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QUESTIONI SOLLEVATE SUL D.L. N. 29/2020:  UN BINARIO PROCESSUALE PERICOLOSO PER LA SALUTE – DI DOMENICO PULITANÒ

QUESTIONI SOLLEVATE SUL D.L. N. 29/2020: UN BINARIO PROCESSUALE PERICOLOSO PER LA SALUTE – DI DOMENICO PULITANÒ

PULITANO – QUESTIONI SOLLEVATE SUL D.L. N. 29-2020 UN BINARIO PROCESSUALE PERICOLOSO PER LA SALUTE.PDF

 di Domenico Pulitanò

(con la collaborazione dell’Osservatorio Doppio Binario e Giusto Processo UCPI)

Decreto “contro le scarcerazioni”: breve disamina delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. La neutralizzazione di una persona pericolosa non è la ragione che fonda la pena detentiva come risposta di giustizia a un commesso reato. L’idea che la pena detentiva risponda ad esigenze di sicurezza, iscritta in un diffuso senso comune, non rispecchia i presupposti e il senso della condanna, che (con comprensibile retorica) definiamo ‘di giustizia’.

1.Il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, con un’ordinanza attentamente calibrata, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale sull’art. 2 del d. l. 10 maggio 2020 n. 29, la risposta data dal Governo alle aspre discussioni seguite alla scarcerazione di personaggi definiti come boss mafiosi, con concessione della detenzione domiciliare umanitaria, ex art. 147-ter dell’ordinamento penitenziario, per motivi legati all’emergenza COVID19. La conversione in legge (25 giugno) non ha apportato modificazioni.

Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nel procedimento relativo ad un condannato per associazione mafiosa, in carcere dal 28 giugno 2007; fine pena il 18 agosto 2023. Era in regime di art. 41-bis. Il provvedimento che aveva disposto la detenzione domiciliare è il più significativo fra quelli che avevano innescato la discussione[1].

Il senso della disposizione impugnata è così sintetizzabile: per i condannati per associazione mafiosa, o con finalità di terrorismo o di traffico di droga, le scarcerazioni legate all’emergenza Covid19 debbono essere rivisitate con stretta periodicità. La nuova valutazione è effettuata immediatamente se il DAP comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute della persona interessata. È richiesto il parere della Procura antimafia (nazionale o distrettuale).

Nello scritto licenziato il giorno successivo alla pubblicazione del decreto legge[2], ho espresso un giudizio a caldo, generico e conciso: si tratta di un messaggio propagandistico, che produrrà un sovraccarico di lavoro e una voluta, fortissima pressione psicologia sui giudici, sui quali graverà anche il problema di riportare la procedura a un minimo di decenza, assicurando le condizioni del contraddittorio con la difesa: un aspetto che il decreto legge ha ignorato. Pensavo al problema se fosse possibile, nella procedura delineata dal decreto legge, un contraddittorio dispiegato su tutti i punti rilevanti per la decisione, non limitato al prendere notizia di nuove indicazioni dell’amministrazione penitenziaria circa possibili soluzioni intracarcerarie, e del parere obbligatorio della Procura antimafia.

Sulla possibilità di un’interpretazione costituzionalmente adeguata, il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha dato risposta negativa. Le conseguenze che ne ha tratto riguardano il diritto sostanziale ed equilibri istituzionali. Parametri costituzionali indicati, gli art. 3, 27 comma 3, 32, 102 comma 1 e 104 comma 1.

2.L’ordinanza di rimessione è andata alla sostanza di questioni che l’emergenza Covid ha portato in primo piano, concernenti il rapporto fra l’esecuzione della pena in carcere e la tutela della salute. L’intervento normativo “mira ad assicurare, anche nell’attuale emergenza, la massima protezione della sicurezza dei cittadini”: è la spiegazione che il Tribunale ritrova nella relazione tecnica allegata al ddl di conversione. L’ordinanza di rimessione ha centrato la critica sulla impossibilità di svolgere un accertamento a tutto tondo sulle condizioni di salute del destinatario del provvedimento di detenzione domiciliare. Un’impossibilità definita lampante, per la stringente scansione temporale delle rivalutazioni stabilita dal decreto, che preclude la possibilità di conoscere appieno tutti gli elementi inerenti alle condizioni sanitarie del soggetto, imprescindibili ai fini della nuova comparazione e al fine del vaglio di idoneità delle strutture indicate dal Dap.

Come primo profilo di dubbio è indicato il contrasto con gli artt. 102, comma 1, e 104, comma 1: violazione del principio di separazione dei poteri. È stato dato rilievo all’applicabilità retroattiva, cioè in relazione a provvedimenti anteriori al decreto legge. Nel caso di specie risulta vanificata la diversa programmazione dei tempi del trattamento sanitario e delle verifiche, prevista dal Tribunale nel provvedimento che ha concesso la detenzione domiciliare: era stato previsto un intervallo temporale rigorosamente calibrato sulle esigenze di salute del paziente detenuto.

“Ai ritmi serrati delle rivalutazioni periodiche si accompagna un’istruttoria del tutto priva di acquisizioni relative alle condizioni di salute del detenuto …. Nella disciplina istruttoria della procedura è assente ogni riferimento a una verifica delle condizioni di salute del detenuto malato”. È qui ravvisata la violazione del diritto alla salute: il regime di frequenti rivalutazioni sostanzia di per sé una ipotutela del diritto alla salute; impone una sorta di rivalutazione permanente, di costante sottoposizione a giudizio, nella quale è difficile ipotizzare che possa essere realmente garantita la continuità delle cure, nonché la progettazione e la realizzazione di quel percorso diagnostico-terapeutico non effettuabile in ambito intramurario e per il quale il detenuto è stato ammesso alla detenzione domiciliare.

Sintesi dei rilievi: “La somma dei due tratti caratterizzanti del modello processuale dell’art. 2, vale a dire ‘precise regole’ istruttorie e ‘termini processuali’ … comporta che la valutazione indirizzata al ripristino del regime carcerario porti con sé un serio rischio di ledere quel nucleo irriducibile, anche nei suoi aspetti di diritto alla continuità terapeutica – ormai recepito come elemento essenziale del diritto alla salute (Corte Cost. n. 274 del 2014) – al consenso informato, alla non interruzione dell’alleanza terapeutica e alla indispensabile salute psicologica”. L’effetto della normativa è la certa interruzione di un percorso terapeutico in atto.

Con riguardo all’art. 3 Cost., “il contrasto sembra apprezzarsi sotto il profilo soggettivo dei destinatari del frequente regime di rivalutazioni” (da applicare anche retroattivamente), selezionati per tipi di reato e tipi di autore, con un automatismo basato su una presunzione assoluta di pericolosità che agisce come fattore impeditivo per il futuro di valutazioni individualizzanti, sovrapponendosi a bilanciamenti individualizzati già effettuati dal Tribunale. La normativa introdotta non determina una compressione della finalità rieducativa della pena, ma un’ipotutela importante di diritti fondamentali.

L’ordinanza sassarese pone in rilievo la differenza fra le discipline previste nel decreto legge per gli imputati (art. 1) e i condannati (art. 2). Dalla procedura introdotta dall’art. 2 per i condannati, la procedura prevista dall’art. 1 per gli imputati differisce sotto un profilo significativo: se il giudice non è in grado di decidere allo stato degli atti, può anche d’ufficio disporre nuovi accertamenti sulle condizioni di salute dell’imputato, senza formalità o anche con perizia. Le questioni di legittimità costituzionale sull’art. 2 si appuntano su una procedura che preclude, ad avviso del Tribunale, il pieno dispiegarsi del contraddittorio e dell’accertamento.

3. I parametri costituzionali indicati nell’ordinanza di rimessione non riguardano i difetti della procedura, ma conseguenze sostanziali: carenze di tutela della salute. Parametro costituzionale direttamente rilevante, l’art. 32. Gli altri parametri indicati hanno una rilevanza mediata, dipendente dal vulnus alla tutela della salute. È questa, dunque, la questione chiave posta dall’ordinanza del Tribunale sassarese.

Tutta costruita su profili processuali è invece la precedente ordinanza di remissione del magistrato di sorveglianza di Spoleto[3], che indica come parametri di riferimento gli art. 24 e 111. Rispetto ad allegate compressioni del diritto di difesa, l’art. 24 Cost. è il parametro direttamente pertinente. Interessante il richiamo dell’art. 111, collegato nell’ordinanza alla alterazione del contraddittorio in condizioni di parità, e che potrebbe evocare anche l’impoverimento del ruolo del giudice, privato di poteri di accertamento e di valutazione di elementi rilevanti. Ad essere alterato è il modello del giusto processo, la posizione di tutti i soggetti, giudice e parti.

Non felice è invece il richiamo dell’ordinanza sassarese agli art. 102 e 104 Cost.: a differenza dell’art. 111, non sono norme sulla giurisdizione, ma sull’ordinamento giurisdizionale. Le questioni sollevate riguardano punti specifici di un modello procedurale: non toccano la separazione di poteri, se non nel senso in cui è toccata da qualsiasi disciplina legislativa di procedure giudiziarie.

Il problema sollevato (tutela della salute) è un problema sostanziale; la motivazione è centrata su aspetti processuali. È corretto collegare questioni processuali a un parametro sostanziale? L’argomentazione dei giudici sassaresi è coerente e stringente. La disciplina processuale speciale, introdotta dal decreto legge, viene in rilievo come ostacolo all’effettiva tutela della salute del condannato, per la ristrettezza dei tempi e per il rilievo decisivo (anzi esclusivo) attribuito all’indicazione del DAP circa la disponibilità di strutture interne al sistema carcerario. Non è previsto che il nuovo giudizio sia aggiornato all’evolversi delle condizioni di salute e del trattamento in corso.

Sono ostacoli superabili in via di interpretazione costituzionalmente orientata? Forse alcuni potrebbero essere superati, consentendo la presentazione, l’acquisizione e la valutazione di elementi nuovi sull’evolversi delle condizioni di salute e delle esigenze e possibilità di cura. Ciò non è previsto nel decreto legge, ma nemmeno espressamente vietato. Pare invece un insuperabile ostacolo a una piena difesa (cioè ad un’effettiva tutela della salute) l’imposizione di tempi stretti e di una insensata rivisitazione periodica a tempi stretti, chiaramente finalizzata a fare rientrare in carcere al più presto i beneficiari di provvedimenti adottati a tutela della salute nell’emergenza Covid19.

Avere fondato su un parametro sostanziale – la tutela della salute – questioni di legittimità costituzionale di norme procedurali è una strada inusuale, ma razionale: porta in evidenza una connessione inscindibile fra i due profili, fra lo strumento processuale e il diritto in gioco. È una strada che segue il medesimo percorso processuale di quella del giudice di Spoleto, ma prosegue sul piano della tutela sostanziale. I parametri processuali (art. 24 e 111) e il parametro sostanziale (art. 32) paiono ugualmente pertinenti.

Gli ulteriori parametri sostanziali evocati nell’ordinanza sassarese (art. 3 e 27, comma 3) non hanno autonomia rispetto alla questione fondamentale, relativa alla tutela della salute; ma concorrono a definirne la portata lesiva. Il riferimento all’art. 3 pone in evidenza il profilo discriminatorio della disciplina speciale introdotta, l’accettazione di principio di una minore tutela della salute, in ragione del titolo di reato per cui sia stata pronunciata condanna. Il riferimento al senso di umanità (art. 27) pone in rilievo la subordinazione dell’umano (del rispetto dovuto alla salute) ad altri interessi ritenuti prioritari.

4. La difesa aveva prospettato anche altre questioni, che il Tribunale di Sassari non ha recepito, “ritenendo assorbiti ulteriori profili”.

Sussistevano ragioni di necessità ed urgenza, tali da legittimare il ricorso al decreto legge si sensi dell’art. 77 Cost.? Per la difesa, sollevare questo problema è stata una scelta coerente con il suo ruolo, sostenuta entrando nel merito politico. I giudici sassaresi hanno evitato (saggiamente) un sovraccarico di esposizione politica.

Il decreto legge ha recepito ragioni politiche discutibili e discusse, invocate da chi riteneva necessario riportare al più presto in carcere i detenuti scarcerati (mafiosi veri o supposti), per ragioni sia di sicurezza (asserita pericolosità degli scarcerati) sia di giustizia retributiva. La querelle sulla gestione del DAP è continuata anche dopo, e ha finito per mettere sotto accusa persino un ministro giustizialista.

Ripropongo qui la sostanza di riflessioni già svolte, di critica delle politiche del diritto che hanno sostenuto la necessità ed urgenza del riportare in carcere gli scarcerati[4].

La condanna a pena detentiva non presuppone un giudizio di attuale pericolosità del condannato, ma solo l’accertamento di responsabilità e una commisurazione secondo criteri legalmente predefiniti. Se un singolo condannato a pena detentiva sia o non sia persona pericolosa, quando entra in carcere o dopo anni di carcere, è questione di fatto. La neutralizzazione di una persona pericolosa non è la ragione che fonda la pena detentiva come risposta di giustizia a un commesso reato. L’idea che la pena detentiva risponda ad esigenze di sicurezza, iscritta in un diffuso senso comune, non rispecchia i presupposti e il senso della condanna, che (con comprensibile retorica) definiamo ‘di giustizia’.

Certo, di fronte al problema mafia la pena detentiva ha che fare con problemi sia di deterrenza legale, sia di giustizia del punire, sia eventualmente di sicurezza (l’esecuzione in carcere). La valutazione di pericolosità personale viene in rilievo ai fini dell’applicazione di regimi carcerari differenziati, sull’ovvia premessa che non è un presupposto necessario dell’esecuzione della pena. Con riguardo a un insieme di condannati (o, a maggior ragione, imputati) la questione dell’eventuale pericolosità può essere ragionevolmente proposta caso per caso; non, dunque, in via generale e indifferenziata.

Il personaggio cui si riferisce l’ordinanza sassarese era in carcere dal 2007; il tempo di carcerazione già sofferta significa anche distanza temporale dai delitti per cui v’è stata condanna. Il passaggio alla detenzione domiciliare ha anticipato l’uscita dal cercare di tre anni. Davvero un problema di sicurezza così allarmante? L’uscita dal carcere per fine pena è nella logica di un sistema di giustizia legale, anche per i condannati per mafia; anche per i boss condannati a pena detentiva temporanea.

La questioni qui esaminate sono solo un aspetto di un trend illiberale, securitario, fortemente radicato nello spirito del nostro tempo, a destra e a sinistra. Al di là delle seriamente argomentate questioni di legittimità costituzionale, sarà bene tenere fermo l’impegno sul piano delle politiche del diritto, a maggior ragione nella situazione post pandemia, segnata da nuove e diverse emergenze.

[1] Pubblicati in Sistema penale, 1° maggio 2020, con nota di A. Della Bella, Emergenza covid e 41-bis: tra tutela di diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche.

[2] D. Pulitanò, Pena e carcere alla prova dell’emergenza, in dirittodidifesa.eu.

[3] Magistrato di sorveglianza di Spoleto, ord. 26 maggio 2020, in Sistema penale, con commento di M. Gialuz, 5 giugno 2020.

[4] D. Pulitanò, op.cit.; cfr. anche G. Fiandaca, Scarcerazione per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in Sistema penale, 19 maggio 1920.