare sempre i medesimi effetti sostanziali di risarcimento e riparazione integrali dell’offesa.

[20] Su riparazione simbolica e materiale gli approfondimenti teorici sono ancora approssimativi (v. M. Bouchard, F. Fiorentin, La giustizia riparativa, cit., 252 ss.), ma le preoccupazioni in termini di tipicità affiorano esplicitamente: Op.ult. cit., 424.

[21] Una diversa attenzione, trilatera o triadica, alla vittima nella dialettica processuale, per la quale ci siamo più volte espressi, non significa diritto della vittima alla pena. Il dibattito fu avviato a suo tempo, dribblando le più paludate versioni accademiche della “vittimodogmatica” tedesca degli anni ’80 e ’90, da J. P. Reemtsma, Das Recht des Opfers auf die Bestrafung des Täters als Problem, Beck, 1999; v. quindi W. Hassemer, J. P. Reemtsma, Verbrechensopfer. Gesetz und Gerechtigkeit, Beck, 2002. Una ricostruzione critica, aggiornata e comparata del tema ora in G. Fornasari, ‘Right to punishment’ e principi penalistici. Una critica della retorica della anti-impunità, ESI, 2023.

[22] Una rassegna in M. Donini, Diritto penale, parte gen., vol. 1, cit., cap. 4, § 8.

[23] Richiami, ancora, in M. Donini, Diritto penale, cit., cap. 11, § 16.

[24] M. Chiavario- P. Maggio, in M. Chiavario e a., Diritto processuale penale, Giappichelli, 2023, cap. 8, § 3 ss., p. 227 ss.; V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Il Mulino, 2022, 179 ss.,  183 ss., 195 ss.; F. S. Cassibba, A.  Colella, Art. 3. Proibizione della tortura, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, a cura di G. Ubertis, F. Viganò, Giappichelli, 2022, 77 ss., 114 ss.

[25] V. per una discussione M. Bouchard, Tutelare le vittime dei reati, in Volerelaluna, 10 2.2024.

[26]  F. Viganò, Diritto penale e diritti della persona, in SP, 8 marzo 2023;  e sul punto Cavaliere, ‘Diritti’ anziché ‘beni giuridici’ e ‘princìpi’ in diritto penale?, in SP, 10, 2023, 63 ss.

[27] Opportuna valutazione critica delle ambiguità coesistenti nei paradigmi della riparazione in G. Fiandaca, Punizione, cit., 148 ss.