RIPARAZIONE PER INGIUSTA DETENZIONE ED ERRONEO ORDINE DI ESECUZIONE – DI FRANCESCO DUSTIN GRANCAGNOLO
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RIPARAZIONE PER INGIUSTA DETENZIONE ED ERRONEO ORDINE DI ESECUZIONE
di Francesco Dustin Grancagnolo*
Cass. pen., Sez. IV, 1° dicembre 2021, (dep. 22 marzo 2022), n. 9721, Pres. Di Salvo – Est. e Rel. Cenci – P.G. e Avv. Stato (diff.), n.m.
Riparazione per ingiusta detenzione – Erroneo ordine di esecuzione – Incostituzionalità dell’art. 1, comma 6, lett. B, legge 9 gennaio 2019 n. 3 – Divieto di analogia in malam partem in materia penale – Divieto di irretroattività in peius in materia penale – Legittima aspettativa di scontare la pena “fuori dal carcere”.
(Artt. 3, 24, 25, 112 Cost. – Artt. 5, 7 C.e.d.u. – Artt. 12, 14 disp. prel. c.c. – Art. 1 e 199 c.p. – Art. 314 c.p.p.).
«Tra i casi in cui, in applicazione della sentenza n. 310 del 18-25 luglio 1996 della Corte costituzionale, si è riconosciuta la sussistenza del diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e violazione dell’art. 5 della Convenzione EDU che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta, rientra anche, naturalmente ove ricorrano le condizioni di cui agli artt. 314-315 cod. proc. pen., l’ipotesi di mancata sospensione della esecuzione della pena detentiva, pari o superiore a tre anni di reclusione, inflitta per fatto commesso e con accertamento avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”), il cui art. 1, comma 6, lettera b), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 12-16 febbraio 2020 “in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale”».
Massima estrapolata a cura dell’autore.
Il testo completo della sentenza è consultabile liberamente sul sito www.cortedicassazione.it
IL DIRITTO ALL’EQUA RIPARAZIONE PER LA DETENZIONE INGIUSTAMENTE PATITA A CAUSA DELLA MANCATA SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE DELLA PENA DETENTIVA, PARI O SUPERIORE A TRE ANNI DI RECLUSIONE, INFLITTA PER FATTO COMMESSO E CON ACCERTAMENTO AVVENUTO PRIMA DELL’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE 9 GENNAIO 2019 N. 3 (C.D. “LEGGE SPAZZACORROTTI”).
THE RIGHT TO FAIR COMPENSATION FOR UNLAWFUL DETENTION SUFFERED AS A RESULT OF THE FAILURE TO SUSPEND THE EXECUTION OF A SENTENCE OF THREE YEARS’ IMPRISONMENT OR MORE, IMPOSED FOR AN ACT COMMITTED AND ASCERTAINED BEFORE THE ENTRY INTO FORCE OF LAW OF 9 JANUARY 2019 NO. 3 (THE SO-CALLED “SPAZZACORROTTI LAW”).
Con la pronuncia in commento la Suprema corte, muovendosi sul solco tracciato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 310 del 18-25 luglio 1996, riconosce il diritto del condannato, per reati commessi (ed accertati) contro la pubblica amministrazione anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, ad accedere alla disciplina della riparazione per l’ingiusta detenzione subita a causa della mancata sospensione della esecuzione della pena detentiva pari o superiore a tre anni di reclusione.
In siffatte ipotesi, statuisce la IV Sez. penale della Corte di cassazione, l’erroneità del titolo esecutivo, che ha leso la legittima aspettativa del condannato di espiare una pena “fuori dal carcere”, va radicata nella violazione dei divieti di analogia in malam partem e di irretroattività in peius in materia penale concretizzatasi nella scelta dei giudici territoriali di aver ritenuto immediatamente applicabile una disciplina che, invece, già alla luce del chiaro portato delle preleggi avrebbe dovuto operare soltanto per il futuro.
By this ruling the Court of Cassation, following the path traced by the Constitutional Court with sentence no. 310 of 18-25 July 1996, recognises the right of the convicted person, for crimes committed (and ascertained) against the public administration prior to the entry into force of Law no. 3 of 2019, to access the discipline of reparation for unlawful imprisonment suffered due to the failure to suspend the execution of the sentence of imprisonment equal to or exceeding three years.
In such cases, the 4th Section of the Court of Cassation has ruled, the wrongful nature of the enforcement order, which has harmed the legitimate expectation of the sentenced person to serve a sentence “outside prison”, is rooted in the violation of the prohibition of analogy in malam partem and of non-retroactivity in pejus in criminal matters, resulting from the choice of the local judges to have considered immediately applicable a discipline that, instead, already in the light of the clear interpretation of the preliminary provisions to the Civil Code, should have operated only in the future.
Sommario: 1. L’inattesa vicenda processuale subita dal condannato – 2. La nozione di “erroneo ordine di esecuzione” ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 314 c.p.p. – 3. I profili di erroneità del titolo di esecuzione nel caso di specie – 4. La legittima aspettativa del condannato, per reati contro la pubblica amministrazione, di scontare una pena “fuori dal carcere”.
- L’inattesa vicenda processuale subita dal condannato.
Va premesso che la detenzione del ricorrente, noto professionista Salernitano, si collochi certamente in uno degli angoli più bui della storia giudiziaria italiana giacché costui, condannato per il delitto di peculato con sentenza irrevocabile a luglio del 2017 ad una pena eseguibile «fuori dal carcere»[1], dopo aver legittimamente ricevuto la sospensione dell’ordine di carcerazione nel successivo mese di agosto, nella lunga attesa che il Tribunale di Sorveglianza fissasse l’udienza camerale, a marzo 2019, per la delibazione in ordine alle misure alternative (richieste già nel mese di settembre del 2017), si vede sottoposto a tutt’altra legislazione, non soltanto, rispetto a quella che dieci anni prima aveva orientato la sua stessa condotta criminosa ma anche rispetto a quella che, all’incirca un anno e mezzo prima, aveva correttamente disciplinato la redazione della richiesta ex art. 47 o.p., improvvisamente ritenuta inammissibile in forza della interpretazione costituzionalmente illegittima del neo introdotto art. 1, comma 6, lettera b), della legge del 9 gennaio 2019 n. 3, vedendosi tradurre consequenzialmente (ed inaspettatamente) in carcere per la prima volta nella sua vita e proprio in forza del provvedimento in oggetto per 111 giorni.
Oltre il danno la beffa.
Vale la pena di aggiungere che con ordinanza del giugno del 2019, lo stesso Tribunale di Sorveglianza sollevò, in relazione altro condannato, la relativa questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge del 9 gennaio 2019 n. 3 (sic).
Questi, dunque, i fatti che inducono il ricorrente a rivolgersi, in ultima istanza, alla Suprema Corte per ottenere un’equa riparazione per la detenzione carceraria ingiustamente subita.
- La nozione di “erroneo ordine di esecuzione” ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 314 c.p.p.
Com’è noto la Corte costituzionale con sentenza del 25/07/1996, n. 310 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevedeva il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di “erroneo ordine di esecuzione”.
È interessante notare che, in tale contesto, la Consulta ha avuto modo di chiarire che l’art. 314 c.p.p. si ponga quale «disciplina concretizzatrice della disposizione di principio contenuta nell’art. 24 Cost.»
Evidenzia, sul punto la Corte costituzionale che «la scelta legislativa di non introdurre all’interno di detta norma anche la detenzione causata da un ordine di esecuzione illegittimo, risulta oltretutto ingiustificata anche alla luce della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), dove, al punto 100 dell’art. 2, comma 1, è prefigurata, accanto alla riparazione dell’errore giudiziario, vale a dire del giudicato erroneo (già oggetto della disciplina del codice previgente), anche la riparazione per la “ingiusta detenzione”; ciò che lascia trasparire l’intento del legislatore delegante di non introdurre, su questo piano, ingiustificate differenziazioni tra custodia cautelare ed esecuzione di pena detentiva. Lo stesso art. 2 della citata legge di delegazione, nel prevedere che il nuovo codice si debba adeguare alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale, depone nel senso della non discriminazione tra le due situazioni, giacché proprio la convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, prevede espressamente, all’art. 5, il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta».
È proprio sulla scorta di tali riflessioni che, nell’occasione, la Corte costituzionale sancisce il noto principio di diritto secondo cui: «la diversità della situazione di chi abbia subito la detenzione a causa di una misura cautelare, che in prosieguo sia risultata iniqua, rispetto a quella di chi sia rimasto vittima di un ordine di esecuzione arbitrario non è tale da giustificare un trattamento così discriminatorio, al punto che la prima situazione venga qualificata ingiusta e meritevole di equa riparazione e la seconda venga invece dal legislatore completamente ignorata. La disparità di trattamento tra le due situazioni appare ancor più manifesta, se si considera che la detenzione conseguente ad ordine di esecuzione illegittimo offende la libertà della persona in misura non minore della detenzione cautelare ingiusta».
È fin troppo evidente, dunque, che le ragioni che inducono la Consulta ad estendere la disciplina di cui all’art. 314 c.p.p. anche alla detenzione determinata da un ordine di esecuzione arbitrario fondino su valutazioni di carattere sostanziale (rectius: l’offesa ingiusta alla libertà della persona ed il consequenziale diritto alla riparazione).
Ed allora sono proprio tali ragioni a rendere, attualmente, insostenibili taluni approcci giurisprudenziali[2] che, facendo leva sulla circostanza che la Corte costituzionale avrebbe inteso qualificare illegittimi soltanto quegli ordini di esecuzione non fondati su una sentenza di condanna, tendono ad escludere dalla tutela riparatoria di cui all’art. 314 c.p.p. tutti quei casi in cui si ritiene che ad essere illegittimo non sia l’ordine di esecuzione (che secondo l’orientamento censurato non lo sarebbe mai per il sol fatto di avere ad oggetto effettivamente una sentenza di condanna) ma il contestuale ed incorporato decreto di sospensione dell’esecuzione.
È evidente che siffatte pronunce, nel tentativo di restringere la portata della citata sentenza, deraglino completamente dalle più ampie rationes di carattere sostanziale appena evidenziate che, invece, ne rappresentano il presupposto.
Ed invero non vi è chi non veda (seguendo le indicazioni della Consulta) che al diritto di libertà dell’individuo poco importi se l’ingiusto sacrificio cui è sottoposto sia determinato dall’arbitrarietà dell’ordine di esecuzione piuttosto che dall’arbitrarietà della contestuale revoca del decreto di sospensione.
D’altro canto, ammesso e non concesso che in tema di riparazione per ingiusta detenzione goda di una qualche utilità la distinzione tra ordine di esecuzione e decreto di sospensione, l’intero impianto motivazionale che sorregge la dichiarazione di incostituzionalità de qua non consente nemmeno di ipotizzare che la Consulta, per un verso, abbia assimilato provvedimenti così diversi tra loro quali una sentenza di assoluzione e un ordine di esecuzione e, per altro verso, abbia inteso operare in maniera implicita, invece, un netto distinguo tra ordine di esecuzione e decreto di sospensione sì da escludere dall’equo indennizzo tutte le ipotesi di ingiusta detenzione dipendenti esclusivamente da tale ultimo provvedimento ovvero da vicende, in ogni caso, relative all’espiazione della pena.
Che le indicazioni della Corte costituzionale n. 310\1996 in ordine alla riparabilità della detenzione determinata da erroneo ordine di esecuzione siano state spesso e volentieri assolutamente travisate, come palesemente avvenuto, in prima battuta, nel caso di specie, ne dà testualmente atto la più recente Giurisprudenza di legittimità[3].
La Suprema corte citata nell’affrontare il tema della rilevanza o meno ex art. 314 c.p.p. delle vicende relative all’esecuzione della pena – nella fattispecie, di un periodo di detenzione domiciliare scontato eccedente quello risultante dalla concessione della liberazione anticipata – afferma quanto segue: «A ben vedere il principio secondo il quale il diritto all’indennizzo non è configurabile ove la mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena eseguita sia determinata da vicende, successive alla condanna, che riguardano la determinazione della pena eseguibile, poggia unicamente su una lettura della sentenza costituzionale che non pare né obbligata né persuasiva. Infatti, si trae dalla motivazione del Giudice delle Leggi la convinzione che questi abbia limitato la portata della declaratoria di incostituzionalità all’ipotesi di una pena definitivamente inflitta inferiore a quella espiata. Ma così non pare a questo Collegio. Il giudice remittente si era trovato a decidere il caso di una detenzione che era stata illegittimamente disposta sull’erroneo presupposto della definitività della condanna. Non si vede come tanto significhi una limitazione della portata della pronuncia di incostituzionalità, che d’altro canto ha trovato la forma che segue: “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione”. Anzi, proprio tale dispositivo sembra attesti che le vicende dell’esecuzione non sono in alcun modo estranee all’orizzonte della riparazione dell’ingiusta detenzione. Anche le vicende della fase dell’esecuzione della pena rilevano ai fini della applicabilità dell’istituto disciplinato dall’art. 314 c.p.p., sempre che da esse derivi una ingiustizia della detenzione patita. Ingiustizia che, come emerge dalla giurisprudenza sin qui rammentata, si innesta su un errore dell’autorità procedente (errore che, per definizione, non può mai rinvenirsi nell’esercizio di un potere di apprezzamento discrezionale e che quindi va ricercato nelle eventuali violazioni di legge)».
- I profili di erroneità del titolo di esecuzione nel caso di specie.
Venendo al caso in esame, la recentissima pronuncia in commento, nel prendere atto che la Corte costituzionale n. 310 del 1996 non si pronunzi in ordine ai presupposti necessari al riconoscimento del diritto alla equa riparazione anche per l’ipotesi di detenzione ingiustamente patita a causa di un erroneo ordine di esecuzione (riversando tale compito nelle mani dell’interprete), condivide pedissequamente i profili di erroneità del titolo di esecuzione stimmatizzati dal ricorrente.
Sotto tale aspetto va, preliminarmente, evidenziato che l’interpretazione costituzionalmente illegittima del neo introdotto art. 1, comma 6, lettera b), della legge del 9 gennaio 2019 n. 3, ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n.32 del 2020, su cui si snoda l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che ebbe a dichiarare l’inammissibilità dell’istanza presentata dal condannato ex art. 47 l.p., si è ripercossa inevitabilmente sul provvedimento che ha determinato l’ingiusto stato detentivo del condannato, vale a dire sulla citata “Revoca di decreto di sospensione di ordine di esecuzione per la carcerazione ex art. 656 c. 8 c.p.p. e ripristino dell’ordine medesimo” essendo evidente che nel caso in cui il Tribunale di Sorveglianza dichiari l’inammissibilità dell’istanza presentata ai sensi del comma 5° dell’art. 656 c.p.p. il Pubblico Ministero non avrà altra scelta se non quella, imposta dal comma 8 della medesima norma, di revocare immediatamente il decreto di sospensione dell’esecuzione proprio in ragione di tale evenienza.
Di talché il vizio dell’atto presupposto si è risolto nel vizio dell’atto consequenzialmente dovuto e motivato (proprio) sulla scorta di tale presupposto da cui trae, pertanto, origine e fondamento.
A questo punto, muovendoci nel solco appena tracciato dalla richiamata Consulta, possiamo senz’altro affermare che la totale privazione di libertà inaspettatamente subita dal ricorrente in forza del summenzionato provvedimento di “Revoca di decreto di sospensione di ordine di esecuzione per la carcerazione ex art. 656 c. 8 c.p.p. e ripristino dell’ordine medesimo” fu determinata, nell’anzidetto silenzio del legislatore sul punto, dalla interpretazione costituzionalmente illegittima della censurata novella legislativa.
Non solo.
Si è detto che il vuoto normativo determinato dalla legge n. 3 del 2019 ha posto l’interprete innanzi ad un bivio: applicare la nuova normativa anche ai reati commessi antecedentemente l’entrata in vigore della legge ovvero applicare la nuova normativa soltanto ai reati posti in essere dopo l’entrata in vigore della legge stessa.
Ad una più attenta analisi è di tutta evidenza che detto bivio esista soltanto in apparenza essendo, per contro, la scelta dell’interprete innanzi ad un vuoto normativo in materia penale assolutamente obbligata e per nulla discrezionale.
Ed invero, nel momento in cui si è acclarata la «natura sostanziale di vere e proprie pene alternative alla detenzione all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare»[4] (sì da guarnirle della garanzia costituzionale del divieto di irretroattività della legge penale ex art. 252 Cost.), logico ed ineliminabile corollario di siffatto inquadramento normativo diviene, sotto l’aspetto interpretativo, l’ulteriore garanzia per il condannato del divieto di analogia in malam partem della legge penale che su dette pene vada ad incidere in maniera diretta.
In altri termini, è di tutta evidenza che non si è trattato di dar luogo ad una interpretazione estensiva della volontà del legislatore (essendo la stessa incontrovertibilmente inesistente sul punto) ma si è scelto di applicare una norma ad un caso da essa non previsto – non essendo previsto, infatti, che la novella legislativa andasse ad incidere anche sui reati precedentemente commessi – e lo si è fatto scegliendo la soluzione più sfavorevole al reo.
Tanto, incontrovertibilmente, ha concretizzato la violazione del divieto di analogia in malam partem in materia penale.
Ed allora è di tutta evidenza che l’unica opzione interpretativa consentita, nel caso di specie, al Tribunale di Sorveglianza che ebbe ad affrontare la richiesta ex art. 47 l.o.p. del condannato sarebbe stata quella di scegliere, in ossequio al principio del favor libertatis, per l’inapplicabilità della novella legislativa ai fatti posti in essere antecedentemente la sua entrata in vigore.
Se tale ultima opzione fosse stata effettivamente percorsa dall’Autorità Giudiziaria, si sarebbero fatti salvi d’un colpo la legge n. 3 del 2019 ed anche gli artt. 12 in rel. all’art. 14 disp. prel. cc, gli artt. 1 e 199 c.p. e gli artt. 24, 25 e 112 della Costituzione.
Si sarebbe fatta salva, in altri termini, la libertà del condannato.
La detenzione patita dal ricorrente è stata determinata, in conclusione, dalla interpretazione di una norma di cui la Corte Costituzionale ne ha stimmatizzato, con efficacia retroattiva, l’incostituzionalità per contrasto con l’art. 25 comma 2 della Costituzione e, volendo mutuare il dettato della sentenza della Corte di cassazione in commento, «dall’errore di ritenere immediatamente applicabile una disciplina che, invece, già alla luce del chiaro dettato delle preleggi (essendo preclusa l’applicazione analogica in malam partem) e del pacifico principio di irretroattività in peius in materia penale, avrebbe dovuto operare esclusivamente per il futuro».
- La legittima aspettativa del condannato, per reati contro la pubblica amministrazione, di scontare una pena “fuori dal carcere”.
La recentissima pronuncia in commento determina (finalmente) il superamento degli orientamenti giurisprudenziali citati tendenti ad escludere tout court dalla disciplina di cui all’art. 314 c.p.p. le vicende relative all’esecuzione della pena in piena sintonia con le chiare indicazioni della Corte Costituzionale n. 32 del 2020.
Si è detto, infatti, che la Consulta con tale ultima sentenza ribalti il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità assestato sulla natura meramente processuale delle norme che incidono sull’esecuzione della pena chiarendo che, se è vero che di regola le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, è pur vero, tuttavia, che ove tale legge comporti una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale l’applicazione retroattiva della stessa è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost.
La Quarta Sezione della Corte di cassazione, dunque, con la sentenza n. 9721\2022 coglie l’inevitabile impatto che le preziose indicazioni della Corte costituzionale testé citata determinano – non soltanto in riferimento alla contrastata giurisprudenza di legittimità[5] drasticamente condizionata già all’indomani delle prime ordinanze di rimessione della citata q.l.c.- ma anche e soprattutto rispetto a tutti quei precedenti orientamenti giurisprudenziali che, innestandosi proprio sull’egida della ritenuta natura non sostanziale delle norme sulla esecuzione della pena, ritengono che le vicende relative all’espiazione della pena non assumerebbero rilevanza ai fini dell’ingiusta detenzione.
Orientamenti sinteticamente compendiabili nella massima secondo cui «la detenzione non può divenire ingiusta solo perché il condannato non è messo nelle condizioni di usufruire di una misura alternativa alla detenzione»[6].
È di tutta evidenza che siffatta giurisprudenza di legittimità, considerando meramente ipotetica ed eventuale la possibilità per il condannato di vedersi applicare una misura alternativa sulla base della legge vigente al momento del fatto, ritenga legittimo un ordine di esecuzione avente ad oggetto effettivamente una sentenza di condanna a prescindere poi dalla circostanza che, ad esempio, sia mancata la provvisoria sospensione dell’ordine di esecuzione ovvero vi sia stata una tardiva sospensione dell’esecuzione della pena legittimamente disposta ovvero ancora a prescindere dalla mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena definitiva ecc.
Tali orientamenti si infrangono nel dettato della più recente Corte costituzionale che riconosce con efficacia retroattiva, una volta per tutte, il carattere sostanziale di una legge che comporti la trasformazione della natura della pena e che vada ad incidere sulla libertà personale facendo leva proprio sugli effetti prodotti da tale disposizione sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione e, dunque, sulla frustrazione dei diritti inviolabili ex artt. 24 e 25 Cost e 7 C.E.D.U. del condannato determinata da eventuali mutamenti legislativi che trasformino improvvisamente una pena “fuori dal carcere” in una “pena dentro al carcere”.
In altri termini la Corte costituzionale appare invertire drasticamente la rotta seguita dalla censurata giurisprudenza di legittimità indifferente, invece, alle vicende esecutive della pena di chi sia stato in ogni caso condannato.
Il riferimento di tale inversione di rotta emerge chiaramente al punto 4.4.5 della sentenza n.32\2020 Corte Cost. del quale, per tanto, si impone il testuale richiamo:
«Per le ragioni già anticipate, non varrebbe a inficiare le conclusioni appena raggiunte l’obiezione secondo cui la prospettiva – per il condannato – di vedersi applicare una misura alternativa sulla base della legge in vigore al momento del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale.
La valutazione circa il carattere deteriore della disciplina sopravvenuta non può, infatti, che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall’entrata in vigore della nuova disciplina.
Sotto il primo profilo, è evidente che – in linea generale, e salve le peculiarità di ogni singolo caso – nei confronti dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione sussisteva una rilevante probabilità, sulla base della disciplina previgente, di accedere a misure alternative alla pena detentiva, laddove i relativi limiti di pena ancora da scontare o i rispettivi requisiti anagrafici (per ciò che concerne la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) lo permettessero. Un tale assunto è, se non altro, dimostrato dallo stesso elevato numero delle ordinanze di rimessione, che argomentano la rilevanza delle questioni proprio muovendo da un giudizio di meritevolezza rispetto al beneficio del singolo condannato sulla base della previgente disciplina.
Sotto il secondo profilo, non può negarsi, per converso, che la normativa sopravvenuta – oltre a precludere in via assoluta l’accesso a taluni benefici, come la detenzione domiciliare per i condannati ultrasettantenni (ciò che basterebbe, invero, a dimostrarne per tabulas il carattere necessariamente deteriore) – rende significativamente meno probabile la concessione degli stessi, anche in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla giurisprudenza, sulla precisa estensione dell’obbligo collaborativo in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione».
Ed allora è evidente che così come non può trascurarsi che il soggetto definitivamente assolto nutra la legittima aspettativa di non finire in carcere in forza di un erroneo ordine di esecuzione (come accaduto nel caso affrontato dalla Corte Costituzionale n°. 25\7\1996, n. 310) nemmeno può trascurarsi che il condannato ad una pena eseguibile, al momento del fatto, “fuori dal carcere” nutra l’altrettanto legittima aspettativa di non finire inaspettatamente “in carcere” in forza di una legge entrata in vigore, come nel caso che ci occupa, dopo un anno e quattro mesi dal deposito della richiesta di misura alternativa ex art. 47 l.p.
In entrambi i casi dietro le sbarre c’è un uomo che non doveva esserci o, quantomeno, che nutriva (se non la certezza matematica) “una rilevante probabilità” di non finirci. In entrambi i casi la detenzione non potrà certamente dirsi giusta!
La differenza in siffatte ipotesi, come sostenuto dal giudice delle leggi[7], andrà senza dubbio ricercata nel quantum di indennizzo spettante in misura maggiore (ovviamente) all’innocente piuttosto che al colpevole.
In conclusione, l’inversione di tendenza drasticamente segnalata dalla Corte Cost. n. 32\2019 trova un solido approdo nella giurisprudenza di legittimità con la sentenza in commento ripudiando la tentazione, più o meno latente in molti provvedimenti giudiziari, di ritenere che la mancata concessione di una misura alternativa non meriti l’accesso a quella tutela riparatoria sol perché l’imputato è stato riconosciuto in ogni caso colpevole.
Adesso, sulla scorta dell’enunciato principio di diritto, la Corte d’appello salernitana dovrà verificare l’esistenza degli ulteriori presupposti ex art. 314 c.p.p. per concedere al malcapitato ricorrente settantenne l’equa riparazione per centoundici giorni di detenzione inframuraria patita.
Nell’attesa del “conto” non resta, tuttavia, che il gusto amaro di una drastica ed inaspettata carcerazione che poteva e doveva essere evitata applicando – vale la pena di ribadire – principi di carattere generale che uniformano, o che dovrebbero uniformare, in maniera sistematica l’intero ordinamento giuridico.
*Avvocato del Foro di Napoli
[1] Cfr. Corte cost., sent. 26 febbraio 2020, n. 32, Pres. Cartabria, Red. Viganò.
[2] Cfr., Ex multis, Cass. pen., Sez. I, 19 novembre 2002, n. 42903, in C.E.D. Cass. n. 223070-01.
[3] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 21 settembre 2017, n. 57203, P.G. in proc. Paraschiva, in C.E.D. Cass. n. 271689.
[4] Cfr. Corte cost., sent. 26 febbraio 2020, n. 32, Pres. Cartabria, Red. Viganò.
[5] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541 (in Foro it. 2019, 5, II, 273), in C.E.D. Cass. n. 275925-01.
[6]Cfr. Cass. pen., Sez.IV, 29 gennaio 2009, n. 7091, in C.E.D. Cass. n. 242870-01.
[7]Cfr. Corte cost., 20 giugno 2008, n. 219.