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PIÙ TORTI NON FANNO UNA RAGIONE. LE VICISSITUDINI GIURISPRUDENZIALI RELATIVE  ALL’ABROGAZIONE DEL REATO DI ABUSO D’UFFICIO – DI ROBERTO D’ANDREA

PIÙ TORTI NON FANNO UNA RAGIONE. LE VICISSITUDINI GIURISPRUDENZIALI RELATIVE ALL’ABROGAZIONE DEL REATO DI ABUSO D’UFFICIO – DI ROBERTO D’ANDREA

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PIÙ TORTI NON FANNO UNA RAGIONE. LE VICISSITUDINI GIURISPRUDENZIALI RELATIVE ALL’ABROGAZIONE DEL REATO DI ABUSO D’UFFICIO

di Roberto D’Andrea*

L’abrogazione dell’art. 323 c.p. ha destato in giurisprudenza numerosi dubbi di legittimità costituzionale, soprattutto in relazione all’asserito inadempimento sopravvenuto di un supposto obbligo sovranazionale di incriminazione del reato di abuso d’ufficio, che discenderebbe da alcune disposizioni della c.d. Convenzione di Merida contro la corruzione e dalla direttiva europea 2017/1371. Nel presente lavoro, si prenderanno brevemente in rassegna le ordinanze susseguitesi in materia e si sosterrà, pur non condividendo l’opportunità politica di un simile intervento legislativo, l’impossibilità di ravvisare nelle fonti sovranazionali menzionate un obbligo tale da rendere necessaria una dichiarazione di incostituzionalità dell’abrogazione del reato in questione.

The abrogation of Article 323 of the Italian criminal code has raised numerous doubts of constitutional legitimacy in case law, especially in relation to the alleged breach of a supposed supranational obligation to incriminate the offence of abuse of office, which would derive from certain provisions of the so-called Merida Convention against Corruption and the European Directive 2017/1371. In the present work, we will briefly review the judgments on the subject and argue, while disagreeing with the political expediency of such a legislative intervention, that it is impossible to recognize in the above-mentioned supranational sources an obligation such as to require a declaration of unconstitutionality of the abrogation of the offence in question.

Sommario

Introduzione. 1. La giurisprudenza costituzionale in relazione ad interventi con effetti in malam partem. 2. Sul contrasto dell’abolizione dell’abuso d’ufficio ad opera della ‘legge Nordio’ con il diritto sovranazionale: la c.d. Convenzione di Merida. 3. Segue: la direttiva Ue 2017/1371. 4. La proposta di direttiva. Considerazioni conclusive. 

Introduzione.

La tematica relativa alla recente abrogazione, ad opera della c.d. ‘legge Nordio’[1], del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) è oggi al centro di un ampio e travagliato dibattito tanto dottrinale[2] quanto giurisprudenziale. Esso si gioca su almeno due fronti: l’uno di ordine costituzionale; l’altro di opportunità politico-criminale. A livello metodologico andrebbe per quanto possibile evitata ogni indebita sovrapposizione fra i medesimi; tuttavia, come si vedrà nel prosieguo del lavoro, non sembra essere stato questo il caso delle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale in analisi.

In questa sede, lungi dal ripercorrerne tutti i risvolti, ci si intende limitare ad operare una sintesi critica dei sette provvedimenti[3] che hanno sinora affrontato la questione inerente alla legittimità costituzionale dell’intervento ablatorio. La netta maggioranza (rectius, la quasi totalità) degli stessi – lo si anticipa fin da subito – si è risolta nel senso di ritenere, con argomentazioni in larga parte sovrapponibili, rilevante e non manifestamente infondata la q.l.c. della norma abrogativa in parola per contrarietà agli artt. 11 e 117 Cost., in quanto essa darebbe luogo, secondo questa impostazione, ad un inadempimento sopravvenuto[4] dello Stato italiano dell’obbligo sovranazionale (e dunque anche all’obbligo costituzionale) di incriminazione della condotta di abuso d’ufficio posta in essere dai pubblici ufficiali. Tre di queste pronunce, poi, si sono spinte anche fino al punto di ritenere l’abrogazione in conflitto con ulteriori disposizioni costituzionali, ed in particolare l’art. 3 e l’art. 97 Cost[5].

Ora, al netto delle differenze che intercorrono fra un’ordinanza e l’altra (e che verranno sottolineate laddove lo si ritenga opportuno), la loro struttura di fondo è – come è inevitabile – simile: il punto d’avvio si incentra sull’analisi della giurisprudenza costituzionale in materia di sindacato sulle norme penali con effetti in malam partem, ivi compresa l’ultima pronuncia della Corte in materia di abuso d’ufficio[6]; si prende poi in esame il vertiginoso tema degli obblighi costituzionali di incriminazione[7], ed in particolare di quelli di derivazione sovranazionale – che rappresentano del resto la principale eccezione all’inammissibilità di decisioni in malam partem in campo penale da parte del giudice costituzionale; si conclude infine nel senso di ravvisare o di escludere la contrarietà della ‘legge Nordio’ alla Costituzione.

1. La giurisprudenza costituzionale in relazione ad interventi con effetti in malam partem.

La questione dell’ammissibilità di un sindacato da parte della Corte costituzionale con effetti penali in malam partem si ricollega, in ultima analisi, allo stesso principio di legalità, costituzionalmente scolpito all’art. 25, comma II, da cui pacificamente discende il monopolio in capo al legislatore delle scelte di criminalizzazione, talché deve ritenersi preclusa alla Corte costituzionale la creazione di nuove norme penali. Una siffatta preclusione determina poi, a sua volta, la regola dell’inammissibilità di declaratorie di illegittimità costituzionale con efficacia in malam partem.

Nondimeno, non si tratta di una regola priva di eccezioni: il sindacato della Corte è infatti, anzitutto, per consolidata giurisprudenza costituzionale, ammesso in caso di cc.dd. norme penali di favore, ovverosia “quelle che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento”, poiché “[l]’effetto in malam partem conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali norme non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria”[8].

Diverse, invece, le cc.dd. norme penali favorevoli – categoria alla quale tradizionalmente appartiene proprio l’abrogazione totale o parziale di una disposizione incriminatrice – poiché in questo caso “la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte”[9]. Anche questo divieto soffre di talune eccezioni, puntualmente indicate dal Giudice delle leggi[10]. La principale, sulla quale unicamente ci si soffermerà, è data dalla sussistenza di obblighi costituzionali di incriminazione di fonte sovranazionale[11].

Ora, poiché le eventuali irrazionalità o disparità di trattamento, o gli eventuali sopravvenuti vuoti di tutela, non rientrano in quanto tali fra le ragioni di per sé suscettibili di dar luogo ad un’eccezione alla regola dell’inammissibilità di pronunce in malam partem, non ci si intende attardare, nel prosieguo della trattazione, nelle argomentazioni dei giudici comuni tese ad ottenere una declaratoria di incostituzionalità su queste basi[12]. Si indagherà, pertanto, esclusivamente il cuore del discorso, ossia il contrasto, o meno, dell’abrogazione dell’abuso di ufficio con eventuali obblighi sovranazionali di criminalizzazione.

2. Sul contrasto dell’abolizione dell’abuso d’ufficio ad opera della ‘legge Nordio’ con il diritto sovranazionale: la c.d. Convenzione di Merida.

Secondo sei delle sette ordinanze in argomento (ad eccezione, come si vedrà, del Tribunale di Reggio Emilia), l’abolizione del reato di abuso d’ufficio cozzerebbe innanzitutto con la Convenzione ONU del 2003 contro la corruzione (c.d. Convenzione di Merida)[13].

Si è innanzitutto prospettato il contrasto fra l’abolizione dell’abuso d’ufficio e l’art. 19 della suddetta Convenzione, rubricato appunto Abuso d’ufficio, a mente del quale “[e]ach State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the 18discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity”.

La maggioranza delle ordinanze di rimessione ritiene, in spregio al chiaro dettato della norma appena richiamata, di poter ricavare dalla stessa un obbligo di incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio, essenzialmente sulla base di argomentazioni di carattere sistematico e teleologico che comportano, tuttavia, una evidente torsione della littera legis, che pur dovrebbe rappresentare, secondo un basilare canone di deontologia ermeneutica, il limite invalicabile di ogni attività interpretativa[14].

Secondo la prospettazione degli organi giudiziari favorevoli all’incostituzionalità della ‘legge Nordio’, la norma riportata assumerebbe anch’essa carattere obbligatorio e si distinguerebbe in maniera netta da quelle di tipo puramente facoltativo (caratterizzate dalla diversa locuzione “may adopt”), ricollegandosi sistematicamente a talune disposizioni[15] munite di una valenza esclusivamente interpretativa (e non direttamente precettiva) e proiettandosi teleologicamente sul piano del generale principio di buona fede nell’interpretazione dei trattati[16].

I giudici favorevoli all’incostituzionalità ricavano così un obbligo in capo agli Stati che già abbiano considerato e deciso di adottare disposizioni di contrasto all’abuso d’ufficio. La valutazione si sarebbe pertanto, in quest’ottica, sostanzialmente cristallizzata in perpetuo, precludendosi qualunque possibilità di rivalutare e riconsiderare, re melius perpensa, la necessità o l’opportunità politica di (continuare a) prevedere il reato di abuso d’ufficio, decidendo infine di eliminare questa figura dal tessuto ordinamentale.

Il secondo, e forse ancor più rilevante parametro della Convenzione che viene in rilievo (anche letto in combinato disposto con il summenzionato art. 19) è l’art. 7, comma IV, secondo cui “[e]ach State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest”. Dalla disposizione in parola deriverebbe, secondo i giudici che propendono per l’incostituzionalità, un vero e proprio “divieto di regresso” (o c.d. obbligo di stand-still) in capo agli Stati membri, rispetto ai quali, come si suol dire, electa una via, non datur recursus ad alteram. Sarebbe cioè inibito agli Stati qualunque affievolimento della tutela penale accordata ai cittadini contro gli abusi del potere.

Un divieto di regresso così strutturato presuppone l’assunto latente secondo cui la norma incriminatrice delle condotte di abuso d’ufficio costituirebbe un ineludibile bastione a presidio della trasparenza dei funzionari e della prevenzione dal conflitto di interesse. Addirittura, si è sostenuto che l’introduzione, ed il mantenimento di tale figura di reato rappresenterebbe la migliore soluzione di cui gli ordinamenti possano disporre[17].

Una simile ricostruzione della Convenzione di Merida non può essere condivisa.

Per quanto l’opportunità politico-criminale di una drastica abrogazione come quella prevista dalla ‘legge Nordio’ possa fondatamente revocarsi in dubbio, si tratta di un piano diverso da quello della relativa legittimità costituzionale.

La lettura congiunta degli artt. 19 e 7[18] della Convenzione nel senso di disporre un obbligo di criminalizzazione dell’abuso di ufficio sembra operare, oltre che in evidente violazione del dato testuale, anche in contrasto con il principio fondamentale in materia penale legato alla sussidiarietà ed extrema ratio[19]. Ciò varrebbe, invero, in linea di principio anche con riguardo, più in generale, agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione in quanto tali: già solo l’idea sottesa agli stessi pare iscriversi in un ordine concettuale di segno diametralmente opposto rispetto a tale principio: se infatti quest’ultimo impone di ricorrere allo strumento penale solamente laddove ogni altra soluzione – prospettabile e prospettata – si riveli inidonea allo scopo, per converso l’obbligo di incriminazione pare generalmente partire dall’ipotesi di una necessità di intervento penale, aprioristicamente scartando altre possibili e meno intrusive soluzioni normative e così rinunciando in partenza all’obiettivo di raggiungere, secondo il noto auspicio di Gustav Radbruch, “qualcosa di meglio” del diritto penale. Ciò pare, del resto, collegato in una qualche misura all’attuale configurazione del diritto internazionale, che sebbene rappresenti, come si è autorevolmente rilevato, un “mite civilizzatore delle nazioni”[20], e si stia evolvendo nel tempo, continua talora a presentare tratti – per riprendere qui la classica lettura kelseniana, per alcuni aspetti forse non più attuale[21] – fondamentalmente primitivi, in quanto deve ancora compiutamente acquisire alcuni essenziali principi di civiltà giuridico-culturale – come appunto quello di sussidiarietà ed extrema ratio del diritto penale. D’altronde, se un obbligo di criminalizzazione può giustificarsi a fronte di condotte ad altissima carica lesiva di primari beni della vita (come la stessa vita, la libertà e l’integrità fisica)[22] – si pensi, ad esempio, al crimine del genocidio o alla tortura[23] – ciò non vale rispetto a comportamenti che, pur dotati magari di un’offensività non trascurabile, non raggiungono, e paiono lontani dal raggiungere, simili estreme soglie di offensività (e fra gli stessi sembra a pieno titolo collocarsi proprio l’abuso di ufficio).

Fra le ordinanze che si stanno prendendo in rassegna, l’unica che sembra adeguatamente ricostruire lo ‘statuto normativo’ dell’abuso d’ufficio nell’economia generale della Convenzione contro la corruzione è quella emessa dal Tribunale di Reggio Emilia. Con un ragionamento coerente e lineare, esso esclude che da tale fonte normativa possa derivarsi un obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio.

Innanzitutto, il Tribunale ricostruisce fedelmente il dato testuale e la ratio dell’art. 19, rilevando che “tale norma non comporta l’obbligo di incriminare tali tipologie di condotte [di abuso d’ufficio], bensì solo l’impegno degli Stati a prendere in considerazione o esaminare l’adozione delle misure legislative necessarie a prevedere come reato tale comportamento, nell’esercizio della propria discrezionalità politica che, evidentemente, resta libera nella decisione finale”[24].

I giudici negano poi persuasivamente anche la sussistenza di un “divieto di regresso”, rilevando che esso “sussisterebbe solo se la sua criminalizzazione fosse prevista come obbligatoria, comportando la sua successiva abrogazione una situazione di sopravvenuto inadempimento all’obbligo di criminalizzazione […]. Ben diverso è il caso che ci occupa, in cui – difettando, in radice, qualsiasi obbligo di criminalizzazione o qualsiasi altra norma convenzionale che comunque imponga il “divieto di regresso” – non è configurabile inottemperanza alcuna, né originaria né sopravvenuta”[25].

Purtuttavia, da ultimo, l’unico profilo di frizione con il diritto sovranazionale rinvenuto dal Tribunale attiene alla astratta violazione di una direttiva europea, che subito si analizzerà brevemente.

3. Segue: la direttiva Ue 2017/1371.

Il Tribunale di Reggio Emilia, pur avendo escluso un obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio derivante dalla Convenzione ONU contro la corruzione, nondimeno, astrattamente, rileva un profilo di contrarietà della ‘legge Nordio’ con la direttiva Ue 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione attraverso il diritto penale (c.d. direttiva PIF). All’art. 4, comma III della stessa si prevede che “[h]li Stati membri adottano le misure necessarie affinché, se intenzionale, l’appropriazione indebita costituisca reato. Ai fini della presente direttiva, s’intende per «appropriazione indebita» l’azione del funzionario pubblico, incaricato direttamente o indirettamente della gestione di fondi o beni, tesa a impegnare o erogare fondi o ad appropriarsi di beni o utilizzarli per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell’Unione”.

Come sottolineato dai giudici di Reggio Emilia[26], “seppur è vero che l’art. 4 non prescrive l’introduzione del reato di abuso d’ufficio, è altrettanto vero però che lo stesso impone la criminalizzazione di una serie di condotte appropriative e distrattive che la giurisprudenza di legittimità ha concordemente ricondotto […] nell’alveo dell’art. 323 cod. pen., oggi abrogato”. Il problema, proseguono i giudici[27], “non si porrebbe in modo generalizzato per tutte le ipotesi, invero ampie, prima sussumibili nell’ambito dell’art. 323 cod. pen., ma unicamente in relazione alle condotte appropriative e distrattive cui ha riguardo l’art. 4, par. 3, già citato”[28]; l’obbligo sarebbe, sì, “in parte adempiuto attraverso l’introduzione dell’art. 314 bis cod. pen.”, ma tale norma circoscrive l’incriminazione esclusivamente al denaro e ai beni mobili, “mentre detta limitazione non si rinviene a livello euro-unitario in alcuna parte della Direttiva. Di conseguenza, rispetto a condotte distrattive che abbiano ad oggetto immobili, l’intervenuta abrogazione dell’abuso d’ufficio determinerebbe un inadempimento sopravvenuto all’obbligo di incriminazione sovranazionale, sindacabile in base all’art. 117 Cost”[29].

In concreto, tuttavia, nel caso di specie, i giudici hanno constatato che “la rilevanza della questione troverebbe comunque un ostacolo insormontabile nell’assenza, nel caso di specie, di elementi da cui inferire che l’asserita distrazione dell’immobile possa essere considerata, in qualche misura, anche solo riflessa, lesiva degli interessi finanziari dell’Unione europea”[30].

Per tale ragione, sebbene non manifestamente infondata, in quest’ultima sua parte la questione in discorso viene dichiarata comunque irrilevante nel caso di specie (non essendo state contestate condotte di distrazioni di immobili), e non viene pertanto sottoposta all’attenzione della Corte costituzionale.

4. La proposta di direttiva.

Nel caso sottoposto al Tribunale di Reggio Emilia è venuta da ultimo in rilievo – poiché menzionata dalla pubblica accusa – la Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 3.5.2023 sulla lotta contro la corruzione, che conterrebbe, all’art. 11, l’obbligo di incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio[31].

Netta – e condivisibile – la risposta del Tribunale di Reggio Emilia: “in questa sede non può assumere alcun rilievo il richiamo effettuato dalla Procura, nell’argomentare le ragioni della incostituzionalità della norma abrogativa, alla recente Proposta di Direttiva della Commissione Europea. Al riguardo, il Collegio ritiene sufficiente rilevare che si tratta di un aspetto prospettato dalla stessa Accusa in via meramente eventuale: si cita infatti un documento che al momento non è in vigore e la cui adozione risulta, peraltro, contornata da considerevoli margini di incertezza. Dette circostanze rendono quindi la Proposta normativa richiamata del tutto ininfluente rispetto alle valutazioni che si è qui chiamati a compiere[32]. A tali considerazioni, già dirimenti, si aggiunga che lo scorso giugno, in seno al Consiglio dell’Unione, si è raggiunto un accordo relativo a un nuovo testo che prevedrebbe l’introduzione dell’abuso d’ufficio non come obbligo, ma come mera facoltà”[33].

Il Tribunale, subito dopo, opera un raffinato rilievo, argomentando che “[i]n ogni caso, anche nell’eventualità in cui la proposta finale approvata contenesse un autentico obbligo d’incriminazione, la via costituzionale resterebbe preclusa, trattandosi, a quel punto, di inadempimento originario, in quanto tale non sindacabile davanti alla Consulta ma unicamente dalla Corte di Giustizia mediante procedura d’infrazione”[34].

Non si può, come si accennava, non convenire sul punto con quanto sostenuto dal Tribunale. Del resto, non si comprende come possa dichiararsi l’illegittimità costituzionale di una norma (non già sulla base di parametri costituzionali od interposti vigenti, bensì) in quanto contrastante con delle mere ipotesi di future norme sovraordinate.

Considerazioni conclusive.

Si può essere, naturalmente, fortemente persuasi della inopportunità politico-criminale dell’intervento abrogativo in esame, che ha relegato il nostro Paese al ristretto (e non certo encomiabile) novero di ordinamenti privi di una disciplina penale generale di contrasto agli abusi da parte dei pubblici funzionari, tanto più a fronte della totale assenza di contro-misure di carattere amministrativo orientate ad arginare questo odioso fenomeno. Si può, del pari, essere fortemente perplessi, se non apertamente critici, al cospetto del carattere schizofrenico delle politiche penali adottate dall’attuale Governo, improntate alla repressione delle forme di criminalità derivanti da condizioni di disagio sociale o addirittura alla criminalizzazione del dissenso politico[35], per un verso, ed appunto ad una indebita guarentigia d’impunità del cattivo esercizio del potere, per altro verso. Insomma, politiche penali – come da tradizione – forti con i deboli e deboli con i forti.

Nondimeno, si ritiene che non sia possibile rimediare ad una simile stortura attraverso una declaratoria di illegittimità costituzionale con effetto in malam partem: quest’ultima, come si è visto, è di regola – e così dovrebbe rimanere – preclusa al Giudice delle leggi, in quanto non pare esistere alcun obbligo sovranazionale di incriminare in via generale le condotte di abuso d’ufficio, a meno di operare una evidente torsione delle disposizioni sopra riferite, così riecheggiando la sinistra figura del ‘giudice di scopo’. Né sembra fruttuoso cercare di attribuire alle norme sopra menzionate un contenuto che esse non hanno, facendo leva su tutta una serie di altre disposizioni inidonee a dimostrare il contrario[36], tanto singolarmente prese quanto nel loro insieme: se nessuna di esse giova in alcun modo alla causa dell’incostituzionalità, metterle in fila l’una dopo l’altra non produrrà un risultato più appagante. Più torti, infatti, non danno luogo ad una ragione, ma soltanto ad un cumulo di torti.

L’eventuale sussistenza di un obbligo di incriminare le ipotesi di appropriazione indebita di beni (anche) immobili lesive degli interessi finanziari dell’Unione (e, come si è detto, da tempo pacificamente ricondotte dalla giurisprudenza al vecchio art. 323 c.p.), d’altronde, a giudizio di chi scrive non può legittimare il drastico ritorno dell’art. 323 nella sua interezza mediante annullamento dell’abrogazione contenuta nella ‘legge Nordio’, ma esclusivamente, ed al più, la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale del nuovo art. 314-bis c.p. – con una pronuncia di natura additiva – nella parte in cui non prevede appunto l’incriminazione delle ipotesi di appropriazione indebita di beni immobili quando tale condotta si risolva in una lesione degli interessi finanziari dell’Unione.

A nostro sommesso avviso, in definitiva, le soluzioni ai problemi che l’abrogazione dell’abuso d’ufficio ha inevitabilmente sollevato non riposano, pertanto, su di un improbabile intervento restauratore e salvifico della Corte costituzionale, ma su un mutamento delle condizioni socio-politiche alla base della novella legislativa. L’imperativo costituzionale del principio di legalità e del diritto penale minimo, difatti, deve operare anche laddove non si condivida la linea politica perseguita da una determinata forza di maggioranza.

* Dottorando di ricerca in diritto penale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

[1] Trattasi della legge 9 agosto 2024, n. 114, che dispone l’abrogazione dell’abuso d’ufficio all’art. 1, comma I, lett. b).

[2] Per una panoramica su tale dibattito, si rinvia, per tutti, a Gatta G.L., Abolizione dell’abuso d’ufficio: a Firenze una prima ordinanza di rimessione alla Consulta. Esiste un obbligo convenzionale di non decriminalizzazione (o di stand-still)?, in Sistema penale, 2024; Milione A.-Cutolo M., Dalle istanze liberali al parossismo penalistico e alle lacune di tutela, ovvero: l’abrogazione dell’abuso d’ufficio come cavallo di Troia, in Sistema penale, 2024. Più ampiamente, si vedano anche Brunelli D., Eliminare l’abuso d’ufficio: l’uovo di Colombo o un ennesimo passaggio a vuoto?, in Archivio penale, 2023; cupelli C., La fine (temporanea) dell’abuso d’ufficio, in disCrimen, 2024; Donini M., Gli aspetti autoritari della mera cancellazione dell’abuso di ufficio, in Sistema penale, 2023; Gambardella M., Abrogazione dell’abuso d’ufficio e rimodulazione del traffico d’influenze illecite nel d.d.l. “Nordio” (la versione approvata dal Senato nel febbraio 2024), in Sistema penale, 2024; Id., L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la riformulazione del traffico d’influenze nel “disegno di legge Nordio”, in Sistema penale, 2023; Gatta G.L., L’annunciata riforma dell’abuso di ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sistema penale, 2023, p. 165 ss.; Id., Sulla proposta di abolizione dell’abuso d’ufficio e di riformulazione del traffico d’influenze illecite. A proposito dell’art. 1 del d.d.l. n. S. 808 (Nordio), in Sistema penale, 2023; Manna A., L’abolizione dell’abuso d’ufficio: “cronaca di una morte annunciata, in disCrimen, 2024; Parodi Giusino M., La proposta di abolizione dell’abuso d’ufficio: discutibili ragioni e dannose conseguenze, in La legislazione penale, 2024; Pelissero M., L’instabilità dell’abuso d’ufficio e la lotta di Sumo, in Diritto penale e processo, 2023, p. 613 ss.; Stortoni L.-Califano G.S., Ex falso sequitur quodlibet: l’invocazione di vincoli sovranazionali nel dibattito sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, in disCrimen, 2023; Zaniolo M., Abuso d’ufficio: a che punto siamo?, in Rivista penale diritto e procedura, 2024.

[3] Ovverosia, in ordine cronologico: Tribunale di Firenze, Sez III pen., ordinanza del 24.9.2024; Tribunale di Locri, Sez. pen., ordinanza del 30.9.2024; Tribunale di Firenze, Sezione G.I.P.-G.U.P., ordinanza del 3.10.2024; Tribunale di Reggio Emilia, Sez. pen., ordinanza del 7.10.2024; Tribunale di Busto Arsizio, Sez. pen., ordinanza del 21.10.2024; Tribunale di Firenze, Sez. III pen., ordinanza del 25.10.2024; Tribunale di Bolzano, Sez. pen., ordinanza dell’11.11.2024. Tutte le ordinanze in parola sono liberamente consultabili sul sito della rivista Sistema penale.

[4] Su cui per tutti, in ambito eurounitario (allora comunitario), Manes V., Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, DIKE Giuridica Editrice, Roma, 2012, p. 112: “se a fronte di un obbligo di tutela penale europeo prima attuato (e “soddisfatto”) con una legge penale di attuazione il Parlamento decida poi – per le ragioni più disparate – di fare un passo indietro […], la Corte costituzionale potrebbe forse riconoscersi uno spazio di intervento […] ammettendo la possibilità di ritenere la seconda legge (ossia quella di depenalizzazione) illegittima per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., con l’effetto di ripristinare la legge precedente rispettosa dell’obbligo imposto in sede comunitaria”. L’Autore, articolando un ampio ragionamento nel prosieguo della trattazione, esprime più di qualche perplessità in ordine alla sindacabilità da parte della Corte costituzionale dell’inadempimento sopravvenuto con riferimento alle norme convenzionali. Si potrebbe pertanto, seguendo questa impostazione, revocare in dubbio la possibilità di una pronuncia in malam partem da parte della Corte costituzionale finanche nell’ipotesi in cui si ammettesse (ma, come si vedrà nel testo, non sembra potersi ammettere) che la Convenzione di Merida effettivamente contiene un obbligo di criminalizzazione dell’abuso d’ufficio.

[5] Ovverosia le tre ordinanze fiorentine (Tribunale di Firenze, Sez III pen., ordinanza del 24.9.2024; Tribunale di Firenze, Sezione G.I.P.-G.U.P., ordinanza del 3.10.2024; Tribunale di Firenze, Sez. III pen., ordinanza del 25.10.2024). Cfr. sul punto la nota n. 11.

[6] Ossia Corte cost., sent. n. 8 del 2022. A commento della nota decisione si segnalano Domenicali C., A chi spetta l’onere di motivare i presupposti del decreto-legge? Riflessioni sulla sent. n. 8 del 2022 della Corte costituzionale, in Osservatorio AIC, 2022 (n. 3), p. 228 ss.; Sperti A., La Corte costituzionale ritorna sul controllo sui vizi formali del decreto-legge. Riflessioni a margine della sent. n. 8 del 2022, in Nomos. L’attualità nel diritto, 2022 (n. 1), p. 1 ss.; Francaviglia M., Sulle traiettorie divergenti della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica sulla decretazione d’urgenza. Un tentativo di analisi sinottica a margine di Corte cost., sent. n. 8 del 2022, in Consulta online, 2022 (n. 2), p. 998 ss.

[7] Sul gigantesco tema in parola, nella letteratura domestica cfr. Bresciani P.F., Obblighi costituzionali di tutela e nozione autonoma di materia “penale”: come conciliare la lezione liberalpenalista e costituzionalpenalista di Franco Bricola, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2023 (n. 4), p. 1633 ss.; De Vero G.-Panebianco G., Delitti e pene nella giurisprudenza delle Corti europee, Giappichelli, Torino, 2007, p. 25 ss..; Grossi L., I “nuovi” obblighi costituzionali di tutela penale: dall’an al quomodo dell’incriminazione, in La legislazione penale, 2024; Manes V.-Napoleoni V., La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino, 2019, p. 408 ss.; Panebianco G., La variabile consistenza delle garanzie penali nella politica criminale europea, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2016 (n. 4), p. 1724 ss.; Paonessa C., Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Edizioni ETS, Pisa, 2009; Id., Vincoli costituzionali e tutela penale: l’occasione per fare il punto, a partire da alcune recenti vicende giurisprudenziali, in La legislazione penale, 2021, p. 1 ss ; Pulitanò D., Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1983, p. 484 ss.; Viganò F., L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, vol. IV, Jovene, Napoli, 2011, p. 2645 ss.; Id., Obblighi convenzionali di tutela penale?, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di V. Manes, V. Zagrebelsky, Giuffrè, Milano, 2011, 243 ss.; Id., Dal “diritto penale dello Stato” al “diritto penale sovranazionale”, in Sistema penale, 2024.

[8] Corte cost., sent. n. 8 del 2022, punto 7 Considerato in diritto. Nello stesso senso, cfr. Corte cost., sentt. nn. 394 del 2006, 324 e 413 del 2008, 57 del 2009, e 155 del 2019.

[9] Ibidem. Cfr. Corte cost., sentt. nn. 175 del 2001, 37 e 282 del 2019.

[10] L’esposizione più lineare ed organica è stata elaborata in Corte cost., sent. n. 37 del 2019, punto 7.1 Considerato in diritto: “[a]nzitutto, può venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006). Un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve altresì ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata. Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale è stato, altresì, ritenuto ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018). Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può, infine, risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»)”. Sul punto cfr. anche Corte cost., sentt. nn. 236 e 143 del 2018.

[11] Che d’altronde ha messo in crisi il quadro tradizionale in argomento. È stato infatti lucidamente rilevato, con riguardo agli obblighi sovranazionali di incriminazione, che “[u]n nuovo protagonista ha fatto […] irruzione sulla scena. Si allude all’epifania degli obblighi di criminalizzazione di matrice sovranazionale e alla loro (possibile) “costituzionalizzazione indiretta” grazie all’osmosi con gli artt. 11 e 117, comma I, Cost.: fenomeno che – ponendo in discussione il corrente teorema dell’inesistenza di obblighi costituzionali di tutela penale (al di fuori di quello espresso dall’art. 13, comma 4, Cost.), che a quell’atteggiamento di self restraint pareva fornire una tra le più salde patenti di legittimazione – minaccia di far saltare gli equilibri raggiunti, sollecitando una rimeditazione ab imis delle soluzioni proposte” (così Napoleoni V., Il sindacato di legittimità costituzionale in malam partem, in Manes V.-Napoleoni V., op. cit., p. 409.

[12] I giudici fiorentini di cui alla nota n. 3 ravvisano nell’abrogazione dell’abuso d’ufficio (altresì) una violazione dell’art. 97 Cost. (cui si aggiunge, secondo l’ordinanza del 3.10.2024, la violazione dell’art. 3 Cost.), in quanto, essenzialmente, sarebbe ‘depotenziata’ la garanzia del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione in spregio ad ogni canone di razionalità, in quanto si genererebbe una indebita asimmetria rispetto ad altre fattispecie penali che incriminano, secondo questa impostazione, condotte finanche più gravi rispetto a quelle oggetto di abrogazione, come, ad es., quelle di cui agli artt. 328, 346, 353 e 353-bis c.p.

[13] Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 31 ottobre 2003 con la risoluzione n. 58/4, sottoscritta dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata con la legge 3 agosto 2009, n. 116.

[14] Come peraltro ricorda il nostro Giudice delle leggi: cfr., ad es., la sentenza n. 115 del 2018, ove si rileva che “[s]e è vero che anche «la più certa delle leggi ha bisogno di “letture” ed interpretazioni sistematiche» (sentenza n. 364 del 1988), resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone «la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione» (sentenza n. 364 del 1988)” (ivi, punto 12 Considerato in diritto) e che “nel diritto scritto di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo” (ivi, punto 11 Considerato in diritto). In altra, più recente pronuncia (Corte cost., sent. n. 25 del 2019, punto 5 Considerato in diritto), la Corte ha avuto altresì modo di sostenere che “[i]n un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato. L’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante. Ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo”. Sulle pronunce in parola e per un loro inquadramento in una più ampia introduzione al principio di legalità in materia penale, Manes V., Introduzione ai principi costituzionali in materia penale, Giappichelli, Torino, 2023, pp. 81-82.

[15] Si tratta dei punti 6, 11, 12, 21, 89, 170 ss, 264 e 291 ss. della Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption adottata dalle Nazioni Unite (Drugs and Crime Office) nel 2012; il Tribunale di Firenze, Sez. III penale, ordinanza del 25.10.2024, fa altresì riferimento all’Addendum “Report of the Ad Hoc Committee for the Negotiation of a Convention against Corruption on the work of its first to seventh sessions” avente ad oggetto le note interpretative della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione e che è stato adottato prima di quest’ultima, in data 7.10.2003. Il punto però è – al di là, come si è detto nel testo, della mancata valenza precettiva delle stesse – che nessuna delle disposizioni citate contiene alcun riferimento anche solo remoto alla possibilità di interpretare una delle disposizioni della Convenzione di Merida in guisa tale da contemplare un obbligo di incriminazione. Come volevasi dunque dimostrare, più torti non fanno una ragione, ma solo un cumulo di torti.

[16] Previsto, come è noto, dall’art. 31 della Convenzione di Vienna adottata dalle Nazioni Unite il 22 maggio del 1969.

[17] Tribunale di Busto Arsizio, ord. cit., p. 17.

[18] È stato poi sovente invocato l’art. 65 della Convenzione in discorso, che tuttavia, ancora una volta, non opera alcun riferimento che possa portare anche solo implicitamente a ravvisare nella Convenzione l’obbligo di incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio, ma anzi sembra presupporre, come acutamente rilevato dal Tribunale di Reggio Emilia (ord. cit., p. 11), il carattere obbligatorio dei reati cui si riferisce. Il Tribunale di Busto Arsizio (ord. cit., p. 15 ss.) si sforza di argomentare che le disposizioni obbligatorie non coinciderebbero con gli obblighi di incriminazione, tralasciando tuttavia la pur dirimente circostanza, puntualmente indicata dal Tribunale di Reggio Emilia (ord. cit., p. 10), che la sezione della Legislative guide sopra citata di commento dell’art. 19 è chiaramente intitolata “Obblighi di prendere in considerazione: reati non obbligatori”. Anche sul piano sistematico, pertanto, l’assenza di un obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio pare quantomeno difficilmente controvertibile. Nonostante l’esplicita ammissione di tale assenza, il Tribunale di Bolzano (ord. cit., p. 7, secondo cui “tale disposizione [ovverosia l’art. 19 della Convenzione] non prevede un vero e proprio obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio”) ritiene, nondimeno, che la Convenzione di Merida fondi in ogni caso un obbligo internazionale di stand-still, “precludendo a uno Stato Parte come l’Italia – che già prevedeva nel proprio ordinamento il reato di abuso d’ufficio prima della ratifica della Convenzione – di abrogare detto reato”.

[19] Vale la pena riportare al riguardo un passo importante di Corte cost., sent. n. 8 del 2022, punto 7 Considerato in diritto:  “[l]e esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447 del 1998; in senso analogo, con riferimento all’abrogazione del reato di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la sentenza n. 273 del 2010 e l’ordinanza n. 317 del 1996)”.

[20] L’espressione è tratta dal noto Koskenniemi M., Il mite civilizzatore delle nazioni. Ascesa e caduta del diritto internazionale 1870-1960, Laterza, Roma-Bari, 2012.

[21] Per una interessante lettura dell’insegnamento kelseniano, Zolo D., Kelsen: la pace internazionale attraverso il diritto internazionale, in Jura Gentium, 2007.

[22] Come del resto conferma la dottrina degli “obblighi positivi di incriminazione” sulle macro-violazioni al diritto alla vita (art. 2 CEDU) o discendenti dall’art. 3 CEDU nella giurisprudenza della Corte europea.

[23] Che secondo la dottrina costituzionalistica maggioritaria forma oggetto dell’unico autentico obbligo costituzionale di incriminazione (diverso da quelli per così dire “indiretti”, e cioè di derivazione sovranazionale), previsto dall’art. 13, comma IV della nostra Carta fondamentale, secondo cui “[è] punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Pare curioso, peraltro, che proprio questo reato – l’unico, lo si ripete, costituzionalmente imposto in via diretta – non sia stato previsto dall’ordinamento italiano fino al 2017 (con l’ulteriore, nota inosservanza, peraltro, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984).

[24] Tribunale di Reggio Emilia, ord. cit., p. 8.

[25] Ivi, p. 10. I giudici, subito dopo, operano anche un ragionamento di tipo topografico e sistematico su cui non occorre in questa sede soffermarsi (in quanto esula dal nodo centrale del discorso). Ci si limita dunque a ricordare che il Tribunale evidenzia come proprio la norma (art. 7 della Convenzione di Merida) da cui si vorrebbe far derivare un “divieto di regresso” si collochi nel Titolo II della Convenzione, intitolato “Misure preventive”, tenuto distinto dal Titolo III, che è invece rubricato “Incriminazione, individuazione e repressione” (ivi, p. 11).

[26] Ivi, p. 13.

[27] Ivi, p. 14.

[28] Ibidem.

[29] Ivi, p. 15.

[30] Ibidem.

[31] Questo il testo dell’art. 11 della Proposta: “[g]li Stati membri prendono le misure necessarie affinché sia punibile come reato la condotta seguente, se intenzionale: 1. l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo; 2. l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione di un dovere, da parte di una persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato nell’ambito di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o commerciali al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”.

[32] Si noti incidentalmente che parimenti ininfluente, dal punto di vista giuridico, risulta la Relazione annuale della Commissione Ue sullo stato di diritto per il 2024, adottata a Bruxelles il 24.7.2024, ove si esprimono alcune preoccupazioni in ordine alla situazione italiana nell’ambito del “Quadro anticorruzione” (la Relazione in parola è stata invece valorizzata dal Tribunale di Firenze, Sez. III pen., nell’ordinanza del 24.9.2024, nonché dalla Procura presso il Tribunale di Reggio Emilia).

[33] Tribunale di Reggio Emilia, ord. cit., p. 16.

[34] Ibidem.

[35] Per una disamina del carattere illiberale dell’intervento penale (già posto in essere o attualmente in corso) del Governo attualmente in carica, ex multis Bartoli R., Sulle recenti riforme in ambito penale tra populismo, garantismo e costituzionalismo, in Sistema penale, 2024; Gatta G.L., Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati, di Cesare Beccaria, in Sistema penale, 2024; Petrelli F., Sicurezza, democrazia e Costituzione, in Sistema penale, 2024; Ruotolo M., Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236), in Sistema penale, 2024. Più in generale, sul tema della (pseudo-)sicurezza in relazione alla compressione dei diritti fondamentali, Risicato L., Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti: un ossimoro invincibile?, Giappichelli, Torino, 2019.

[36] Cfr. ad es. nota n. 14.