DIRETTIVA EUROPEA SU PRESUNZIONE DI INNOCENZA E SCHEMA DI LEGGE – LE NOTE DELL’UNIONE
Pubblichiamo le note depositate dall’Unione Camere Penali Italiane in sede di audizione innanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in merito allo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della Direttiva UE 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. In allegato, altresì, la relazione illustrativa ed il dossier.
Il link alla videoregistrazione dell’audizione (dal minuto 38:20)
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Note sullo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della Direttiva UE 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”
Premessa.
L’elaborato contiene delle proposte di intervento per il rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
Il decreto legislativo prevede sei articoli. Prima di entrare nel merito di ogni singola disposizione, si possono evidenziare alcune criticità, che saranno riportate in modo puntuale nell’analisi dei singoli articoli dello schema di decreto legislativo.
Le norme, così come formulate, rischiano di essere dei meri desiderata che non avranno mai concreta applicazione, in contrasto inoltre con “l’effettività del ricorso” richiesta dall’art. 10 della Direttiva Europea, e questo sia per la limitata ed in alcuni casi discutibile individuazione dei soggetti controllori, sia per l’affidamento esclusivo alla parte debole – la persona sottoposta a processo – della legittimazione del potere di segnalazione e di richiesta di intervento (e per la mancata previsione del potere di intervento d’ufficio del giudice).
Si tratta, a modo di vedere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, di un passo avanti degno di considerazione purtuttavia inidoneo a raggiungere lo scopo di mitigare uno dei fenomeni maggiormente distorsivi della presunzione di innocenza e del giusto processo.
L’esame dei singoli articoli.
Art. 2. Dichiarazioni di autorità pubbliche sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale
L’art. 2 introduce il divieto, per le “autorità pubbliche”, di «indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili».
Non vengono specificate, né nel testo né nella relazione illustrativa, quali autorità si intendano “pubbliche”. Andrebbe inserito un elenco, almeno indicativo, di tali autorità. Nel silenzio della norma e della relazione, si può certamente affermare che a tutte le forze dell’ordine e di polizia giudiziaria andrebbe fatto divieto assoluto di pubblicazione, sui propri canali ed in generale sui media, di notizie riguardanti le indagini, salvo espressa autorizzazione – con provvedimento motivato – del pubblico ministero o del magistrato procedente, che ne dovrebbe assumere anche la responsabilità sia ai sensi del comma 2 dell’art. 1, sia in merito all’ordine di rettifica della cui emissione dovrebbe essere competente su richiesta dell’interessato, e infine anche in ordine alla verifica dell’adempimento a quanto previsto dal comma 4.
Il rimedio previsto dal comma 5 rappresenta un aggravio – anche sotto il profilo economico – per la parte interessata che è costretta ad adire il giudice civile con il patrocinio di un legale. L’autorità a cui chiedere di ordinare la pubblicazione della rettifica potrebbe essere individuata nell’Autorità Garante per le comunicazioni – le cui competenze andrebbero estese – per i casi nei quali non è prevista una autorizzazione da parte del pubblico ministero procedente, in difetto la competenza dovrebbe essere del giudice penale, e non del giudice civile.
Manca poi ogni riferimento alle persone giuridiche, enti comunque sensibili per effetto della responsabilità penale amministrativa ex L. 231/01. Non va dimenticato che già il sistema sanzionatorio e le procedure scoraggiano gli investimenti esteri nel nostro paese, anche e soprattutto a causa delle anticipazioni mediatiche, spesso in violazione del principio di non colpevolezza.
Art. 3. Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106
L’art. 3 prevede la possibilità delle conferenze stampa “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti”. Il problema, già sorto con alcune circolari di alcuni procuratori, è facilmente individuabile nella concentrazione nello stesso soggetto di figure che dovrebbero essere contrapposte. Chi stabilisce l’eventuale presenza della particolare rilevanza pubblica, chi compie le indagini, chi decide l’eventuale iscrizione di notizie di reato in tema di diffamazione e l’esercizio dell’azione penale sullo stesso tipo di reato – sulla base magari dell’assenza di rilevanza pubblica della notizia – e chi svolge la conferenza stampa sono lo stesso soggetto istituzionale, cioè la Procura della Repubblica. Appare evidente la incredibile concentrazione dei ruoli di controllore, controllato e inquirente nel medesimo soggetto.
Non è poi prevista sanzione alcuna per la violazione del comma 2, Art. 5 del Decreto legislativo n.106/2006, rimasto inalterato e volto evidentemente a reprimere eccessivi protagonismi inquisitori.
La delega da parte del Procuratore alla PG per i comunicati in stampa, nel testo, sembra totalmente in bianco, senza alcun onere di controllo da parte del Procuratore, tanto che sarebbe auspicabile prevedere formule di garanzia come: “sentito il Procuratore”, “previo parere del Procuratore” “secondo le direttive rese dal Procuratore”, oppure prevedere la delega come motivata ed ostensibile, con previsione specifica delle limitazioni di legge.
Induce perplessità, alla luce delle modifiche, anche il testo originario <anch’esso rimasto inalterato> del comma 4 che lascia al Procuratore della Repubblica l’obbligo di segnalare al consiglio giudiziario le condotte dei magistrati del proprio ufficio in contrasto col divieto di divulgazione circa l’attività giudiziaria.
Forse attribuire tale incombente al Procuratore Generale fornirebbe maggiori garanzie di imparzialità, oltre a rispondere a chiare esigenze di ordine sistematico.
Art. 4. Modifiche al codice di procedura penale
L’art. 4, ai commi 1, 3 e 4, prevede che «nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna divenuti irrevocabili», che «in caso di violazioni delle disposizioni di cui al comma 1, l’interessato può a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo», e che «sull’istanza di correzione il giudice che procede provvede, con decreto motivato, entro quarantottore dal suo deposito».
Premesso che una norma del genere senza una specifica sanzione disciplinare risulta essere un mero auspicio, appare evidente che la richiesta di correzione su istanza di parte è un rimedio che si fonda sulla sola volontà della parte debole. La persona sottoposta alle indagini o a processo, infatti, è in uno stato di debolezza psicologica, pensare che possa “battagliare” contro il pubblico ministero procedente, con una richiesta di correzione al giudice mentre è impegnato a difendersi nel merito, è alquanto velleitario, senza considerare i termini così brevi per azionare la richiesta di correzione. Dovrebbe essere previsto un potere di intervento di ufficio, da parte del giudice, ed in ogni caso un termine certamente maggiore, rispetto a quello di 10 gg. previsto, per la presentazione dell’istanza di correzione.
I rimedi e le procedure previste non sembrano rispondere alla “effettività del ricorso” richiesta dall’art. 10 della direttiva europea[1], e rischiano di non far emergere la vera incidenza dei dati e pertanto il loro studio, la cui competenza, quanto alla trasmissione alla Commissione Europea, il Ministero della Giustizia intende riservarsi (art. 5).
Inoltre, al di là della critica sull’utilità di una correzione di quello che viene definito un mero errore (come se fosse meramente materiale) non si comprende davvero come si possa concepire che lo stesso giudice che ha affermato convintamente un presupposto fattuale e una qualificazione della condotta dell’imputato, possa, rebus sic stantibus, fare marcia indietro, riconoscendo un proprio errore (con il che verrebbe meno anche la fondatezza del provvedimento appena adottato).
Ancor di più lascia perplessi la competenza funzionale dello stesso giudice del primo provvedimento (nella stragrande maggioranza dei casi il Gip) a decidere sull’opposizione avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di rettifica.
Art. 5. Rilevazione, analisi e trasmissione dei dati statistici.
L’art. 5 intende accentrare nel Ministero della Giustizia non solo la competenza alla trasmissione dei dati, ma anche la loro rilevazione ed analisi. Tali attività, soprattutto in ordine all’analisi dei dati, andrebbero affidate ad un soggetto terzo, sia in considerazione delle criticità sopra espresse nell’esame dell’art. 4 sia delle possibili autorità coinvolte, comprese le varie forze dell’ordine su cui il Ministero della Giustizia non ha competenza (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, etc.).
Considerazioni generali e finali e proposte.
Al di là delle singole norme, la direttiva europea, all’art. 4, pone un doppio perimetro: le dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche e la mancata presentazione come colpevole nelle decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza. Questo doppio perimetro – normativamente necessario, almeno il primo – limita il campo d’azione, lasciando fuori tutta una serie di soggetti e di atti[2] che contribuiscono in maniera determinante alla violazione del principio della presunzione di innocenza. Non a caso la direttiva non individua il soggetto controllore a cui i singoli stati devono delegare il controllo del rispetto delle norme in tema di presunzione di innocenza, lasciando dunque ampia libertà agli stessi.
Affidare in via esclusiva alla magistratura la tutela del diritto delle persone sottoposte a indagini o processo alla presunzione di innocenza e quindi anche al non subire un processo mediatico – una tutela contro un qualcosa che avviene in uno spazio esterno alle indagini e al processo – affidando inoltre in esclusiva alle parti deboli la legittimità attiva nel richiedere tutela, appaio rimedi inidonei – così formulati – a tutelare il principio di presunzione di innocenza.
Infatti, si parte dal presupposto limitante che il processo penale sia solo “un affare” tecnico e delle sole parti, ma soprattutto che la presunzione di innocenza sia un principio da tutelare solo all’interno del limitato spazio delle indagini e del processo e dell’agire dei soli attori degli stessi.
Le persone sottoposte ad indagini e processo rappresentano una minoranza debole, perché non solo sono “attenzionate” dallo Stato con tutta la forza invincibile che lo contraddistingue ma anche da vasti settori della società e dei mezzi di informazione. La magistratura e l’avvocatura non dovrebbero occuparsi della tutela di tali diritti al di fuori del processo. Perché hanno interessi confliggenti, non ne hanno le competenze e sono già parti all’interno dello spazio previsto per il loro agire: le indagini e i processi. Tale tutela andrebbe affidata ad una autorità garante esterna, indipendente, collegiale, composta da esperti in tante materie. Una autorità nominata del Presidente della Repubblica e non della politica, perché sia quanto più possibile non collegata, e non collegabile un domani, alla stessa.
In tal senso, un Garante per i diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo potrebbe realmente diventare quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea e dalle norme nazionali in via di definizione, ma anche da tutta quella serie di “atti extraprocessuali” di cui vengono inondati i media e i social network. Al Garante dovrebbe essere dunque riconosciuta anche la legittimazione attiva nel richiedere al giudice la correzione dei provvedimenti, anche d’ufficio e non solo su segnalazione dell’interessato, e la possibilità di adire in via diretta – come alla parte interessata – l’Autorità garante per le comunicazioni, le cui competenze andrebbero ampliate, per le violazioni delle altre “autorità pubbliche” di cui all’art. 2 dello schema di decreto legislativo.
Il “processo mediatico” è un virus che non colpisce solo il diretto interessato ma tutta la società, nella quale si diffonde a ritmi incontrollabili e con effetti a lungo termine non rilevabili nell’immediato. La competenza, dunque, non può essere relegata al singolo giudice addirittura su esclusiva legittimazione della parte debole processata sui media, né al solo spazio di indagine o processuale.
L’ufficio del garante dovrebbe essere collegiale, composto da tante professionalità diverse ognuna con competenze specifiche, non solo di diritto ma anche, tra le altre, di giornalismo, di sociologia, di scienze cognitive e di comunicazione. La sua attività di denuncia, di tutela ma anche di studio e di raccolta dei dati potrebbe essere concretamente utile ad arginare gli effetti del processo mediatico e quindi ad attuare una più vasta ed effettiva tutela del principio della presunzione di innocenza.
Per concludere, l’osservatorio informazione giudiziaria, media e processo penale dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha, in questi ultimi anni, affrontato il tema elaborando uno studio specifico al fine di idealizzare un codice dell’informazione giudiziaria in grado di arginare le distorsioni del processo mediatico e salvaguardare la presunzione di non colpevolezza. Di seguito, riportiamo un documento che contiene per riassunto le principali linee guida che sono state identificate in esito al monitoraggio delle vicende giudiziarie di maggior clamore degli ultimi anni.
Roma, 28 settembre 2021
Avv. Luca Andrea Brezigar, Responsabile dell’Osservatorio UCPI sull’informazione giudiziaria
Avv. Giorgio Varano, Responsabile della Comunicazione UCPI, Segretario di redazione della rivista UCPI “Diritto di Difesa”
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“UN CODICE DELL’INFORMAZIONE GIUDIZIARIA CONTRO IL PROCESSO MEDIATICO”
L’art.114 cod. proc. pen. è norma che, certamente, può essere migliorata ma non si può affermare che manchino in essa le disposizioni idonee in astratto a ridurre la c.d. gogna mediatica dell’indagato/imputato.
De iure condendo si potrebbe esplicitare in essa un divieto assoluto di pubblicazione in ogni stato e grado del procedimento di tutti gli atti (e del loro contenuto) che contengano notizie riguardanti soggetti terzi per comportamenti che non costituiscono reato ovvero notizie che coinvolgono la persona indagata ma per fatti privati non costituenti reato.
Si potrebbe, inoltre, estendere il divieto di pubblicazione di atti coperti dal segreto, ancorché gli stessi siano stati “riversati” o citati in provvedimenti decisori esclusi dal divieto di cui all’art. 114 (in primis le ordinanze di applicazione di misure cautelari).
La prassi di divulgare le ordinanze cautelari che riproducono testualmente interi atti di indagine o stralci di essi (intercettazioni, s.i.t., etc) tradisce infatti la ratio dell’art. 114 c.p.p., commi 2, 3 e 7, in quanto rende facilmente accessibili al giudice del dibattimento atti o parti di atti dei quali dovrebbe restare all’oscuro.
Suggeriamo, inoltre, di eliminare l’aggiunta inserita dalla Riforma Orlando sulle ordinanze.
È possibile rafforzare il meccanismo sanzionatorio relativo alla violazione dei divieti di cui all’art.114 c.p.p. e, al riguardo, riteniamo che possano essere più efficaci sanzioni amministrative di natura pecuniaria piuttosto che il ricorso alla sanzione penale (che, per i reati di opinione, è in sé discutibile).
Riteniamo però che, nell’affrontare complessivamente il problema del processo mediatico, non si possa prescindere dall’esaminare le condizioni in cui viviamo nella nostra società moderna.
Ci riferiamo alla rivoluzione di internet e dei social, che hanno stravolto il modo di fare comunicazione (siamo ormai da tempo in una strada senza ritorno).
“Internet” è l’invenzione che ha trasformato il nostro modo di vivere, ancor più che la televisione e la radio, ha abbattuto i confini (non solo quelli geografici) e ha reso di fatto impossibile impedire la circolazione di una notizia.
In queste condizioni pensare di tutelare la riservatezza e la considerazione sociale di una persona coinvolta in una vicenda giudiziaria esclusivamente attraverso la limitazione del diritto della stampa di fare cronaca giudiziaria può apparire illusorio. Forse non è questa la strada che dobbiamo intraprendere.
Bisogna intervenire con delle regole condivise fra operatori del diritto (magistrati e avvocati) e giornalisti su come presentare la notizia; regole cui conferire poi valore di legge con la previsione di sanzioni (a nostro avviso di natura amministrativa) per la loro violazione.
Tutto deve partire dal principio cardine della nostra Costituzione: la presunzione di innocenza (sancita dall’art.27 comma 2 Cost.[3]) significa che nessuno è “considerato” colpevole fino alla condanna definitiva.
Ragioniamo sul termine “considerato”: è diverso dal verbo essere e significa che la società deve atteggiarsi verso l’indagato/imputato presentandolo agli occhi dell’opinione pubblica innocente, con ogni conseguenza che da ciò ne deriva.
L’opinione pubblica è lo specchio della società e quindi il risultato a cui bisogna giungere è che nel modo di presentare la notizia risulti evidente la presunzione di innocenza al pari almeno del contenuto della notizia.
Deve nascere una nuova cultura, quella per la quale chi legge una notizia su una indagine sa e ricava dal testo (cioè per come viene presentata la notizia stessa) che la persona coinvolta è solo accusata di avere commesso un reato e che non è ancora colpevole, anzi ci sono concrete possibilità che venga assolta all’esito del processo (per esempio, dovrà emergere una chiara distinzione fra arresto e condanna, fra indagine e processo, etc.).
Oggi, nella prassi, assistiamo ad una tecnica di redazione della notizia da parte dei giornalisti che (come a voler scaricare su altri la responsabilità delle affermazioni più gravi) si nasconde dietro la citazione “fra virgolette” di stralci dell’ordinanza cautelare che, a sua volta, come ben sappiamo, è caricata di espressioni forti (specie nella parte della motivazione sulle esigenze cautelari)[4].
Pensiamo che la soluzione possa essere individuata in una legge ad hoc (un codice dell’informazione giudiziaria) con regole il più possibile determinate, precise e dettagliate; con le relative sanzioni (di natura amministrativa): il tutto per concretizzare la presunzione di innocenza e, gradatamente, la tutela della privacy.
Del resto, anche dopo l’introduzione del “giusto processo” in Costituzione (art.111) si è sentita la necessità di una legge attuativa di quei principi che altrimenti erano destinati a rimanere lettera morta.
L’affidare la tutela delle corrette modalità di presentazione della notizia alla sola potestà disciplinare degli ordini di appartenenza non appare determinante per conseguire l’attuazione del principio costituzionale della presunzione di innocenza.
Né si vede come la tipizzazione di specifiche regole che attengono solo alla evidenziazione delle caratteristiche comuni a tutte le notizie relative ad indagini o processi ancora in corso (in funzione – appunto – della specificazione della presunzione di innocenza) possa essere “presa” dalle categorie di riferimento come una “censura” al diritto costituzionale di cronaca e critica.
Per noi questo è un punto fondamentale. Bisogna uscire dall’equivoco che ogni riferimento a fatti inerenti a procedimenti penali sia di per sé espressione del diritto di informare e di essere informati.
La libertà di espressione e il diritto di cronaca non può essere considerato un diritto assoluto, ma al pari degli altri diritti costituzionali, esso deve essere bilanciato con altri diritti di pari rango.
Pensiamo a diritti di natura “soggettiva”, quali in primis quello di essere considerati presunti innocenti fino alla condanna legalmente provata, il diritto alla riservatezza e al rispetto della vita privata e alla reputazione del soggetto coinvolto; ma anche diritti di natura “oggettiva-pubblicistica” quali la segretezza della fase investigativa e il diritto al giusto processo, inteso come diritto alla formazione della prova nel dibattimento in contraddittorio, il diritto ad un giudice terzo e imparziale (c.d. virgin mind o verginità cognitiva del Giudice).
L’indubbio interesse della collettività ad essere informata sull’andamento dei processi giudiziari – strumento di garanzia e di controllo sull’esercizio del potere giudiziario – non può essere utilizzata, anche strumentalmente, per calpestare diritti del singolo o per inquinare il vero processo, così pregiudicando il corretto esercizio della giustizia[5].
È nel doveroso bilanciamento di questi diritti che giornalisti, magistrati, autorità pubbliche e avvocati devono muoversi quando rendono dichiarazioni pubbliche o divulgano informazioni.
Bilanciamento che in realtà è già riconosciuto come necessario dai tutti i soggetti coinvolti, come emerge dai codici di disciplina, dai provvedimenti del Garante della Privacy e dalle linee guide delle Procure.
Tuttavia, come detto sopra, la scarsa efficacia di tali strumenti privi di forza cogente, rende a nostro avviso necessario un intervento legislativo che dia dei parametri certi e determinati che orientino la scelta, se non per eliminare per ridurre lo spazio di discrezionalità.
Bisogna pensare, come già auspicava Amodio, «a misure appropriate a ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere di esercitare una penetrante attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza».
Ulteriormente occorre osservare che nell’ambito della legislazione europea è di rilievo la direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 sul rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
In particolare, l’art.4 comma 1 stabilisce che: “gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”[6].
Ai sensi del terzo comma del medesimo articolo, le autorità pubbliche possono divulgare informazioni sui procedimenti penali, “qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”[7].
La direttiva è stata finalmente recepita dal Parlamento italiano il 30 marzo 2021.
L’attuazione della direttiva citata deve essere l’occasione della iniziativa politica volta a regolare o meglio a contenere gli effetti ormai devastanti del c.d. “processo mediatico” (e ciò anche se la prospettiva del legislatore europeo è limitata alle “dichiarazioni rilasciate dalle autorità pubbliche” che rappresentano, tuttavia, solo una delle cause della distorsione giustizialista della cronaca giudiziaria).
La realtà, infatti, è ben diversa e ci parla, oltre che della spinta di una parte della magistratura inquirente verso la deriva della presunzione di innocenza (principalmente per enfatizzare i risultati delle indagini, ma non solo[8]), anche – e direi soprattutto – di un’autonoma perversa alleanza fra il giustizialismo di massa e un certo giornalismo.
Per questa ragione, occorre pensare ad un codice (non solo deontologico[9], ma di legge) che detti regole condivise per il comportamento dei magistrati (in piena attuazione della direttiva europea) ma anche degli avvocati e dei giornalisti.
Un capitolo a parte merita poi il tema della tutela della imparzialità del Giudice che proprio l’informazione giudiziaria distorta (che a sua volta alimenta la pressione mediatica giustizialista) pone in pericolo.
Non si può certo pensare di impedire al Giudice di accedere alla rete (e con essa al mondo delle notizie); pensare ad un Giudice chiuso in una stanza, impermeabile al mondo esterno fatto di circolazione di notizie (anche inerenti quindi il processo nel quale deve giudicare) è a dir poco improponibile.
Tuttavia crediamo sia necessario diffondere la cultura del giusto processo: è fondamentale comprendere e far comprendere che i principi del contraddittorio, della formazione della prova in dibattimento, della verginità cognitiva del giudice sono il modo migliore per raggiungere la verità e per arrivare a una decisione giusta.
Per questo sarebbe auspicabile che di fronte al rischio di inquinamento del processo, l’informazione facesse un passo indietro o quanto meno fosse disponibile a ritardare alcune informazioni.
Pensiamo in particolare alla pubblicazione di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nei casi in cui venga celebrato il dibattimento e nella prassi di intervistare le persone già sentite dal P.M. o dalla P.G. prima che le stesse siano state sentite in dibattimento.
Il diritto di cronaca permette di fornire una conoscenza parziale, ancorché attraverso un serio vaglio della veridicità di quanto viene diffuso, e possibilmente senza digressioni specialistiche come siamo purtroppo soliti assistere, fino a quando non siano stati approfonditi giudizialmente tutti gli elementi della vicenda trattata.
Ecco perché l’esistenza di indagini a carico di taluno non deve autorizzare ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare, se non addirittura a sostituirsi agli organi investigativi nell’anticipazione del riconoscimento della responsabilità attraverso anticipati giudizi autonomi da quello istituzionale.
Ed allora la presunzione di conoscenza parziale dei fatti andrebbe considerata una regola generale da applicare a qualunque attività valutativa, e nel caso dei mezzi di comunicazione di massa, proprio per l’effetto diffusivo delle notizie, la suddetta regola dovrebbe essere un principio irrinunciabile
Quanto mai attuale è l’insegnamento risalente agli anni ’70 del giudice Brennan, ricordato da E. Amodio, secondo cui «non si può seriamente dubitare che l’incontrollata pregiudizievole pubblicità prima del dibattimento possa distruggere la fairness di un processo penale» (Nebraska Press Association v. Stuart, 1976[10]).
Un “codice dell’informazione giudiziaria” potrebbe ulteriormente rafforzare il divieto contenuto nell’art.114 comma 3 cod. proc. pen. di pubblicazione di atti delle indagini (sommarie informazioni testimoniali, brogliacci di intercettazioni, relazioni ex art.359 cod. proc. pen., etc.) che non possono, per legge, transitare nel fascicolo del dibattimento.
E dovrebbe stabilire un espresso divieto imposto alle persone informate sui fatti di rendere dichiarazioni alla stampa.
Sotto altro autonomo profilo, sempre de iure condendo, l’art.4 comma 1 e il punto 44 dei “considerandum” della direttiva 2016/343/UE (che invita gli Stati membri ad “istituire mezzi di ricorso adeguati ed efficaci in caso di violazione dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione”, cfr. nota 2) possono costituire il presupposto per la previsione di una estensione delle ipotesi di rimessione del processo (art.45 cod. proc. pen.) a tutela del valore della imparzialità del giudice.
Infatti, se, con qualche difficoltà[11], è possibile affermare che le decisioni giudiziarie non sono influenzabili dagli articoli di stampa, non è invece sostenibile ritenere che le dichiarazioni rese da altra “autorità pubblica”, magari deputata al compimento delle indagini preliminari, lasci ugualmente indifferente il giudice – collega – chiamato a pronunciarsi, anche in fase endoprocessuale[12].
In questo senso è opportuno recuperare l’istituto della rimessione processuale, mediante ampliamento del catalogo previsto dall’art. 45 cod. proc. pen., così da poter considerare le esternazioni di una pubblica autorità, che presentino alla opinione pubblica un presunto innocente come colpevole, alla stregua delle gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo o da determinare motivi di legittimo sospetto, così da rimettere l’incolpato avanti ad un organo giurisdizionale che appaia, oltre che essere, imparziale ed esente da condizionamenti.
Ciò in un’ottica ripristinatoria di quegli equilibri necessari, che sovrintendono alla celebrazione del giusto processo.
Si potrebbero, inoltre, prevedere meccanismi riparativi extraprocessuali, di natura risarcitoria da parte dello Stato.
Roma, 28 settembre 2021
L’Osservatorio UCPI sull’informazione giudiziaria
[1] Direttiva (UE) 2016/343, art. 10 comma 1: «Gli Stati membri provvedono affinché gli indagati e imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti conferiti dalla presente direttiva».
[2] Basti pensare ai tanti atti, sentenze comprese, in cui il proscioglimento o l’assoluzione vengono descritti sui media come dovuti a qualche ragione procedurale, indicando la persona come certamente colpevole, ma non punibile, oppure ai decreti di perquisizione e sequestro di numerose pagine nei quali viene effettuata una ricostruzione delle presunte responsabilità, con l’indicazione dei relativi mezzi di prova.
[3] oltre che dalle Convenzioni internazionali (art. 6 comma 2 CEDU; art. 14 Patto internazionale sui diritti civili e politici; art. 11 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo).
[4] “pervicace” è l’aggettivo più inflazionato: tutti i soggetti raggiunti da una misura cautelare sono “pervicaci”.
[5] Del resto occorre altresì ricordare che il comma 2 dell’art 10 CEDU si muove nella realistica constatazione che la libertà di espressione comporta doveri e responsabilità e che pertanto l’esercizio della libertà di espressione può essere sottoposto a “formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni” necessarie, tra le altre “alla protezione della reputazione o dei diritti altrui (…) o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
[6] Il punto 16 dei “considerandum” si esprime nel senso che «la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole». Disposizione che la Direttiva auspica giustiziabile al successivo punto 44, laddove invita gli Stati membri ad “istituire mezzi di ricorso adeguati ed efficaci in caso di violazione dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione”. Con la precisazione che “un mezzo di ricorso efficace che sia disponibile in caso di violazione dei diritti sanciti dalla presente direttiva dovrebbe avere, per quanto possibile, l’effetto di porre l’indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa”.
[7] Il considerando 18 della Direttiva specifica la ragione di assoluta necessità, precisando che il ricorso a tali ragioni dovrebbe essere limitato a situazioni in cui ciò sia ragionevole e proporzionato, tenendo conto di tutti gli interessi. In ogni caso, le modalità e il contesto di divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l’impressione della colpevolezza dell’interessato prima che questa sia stata legalmente provata.
[8] anche purtroppo per scopi politici.
[9] Basta esaminare la scarna giurisprudenza disciplinare tanto del CNF quanto del CSM per constatare quanto poco efficace sia il controllo interno al singolo ordinamento professionale.
[10] Ennio Amodio “La retorica colpevolista della giustizia mediatica”, consultabile sul sito dell’Unione delle Camere Penali www.camerepenali.it
[11] Da più parti infatti sono stati evidenziati i rischi di indebite influenze sui giudici del “processo mediatico”.
[12] La neutralità psicologica del giudicante (c.d. virgin mind) è un principio cardine del processo accusatorio e richiede che il giudice arrivi al dibattimento sgombro da pregiudizi, dovendo assistere davanti a sé alla formazione della prova nel contradditorio di accusa e difesa, così che la tutela del segreto investigativo è stata ritenuta esplicazione anche della garanzia di neutralità.