PER UN’ESEGESI TELEOLOGICA A GARANZIA DELL’EFFETTIVA DIALETTICA PROBATORIA PER LA PERSONA OFFESA DAL REATO – DI RAFFAELE PICCIRILLO
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PER UN’ESEGESI TELEOLOGICA A GARANZIA DELL’EFFETTIVA DIALETTICA PROBATORIA PER LA PERSONA OFFESA DAL REATO
THE TELEOLOGICAL EXEGESIS AS A MEANS OF GUARANTEEING AN EFFECTIVE PROBATIVE DIALECTIC FOR THE VICTIM OF A CRIME
di Raffaele Piccirillo*
Cass. pen., Sez. V, 10 febbraio 2021, n. 9820, Pres. Zaza – Est. e Rel. Borrelli – P.M. Lignola (conf.)
Sequestro probatorio – Procedimento di restituzione delle cose sequestrate – Opposizione al decreto del pubblico ministero sulla restituzione delle cose sequestrate – Interesse della persona offesa all’opposizione – Diritti e facoltà della persona offesa dal reato – Opposizione alla richiesta di archiviazione.
(Artt. 263, co. 5, c.p.p., 90 c.p.p., 410 c.p.p.)
L’opposizione disciplinata dall’art. 263, co. 5, c.p.p. avverso il decreto del pubblico ministero di restituzione delle cose sequestrate ovvero di diniego della relativa richiesta non è diretta alla risoluzione delle questioni sulla appartenenza delle res vincolate ovvero restituite, ma è funzionale alla deduzione di censure circa la necessità di permanenza del sequestro probatorio e, ove promossa dalla persona offesa, a garantire a questa effettività di interlocuzione e apporto probatori nel corso del procedimento.
(massima a cura dell’Autore)
Con la sentenza annotata la Corte Suprema, nel ribadire un solido indirizzo nomofilattico sulla ratio del rimedio contemplato all’art. 263, co. 5, c.p.p., che è invero proteso alla ostensione di doglianze sul mantenimento del sequestro probatorio, propone un criterio ermeneutico di natura teleologica dello scrutinio dell’interesse della persona offesa all’opposizione al decreto del P.M. di restituzione all’indagato delle cose sequestrate, ancorandolo a un necessario giudizio prognostico di garanzia effettiva per l’offeso di contraddittorio e di apporto ai fini di prova nel corso del procedimento.
With the annotated decision the Supreme Court, in reaffirming a solid nomophylactic direction about the ratio of the judicial remedy provided for in Art. 263, § 5, of the Italian Code of Criminal Procedure, which is indeed aimed at the filing of complaints about the maintenance of the secure evidence, proposes an hermeneutic parameter with a teleological nature in order to sift the interest of the injured party to the concerned opposition, anchoring it to a necessary prognostic judgement of effective guarantee of contradictory and of contribution for evidence for the benefit of the victim of a crime.
Sommario: 1. La vicenda al vaglio di legittimità. 2. Il decisum. 3. Il diacronico ampliamento normativo dei poteri della persona offesa dal reato.
1. La vicenda al vaglio di legittimità.
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì, all’esito del procedimento camerale attivato in forza dell’art. 263, co.5, c.p.p., dichiarava inammissibile l’opposizione, presentata dai prossimi congiunti della persona offesa deceduta in conseguenza del reato di omicidio preterintenzionale, avverso il decreto del pubblico ministero di restituzione all’indagato delle copie forensi estratte dal suo telefono cellulare e di contestuale diniego alle persone offese di ottenerne copia; all’uopo rappresentava, da un lato, che il rimedio contemplato dall’art. 263, co. 5, c.p.p. sarebbe diretto soltanto alla risoluzione delle questioni di appartenenza delle res restituite, nel caso di specie non sindacata dagli opponenti, e, dall’altro, che il materiale di interesse a fini di prova era stato già trasfuso in una nota di P.G., con conseguente irrilevanza probatoria, rispetto alla res judicanda, della copia forense del residuo materiale estratto dai telefoni cellulari dell’indagato e che pertanto essa andava restituita all’interessato, con l’onere per quest’ultimo di consegnare i supporti a richiesta dell’A.G. fino all’esito della procedura disciplinata dall’art. 263, co. 5, c.p.p., alla stregua del cui disposto normativo il difensore dei prossimi congiunti del de cuius proponeva opposizione avverso il decreto restitutorio del P.M., «chiedendo che tutti i dati originali presenti nel supporto/nei supporti sequestrati siano trattenuti in sequestro e di essi venga permessa la visione e l’estrazione di copia alle persone offese». Tale opposizione veniva appunto sanzionata con declaratoria di inammissibilità dal Giudice per le indagini preliminari, che fondava il dictum sul rilievo pregiudiziale di una carenza di interesse delle persone offese all’opposizione in parola, ancorato alla prodromica tesi della attivabilità del procedimento per la restituzione delle cose sequestrate solo per eventuali dubbi sull’appartenenza dei beni o per sostenere eventuali diritti vantati sui medesimi da parte degli opponenti e che, pertanto, il diritto ad estrarre copia di quanto restituito, paventato dai soggetti passivi a sostegno dell’opposizione, si sarebbe tramutato nell’irricevibile impugnazione dell’invece inoppugnabile rigetto della istanza di estrazione delle copie; infine – chiosava l’ordinanza -, il diniego sotteso alla restituzione dei supporti all’indagato ineriva soltanto all’ottenimento di copia, ma non anche dalla visione di essa. Contro l’ordinanza il difensore delle persone offese presentava ricorso per cassazione, deducendo vizio di motivazione quanto alla ritenuta carenza di interesse all’opposizione posta a base della declaratoria di inammissibilità dell’opposizione, spiegando che la mancata autorizzazione alla visione e all’estrazione di copia informatica di quanto espunto dai cellulari dell’indagato aveva compresso il loro diritto a visionare il fascicolo e a ottenere copia degli atti a seguito della richiesta di archiviazione e anche la visione stessa del dato era stata resa impraticabile dalla quasi contestuale restituzione all’indagato della copia forense, soggiungendo infine che, qualora la richiesta di archiviazione fosse stata respinta, il futuro corso del procedimento si sarebbe visto privo del materiale.
2. Il decisum.
Con la annotata pronuncia il Giudice della nomofilachia, reputando fondato il ricorso delle persone offese, annullava la ordinanza impugnata con rinvio al G.I.P. di Forlì per nuovo esame dell’opposizione proposta ex art. 263, co. 5, c.p.p., da conformare ai principi di diritto formulati in sentenza.
La Corte Suprema, invero, censurava la declaratoria di inammissibilità dell’opposizione in parola – pronunciata sull’assunto della carenza di interesse degli offesi, per essere il rimedio ex art. 263, co. 5, c.p.p. diretto soltanto a risolvere questioni di appartenenza, non discussa dalle persone offese nel caso di specie, della cosa restituita all’indagato -, obiettando l’erroneità di tale opzione esegetica della norma scrutinata e la sua distonia rispetto ai pronunciamenti sviluppatisi in seno a un corposo e pacifico indirizzo di legittimità[1], per cui l’opposizione in esame risponde allo scopo di muovere censure afferenti alla necessità di mantenere il vincolo a fini di prova. In effetti – prosegue la glossata sentenza –, proprio a tal fine erano infatti protesi gli opponenti, che non si limitavano a dolersi del mancato conseguimento delle copie richieste, ma invocavano innanzi tutto che tutti i dati originali presenti nei supporti ricavati dall’attività ex art. 360 c.p.p. svolta sui cellulari dell’indagato fossero trattenuti in sequestro probatorio, per poi poterli visionare ed estrarne eventuale copia, allo scopo di opporsi alla richiesta di archiviazione; la spiegazione circa la necessità di disporre dei supporti per sostenere le proprie ragioni rispetto alla richiesta di archiviazione serviva a lumeggiare l’intimità teleologica dell’interesse a coltivare l’opposizione. L’interesse dei soggetti passivi del reato all’opposizione ex art. 263, co. 5, c.p.p. era riflesso procedurale di quello, ben più pregnante, all’integrità della prova, da perseguire per contrapporsi con effettività di mezzi alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero, sicché un’interpretazione diversa confliggerebbe non solo con il nostro ordinamento, ma anche con la direttiva 2012/29/UE[2], che impone, tra l’altro, che il diritto interno preveda le regole necessarie ad assicurare l’interlocuzione con la persona offesa nel corso del procedimento e il suo apporto a fini di prova.
3. Il diacronico ampliamento normativo dei poteri della persona offesa dal reato.
Così circoscritti i margini fenomenici della vicenda giudiziaria e quelli giuridico-fattuali della sentenza qui glossata, si percepisce inequivoco quanto tale pronuncia costituisca (ennesimo) epifenomeno giurisdizionale dell’esponenziale sviluppo potestativo riconosciuto alla persona offesa dalla stratificata normazione in materia e, pertanto, uno sconfinamento dei genetici limiti codicistici dei diritti e facoltà a quella riconosciuti all’alba del varo del vigente codice di rito del 1988, che comunque, già nella sua originaria formulazione, «introduce[va] “forme di tutela processuale assai più avanzate” rispetto al codice del 1930. Esse rappresenta[va]no il punto di arrivo di un mutamento ideologico aperto alle “interferenze” dei privati nell’esercizio dell’azione penale.»[3], tracciando così una significativa, seppur embrionale, spinta dilatativa dell’angustissima superficie di intervento dell’offeso sino ad allora a questi riservato dal legislatore nel procedimento penale.
Orbene, se è giudizio e patrimonio cognitivo comune il primordiale allestimento in esso di assai compressi spazi per le facoltà dialettiche probatorie del soggetto passivo del reato, l’evoluzione normativa in questo ambito, anche dietro sovrannazionale impulso legiferativo, pare aver con sufficiente vigore reagito alle coeve (e profetiche) suggestioni della più autorevole dottrina sulla auspicata necessità di estendere gli opprimenti antri codicistici riservati al contraddittorio dell’offeso[4], già a più riprese investiti da contribuiti esegetici espansivisti della giurisprudenza di legittimità[5], cui è seguita la poderosa dilatazione perimetrica dell’area dei diritti e delle facoltà della vittima del reato per spinta della succitata direttiva 2012/29/UE. Questa, nel sostituire la decisione quadro 2001/220/GAI, istituiva norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e indirizzava la compagine comunitaria a una omogeneità di normazione in favore delle medesime, nel recepire la quale l’Italia ha riconosciuto un crescente spessore processual-penalistico al soggetto passivo del reato, ancorché mediante azioni legislative mirate ad ambiti specifici di diritto penale sostanziale[6], per poi approdare al ben noto e acclamato decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 – che ha, fra le varie novità ivi disciplinate e qualche perplessità dottrinale[7], introdotto con il paradigmatico art. 90-bis c.p.p. una ampia congerie di informazioni alla persona offesa sullo svolgimento del procedimento penale e sulle guarentigie e facoltà difensive attribuitele in esso – e infine alla nota legge 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. “Codice rosso”)[8].
Ebbene, il dictum in postilla riflette a livello giurisdizionale, ancora una volta e con un piano tragitto logico-giuridico, la diuturna e sempre crescente sensibilità legislativa alla figura e alle garanzie dell’offeso e di quella introita l’intimo afflato estensivo degli originari confini dialettico-probatori imposti dal codice del 1988. Nel sottolineare l’erronea lettura offerta dall’ordinanza gravata circa la pretesa finalità del rimedio ex art. 263, co. 5, c.p.p., ivi inteso quale strumento di risoluzione delle sole controversie giuscivilistiche sull’appartenenza delle cose sequestrate, la pronuncia in esame, di contro, ne ribadiva, in ossequio alla lettera del medesimo disposto normativo, lo scopo interlocutorio sulla permanenza o non delle ragioni giustificative del sequestro probatorio, adottando, con una operazione esegetica di natura teleologica, tale causa procedurale quale parametro di ragguaglio e vaglio dell’interesse e, dunque, della legittimazione delle persone offese all’opposizione in parola, dandone esito sillogistico inesorabilmente positivo alla stregua delle su riportate motivazioni.
La πρόφασις di quest’epilogo nomofilattico è disvelata, invero, dall’implicito richiamo, nella sentenza qui annotata, all’archetipico proscenio dialettico pre-dibattimentale dell’offeso – l’opposizione alla richiesta di archiviazione – come proiezione finalistica ultima del rimedio in esame e quale filtro di verifica del relativo interesse a esso. Invero, all’opposizione ex art. 410 c.p.p. – meta elettiva di recente ingerenza legislativa pro victima[9] – e alla sua efficiente e proficua redazione (declinata quale espressione di effettiva interlocuzione probatoria per l’offeso in fase pre-processuale) la Corte Suprema parametra dunque lo scrutinio dell’interesse della persona offesa alla diversa opposizione normata all’art. 263, co. 5, c.p.p., affermando che «[…] la necessità di disporre di copia degli atti per articolare la propria strategia rispetto alla richiesta archiviazione è stata molto opportunamente evocata, nell’opposizione, perché proprio la spiegazione circa la necessità di disporre dei supporti per sostenere le proprie ragioni rispetto all’archiviazione serviva ad illustrare quale fosse l’interesse a coltivare il rimedio di cui all’art. 263, comma 5, cod. proc. pen.».
A una più pervasiva e trasversale analisi degli istituti coinvolti, tale assetto epistemologico si presenta come propaggine ulteriore di un copioso indirizzo giurisprudenziale di legittimità di analogo spirito ermeneutico, aliunde maturatosi in merito al vaglio di ammissibilità dell’opposizione alla richiesta di archiviazione[10]: esso, infatti, secondo una rigorosa opzione esegetica invalsa in nomofilachia, va confinato ai soli profili di pertinenza e di specificità dell’investigazione integrativa richiesta e non esteso anche alla relativa capacità probatoria[11], così da rendere tangibile, per mezzo del preliminare setaccio di quei requisiti dell’atto oppositivo e laddove appunto questo risponda ai canoni normativi di accesso al contraddittorio camerale ex art. 410, co. 3, c.p.p., la partecipazione della persona offesa in fase investigativa, così come affermato anche in dottrina[12].
La pronuncia in commento si innesta, dunque, nell’apprezzabile solco interpretativo valorizzante lo spirito legislativo – fisiologicamente innervato di sollecitazioni sociali ad hoc – di rafforzato coinvolgimento del soggetto passivo del reato fra i protagonisti dialogici del procedimento penale sin dal suo stadio embrionale. A parere di chi scrive, tuttavia, la asistematica propagazione testuale degli interventi diacronici del legislatore a ciò finalizzati rende impellente una risoluta impalcatura organica di riordino delle nuance normative infiltrate nel tessuto sempre più stratificato del nostro codice di rito.
*Avvocato del Foro di Napoli, Cultore di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e componente del Comitato Scientifico della Camera Penale di Napoli Nord.
[1] Cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 14039, in C.E.D. Cass., Rv. n. 278994-01, per cui «In tema di sequestro probatorio, in sede di opposizione avverso il decreto del pubblico ministero di rigetto della richiesta di restituzione delle cose sequestrate, prevista dall’art. 263, comma 5, c.p.p., il giudice per le indagini preliminari non può ordinare il dissequestro per motivi che attengono alla legittimità del provvedimento genetico – in quanto la competenza a decidere la fondatezza del “fumus” del reato contestato è riservata in via esclusiva al tribunale del riesame – ma solo per ragioni che attengono alla necessità od opportunità del mantenimento del vincolo.».
[2] Trattasi della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.
[3] T. Bene, La persona offesa tra diritto di difesa e diritto alla giurisdizione: le nuove tendenze legislative, in Archivio Penale 2013, n. 2, pp. 487 ss., reperibile sul relativo sito web della rivista, che cita sul punto in nota n. 6, E. Amodio – O. Dominioni, Persona offesa dal reato, in Comm. nuovo c.p.p., Milano 1989, I, p. 533, il quale, a pag. 539, ribadiva che «[…] si tratta di attività che, pur incidendo in qualche misura sulla sfera probatoria, si mantengono all’esterno degli atti di produzione e di assunzione della prova […] e in un sistema dominato dall’iniziativa delle parti nella richiesta e nella elaborazione della prova (artt. 190 e 498), questa marginalità operativa non può non essere sintomo di una deliberata scelta del legislatore che ha voluto relegare l’iniziativa dell’offeso dal reato nell’ambito di una mera “sollecitazione probatoria”.», come richiamato in C. Zarcone, La vittima: quale spazio nel processo penale, pag. 3, nota n. 8, articolo pubblicato il 7 ottobre 2016 su e reperibile sul sito della rivista on line Questione Giustizia edita dalla Associazione Magistratura Democratica.
[4] Su tutti, G. Cordero, La posizione dell’offeso dal reato nel processo penale: una recente riforma nella Repubblica Federale Tedesca ed il nostro nuovo codice, in Cass. pen., 1989, pp. 1115 ss., dove l’Autore commenta (pag. 1124): «[…] il contraddittorio è completato quando esista una dialettica non solo tra accusa e difesa, parti formali del giudizio, ma anche tra presunto autore e presunta vittima del reato, parti sostanziali. La meta che il legislatore dovrebbe prefiggersi, dunque, non si limita al perfezionamento della posizione dell‘imputato, indubbiamente bisognosa di miglioramenti; ma si estende anche alla posizione dell’offeso, che potrebbe veder incrementata la funzione “sollecitatoria” sul piano probatorio.».
[5] A mero titolo paradigmatico, in tema di dilatazioni euristiche giurisprudenziali delle facoltà probatorie del soggetto passivo, si segnala in nomofilachia l’ormai consolidata apertura al deposito della propria lista-testi da parte della persona offesa sebbene non ancora costituita parte civile, come pure di recente ribadito da Cass. pen., Sez. IV, 21 febbraio 2018, n. 27388, in C.E.D. Cass., Rv. n. 273411-01, in ossequio alla quale «La persona offesa che si costituisca parte civile fuori udienza ha la facoltà di depositare la lista testimoniale nei termini di cui all’art. 468 cod. proc. pen. prima della notificazione della dichiarazione di costituzione, e quindi ha il diritto, una volta costituita, all’ammissione delle prove testimoniali ivi indicate essendo l’imputato posto nella condizione di conoscere l’ambito di indagine rispetto al quale organizzare la propria difesa in dibattimento.», che s’inserisce in un ampio filone esegetico inaugurato con la nota Cass. pen., Sez. VI, 13 luglio 1999, n. 9976, in C.E.D. Cass., Rv. n. 2214182-01, per la quale «In tema di diritti e facoltà della persona offesa, l’art. 90 del cod. proc. pen. consente alla suddetta, anche se non costituita (o non ancora costituita) parte civile di indicare elementi di prova e quindi anche di chiedere al giudice di merito l’ammissione di testimoni.».
[6] Si pensi, ex multis, alla legge 1 ottobre 2012, n. 172 di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, nonché introduttiva norme di adeguamento dell’ordinamento interno; al decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24, di attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI; al decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province, convertito con modificazioni dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119.
[7] Si segnala fra gli esegeti di tale schiera L. Tavassi, Time danaos: la tutela della vittima e le trasformazioni del processo penale, in Archivio Penale 2017, n. 3, pp. 1 ss., reperibile sul relativo sito web della rivista. L’Autrice, nel commentare come il decreto legislativo in parola, nell’estendere a «[…] tutti i testimoni ritenuti particolarmente vulnerabili – in base ai vaghi criteri descritti dal nuovo art. 90-quater c.p.p. – la possibilità di essere escussi attraverso le modalità protette previste dall’art. 498, co. 4, c.p.p.» (pag. 2), abbia così amplificato la genetica «disparità di trattamento normativo» (pag. 8) già tracciata «[…] nell’impianto originario del codice del 1989, [che] aveva sacrificato la simmetria dei poteri sull’altare della ricerca della verità processuale, ammettendo la persona offesa-parte civile, e non l’imputato, al banco dei testimoni.» (pag. 1), rinviene nelle novelle articolazioni normative in materia «[…] evidenti torsioni subite dai principi fondamentali [e rileva come] la tenuta stessa del giusto processo appare fortemente in crisi. Si limitano l’imparzialità del giudice, il contraddittorio, l’immediatezza, la parità fra le parti, per attribuire alla “vittima” del reato una centralità che non dovrebbe avere diritto di cittadinanza in un sistema processuale imperniato sulla presunzione di non colpevolezza dell’imputato, dalla quale discende, logicamente e specularmente, che la vittima non può essere ritenuta tale fino alla condanna definitiva.» (pag. 3). Ella tuttavia rileva che «A ben vedere, le incursioni vittimo-centriche del legislatore europeo non hanno spostato le linee portanti di un sistema, come il nostro, che si misura pur sempre sul rapporto fra lo Stato accusatore e l’individuo accusato e in cui la persona offesa-danneggiata non può che rimanere relegata in una posizione marginale rispetto alla pubblica accusa.» (pag. 5), all’uopo citando in tal senso, in nota n. 13 (pag. 5), R. Orlandi, I diritti della vittima in alcune particolari modalità di definizione del rito penale, in Vittime di reato e sistema penale, la ricerca di nuovi equilibri, a cura di M. Bargis e H. Belluta, Torino, 2017, p. 167, e il relativo approdo interpretativo, secondo il quale «la regola (pressoché priva di eccezioni in Italia) è nel senso di un totale esautoramento di questo soggetto da poteri di iniziativa penale e anche lì dove tale iniziativa gli è riconosciuta, l’offeso esercita il relativo potere principalmente per promuovere la pretesa punitiva dello Stato, non già per far valere vendette o interessi privati».
[8] Con essa sono state varate “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”.
[9] Si pensi, exempli gratia, ai commi 3 e 3-bis dell’art. 408, co. 3, c.p.p. vigente e disciplinante i termini di presentazione dell’opposizione alla richiesta di archiviazione: nel primo le parole «nel termine di venti giorni» sono state sostituite alle parole «nel termine di dieci giorni» dall’art. 1, comma 31, lett. a), della legge 23 giugno 2017, n. 103; il secondo, poi, è stato inserito e poi modificato in sede di conversione dall’art. 2, comma 2, lett. g), del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, conv. dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, e in esso le parole «e per il reato di cui all’articolo 624-bis del codice penale» sono state inserite e le parole «trenta giorni» sostituite alle parole «venti giorni» dall’art. 1, comma 31, lett. b), legge 23 giugno 2017, n. 103.
[10] Volendo, si veda R. Piccirillo, Il giudizio sull’ammissibilità dell’opposizione ex art. 410 c.p.p. va confinato alla valutazione della specificità e pertinenza del supplemento istruttorio richiesto e non esteso alla sua rilevanza, in Rassegna Penale, Contributi per un diritto penale liberale, Rivista trimestrale curata dal Centro Studi “Giovanni Bisogni”, 2020, n. 1, pp. 167 ss.
[11] Fra le molte e per tutte, cfr. Cass. pen., Sez. II, 3 febbraio 2012, n. 8129, in C.E.D. Cass., Rv. n. 252476-01, in accordo alla quale «In tema di opposizione della persona offesa al decreto di archiviazione, il giudice deve limitare il giudizio di ammissibilità dell’opposizione ai soli profili di pertinenza e di specificità degli atti di indagine richiesti, senza valutarne la capacità probatoria, non potendo anticipare, attraverso il decreto, valutazioni di merito in ordine alla fondatezza o all’esito delle indagini suppletive indicate, in quanto l’opposizione è preordinata esclusivamente a sostituire il provvedimento de plano con il rito camerale.». Altresì Cass. pen., Sez. IV, 27 ottobre 2010, n. 41625, in C.E.D. Cass., Rv. n. 248914-01 ha ritenuto che «Il giudizio di ammissibilità nell’opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, é limitato ai soli profili della pertinenza e della specificità degli atti di indagine richiesti. (La Corte ha precisato che la valutazione sulla possibile capacità probatoria dei mezzi di prova indicati dalla persona offesa può essere effettuata soltanto in sede di udienza camerale).».
[12] Fonti R., L’opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, in Archivio Penale 2013, n. 2, pp. 14 ss., reperibile sul relativo sito web della rivista, la quale che «Ed invero, se da un lato le Sezioni unite hanno chiarito che le condizioni di ammissibilità dell’atto oppositivo “non sono suscettibili di discrezionali estensioni, né possono consistere in valutazioni anticipate di merito ovvero in prognosi di fondatezza”, dall’altro lato, la perentorietà di tali affermazioni è stata di fatto mitigata dal rilievo che la portata dei requisiti richiesti a pena di inammissibilità è definita dai complementari profili della pertinenza e rilevanza, intendendo la prima come l’”inerenza rispetto alla notizia di reato” e la seconda come “l’incidenza concreta sulle risultanze dell’attività compiuta nel corso delle indagini preliminari”. Proprio valorizzando quest’ultimo assunto, un consistente orientamento giurisprudenziale ritiene che il gip possa e debba dichiarare inammissibile l’opposizione alla richiesta di archiviazione, qualora il supplemento istruttorio indicato dalla persona offesa risulti superfluo, non pertinente ed inidoneo ad incidere sulla notitia criminis o sull’attività già svolta dal pubblico ministero e dunque sul tema della decisione.»; richiama (a pag. 15, nota n. 57) in conformità Di Nicola P., L’opposizione della persona offesa all’archiviazione, in Cass. pen., 1999, pp. 563 ss. e in particolare p. 568, e Pansini C., Contributo dell’offeso e snodi procedimentali, Padova, 2004, pag. 57.