RISOSPINTI SENZA POSA NEL PASSATO? – DI STEFANIA AMATO
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RISOSPINTI SENZA POSA NEL PASSATO?
BORNE BACK CEASELESSLY INTO THE PAST?
di Stefania Amato*
Magistrato di Sorveglianza di Milano (Luerti), ordinanza 18 marzo 2020, in Gazzetta Ufficiale 7 ottobre 2020 – Udienza pubblica del 9 marzo 2021, rel. Viganò.
Detenzione domiciliare per ultrasettantenni e preclusione per la recidiva: il Magistrato di Sorveglianza di Milano solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.
Surveillance Magistrate of Milan (Luerti), ordinance March 18th 2020, in Gazzetta Ufficiale October 7th 2020 – Public hearing March 9th 2021, judge-rapporteur Viganò.
Home detention for over seventy years old condemned and foreclosure due to recidivism: the Surveillance Magistrate of Milan raises an issue of constitutional legitimacy in relation to articles 3 and 27 Const.
Sommario. 1. Il caso. – 2. Premessa: la recidiva “paralizzante”. – 3. L’ordinanza di rimessione. – 4. Considerazioni conclusive.
Summary. 1. The case. – 2. Introduction: “paralyzing” recidivism. – 3. The ordinance. – 4. Final considerations.
1. Il caso.
«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». La frase finale del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald non riguarda solo il suo indimenticabile protagonista, il Grande Gatsby, ma ogni uomo che avanza nella vita cercando una nuova sponda, faticando contro la corrente ma dovendo sempre fare i conti con ciò che è stato. Perché gli errori del passato tornano, e, di solito, presentano il conto.
Un conto salato è quello che sta pagando il signor A.C., raggiunto da una serie di condanne per reati fallimentari e fiscali commessi durante la sua attività imprenditoriale, raccolte in un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti che il 26 febbraio 2019 lo porta in carcere, quando sta per compiere settantotto anni. Il detenuto chiede, il 24 settembre successivo, di poter espiare la pena in detenzione domiciliare, nell’abitazione in cui vive con la moglie, ma pare non esservi spazio per alcuna forma alternativa di espiazione della pena, che ammonta a quattordici anni e sette mesi di reclusione: nel cumulo sono presenti condanne con applicazione della recidiva ex art. 99 c.p., che impedisce la concessione della detenzione domiciliare c.d. “per ultrasettantenni” prevista dall’art. 47ter co. 01 O.P.
Con l’ordinanza che può leggersi qui, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 7 ottobre 2020, n. 41, il Magistrato di Sorveglianza di Milano dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità che solleva in relazione alla norma citata, nella parte in cui prevede la preclusione. Il dispositivo dell’ordinanza di rimessione, come vedremo, è più articolato e diversi sono i profili affrontati in motivazione; ma l’essenza del ragionamento del Magistrato sta nella rivendicazione di uno spazio di autonomia valutativa, di un ambito in cui il “giudice dell’uomo” (e non del fatto) possa verificare in concreto se di quell’uomo si può fidare, senza porre a rischio la sicurezza dei consociati, apprezzandone la situazione attuale, senza barriere preclusive di un esame nel merito.
2. Premessa: la recidiva “paralizzante”.
Si tratta di una richiesta di intervento della Corte Costituzionale che investe uno dei sopravvissuti cascami del versante rigorista della legge c.d. “ex Cirielli” (L. 251/2005): quello della recidiva.
Fu proprio quell’intervento normativo ad introdurre, da un lato, un istituto di stampo umanitario, con l’inserimento nell’art. 47 ter O.P di un comma 01. dedicato alla detenzione domiciliare ad hoc per i condannati ultrasettantenni; dall’altro subito precludendo, però, in via assoluta, l’accesso alla misura in presenza di una condanna “con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale” , oltre che di altri elementi ostativi riferiti al tipo di autore o al titolo di reato .
La riforma del 2005 ha investito, oltre all’ordinamento penitenziario, sia il codice penale che il codice di rito, intervenendo sull’art. 99 c.p. con una completa riscrittura , ma anche sull’art. 62bis c.p. , sull’art. 69 c.p. in tema di bilanciamento delle circostanze (vietandolo in una serie di ipotesi, tra le quali la più ricorrente in concreto: recidiva ex art. 99 comma IV c.p.) e sull’art. 81 .
È un fatto che la “ex Cirielli” sia legge balzata agli onori delle cronache come “ammazza processi”, per aver abbattuto i termini di prescrizione (gli interventi sugli artt. 157 e 158 c.p. goderono di grande attenzione mediatica) e addirittura per aver costituito incentivo ai reati contro la P.A. Molto meno attenti sono stati i media al versante giustizialista della legge, caratterizzata da estremo rigore repressivo nei confronti del soggetto recidivo, con previsione di un vero e proprio statuto differenziato in peius, che coinvolge anche la fase esecutiva. La dottrina ha fortemente stigmatizzato questa sorta di doppio binario fondato sulla qualifica soggettiva del reo, segnalando il rischio di un ritorno al diritto penale d’autore, in contrasto con i principi di uguaglianza, di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale. Numerosi sono stati i moniti per il pericolo di far prevalere una prospettiva securitaria rispetto a principi quali la proporzione tra la pena e l’effettiva gravità del fatto, la funzione rieducativa della sanzione penale, il rispetto del rapporto tra libertà del singolo e primato della sicurezza sociale nei termini di regola – eccezione, centrale in una democrazia. Sono state evocate le leggi americane del “three strikes and you’re out”, stigmatizzando un atteggiamento che pare voler scimmiottare lo slogan della “tolleranza zero” caro a una parte della politica statunitense. Posizione destinata a fare i conti, come si è potuto, poi, con sollievo constatare, con il baluardo dell’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione: la prospettiva che un soggetto particolarmente pericoloso debba essere radiato per sempre dall’orizzonte della società civile non appartiene – rectius, non dovrebbe appartenere – alla nostra cultura; in questo, non vogliamo fare gli americani .
Ci abbiamo provato, però.
Oltre alle modifiche dei codici, ivi compresa quella dell’art. 656 c.p.p. (con introduzione di un’ulteriore ipotesi di impedimento alla sospensione dell’esecuzione delle pene detentive disciplinata dal quinto comma per i condannati cui fosse stata applicata la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’art. 99 c.p.), la L. 251/2005 è intervenuta pesantemente sull’ordinamento penitenziario, inasprendo la disciplina dei benefici concedibili ai detenuti nell’ipotesi di contestazione e riconoscimento della recidiva reiterata. In particolare: si è disciplinata in maniera composita la disciplina della detenzione domiciliare prevedendo tuttavia preclusioni collegate alla recidiva reiterata; si sono fissate soglie speciali di espiazione per la concessione dei permessi premio e della semilibertà ai recidivi (artt. 30 quater e 50 bis O.P.; si è vietata la concessione dei benefici ai condannati per evasione; si è fissato il limite di concessione per una sola volta dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare e della semilibertà per i recidivi reiterati (art. 58 quater comma 7 bis O.P.).
È noto che molti degli aggravamenti e delle preclusioni connessi alla recidiva introdotti dalla L. “ex Cirielli” sono stati espunti, con il passare degli anni, dall’ordinamento, soprattutto per intervento della Consulta. In successione, sono stati destinati a meritato oblio:
– l’impossibilità di tenere conto della condotta del reo susseguente al reato al fine della concessione delle circostanze attenuanti generiche per i delitti indicati dall’art. 407 comma II lett. a) c.p.p. puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni (sentenza Corte Cost. 183/2011);
– l’obbligatorietà dell’aumento di pena ex art. 99 comma V c.p. per i medesimi delitti a prescindere dalla pena edittale (sentenza Corte Cost. 185/2015);
– il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma c.p., rispetto ad una serie di attenuanti speciali: art. 73 comma V D.P.R. 309/90 (quando si trattava di attenuante: sentenza Corte Cost. 251/2012); art. 648 cpv. c.p. (sentenza Corte Cost. 105/2014); art. 609bis, terzo comma c.p. (sentenza Corte Cost. 106/2014); art. 73 comma VII D.P.R. 309/90 (sentenza Corte Cost. 74/2016); art. 219, terzo comma R.D. 267/1942; 89 c.p. (sentenza Corte Cost. 73/2020). Tutti casi in cui è stato ritenuto trattarsi di deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato in via generale dall’art. 69 cod. pen., costituzionalmente inammissibili, in quanto trasmodanti in manifesta irragionevolezza, non potendo giungere il legislatore, in alcun caso, «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012);
– il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive, per i condannati cui sia stata applicata la recidiva ex art. 99 comma IV c.p., di cui all’art. 656 comma 9 lett. c) c.p.p.: lettera soppressa con D.L. 78/13 convertito, con modificazioni, in L. 94/2013;
– talune delle preclusioni introdotte nella Legge 354/75: in particolare quelle inerenti alle più elevate soglie di espiazione per la concessione dei permessi premio e della semilibertà, abrogate ad opera del D.L. 78/13, nonché il divieto di concessione della detenzione domiciliare ai condannati cui sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99 comma 4 c.p., di cui all’art. 47 ter comma 1 bis O.P., anch’esso abrogato dal medesimo decreto legge.
La recidiva come barriera invalicabile all’accesso a misure o istituti di favore permane, tuttavia, in alcune pieghe dell’ordinamento, con il suo effetto sclerotizzante collegato spesso, nell’applicazione concreta anche da parte dei giudici della cognizione, a meri automatismi piuttosto che a valutazioni ponderate e approfondite circa il significato e il peso da attribuire a condanne del passato, magari remoto. Di una di tali distorsioni si occupa l’ordinanza in commento.
La Consulta ha chiarito da tempo che, pacifica la legittimità di trattamenti differenziati per il recidivo, vi possono essere spazi per un intervento della Corte in relazione a specifiche previsioni di risposta deteriore dell’ordinamento al recidivo che delinque, cfr. sentenza n. 105/2014 (e 106/2014): «come è stato già affermato da questa Corte (sentenza n. 251 del 2012), la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale” (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni».
La conclusione non può essere diversa laddove la previsione riguardi l’esecuzione e non la commisurazione della pena; nello specifico, la modalità di espiazione, non in carcere ma nel domicilio, essendo stata definitivamente scolpita, se ve ne fosse bisogno, la differenza ontologica tra le due forme di esecuzione nella sentenza n. 32/2020: «Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa».
3. L’ordinanza di rimessione
Dopo aver interpretato l’istanza generica di detenzione domiciliare proveniente dal detenuto, priva di riferimenti a patologie fisiche o psichiche, come formulata ai sensi dell’art. 47ter comma 01 O.P., unica misura in astratto applicabile stante il fine pena e l’età, il Magistrato di Sorveglianza di Milano opera il vaglio di ammissibilità della quaestio ravvisando, in primo luogo, nel caso concreto la sussistenza di tutti i requisiti formali richiesti per la concessione della misura: si tratta di soggetto di settantotto anni di età, condannato per reati nessuno dei quali ostativo, mai dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, non destinatario di misura di sicurezza e nell’impossibilità di chiedere, stante l’entità della pena espianda (14 anni e 7 mesi di reclusione) alcun’altra misura alternativa: neppure la detenzione domiciliare c.d. “in deroga” o “in surroga” ex art. 146 o 147 c.p., non risultando condizioni di salute gravemente compromesse.
Esaminando la struttura dell’art. 47 co. 01 O.P., il remittente si sofferma sull’asse portante della previsione, individuato, in esclusiva, nell’età del condannato: secondo la giurisprudenza di legittimità, risulterebbe «immanente al vigente sistema normativo una sorta di incompatibilità presunta con il regime carcerario per il soggetto che abbia compiuto i settanta anni», pur con l’indubbia conservazione, in capo alla magistratura di sorveglianza, di un generico potere di valutazione discrezionale: la detenzione domiciliare non è misura che debba essere automaticamente concessa ai detenuti ultrasettantenni, dovendo in ogni caso la magistratura di sorveglianza valutarne la meritevolezza e l’idoneità a facilitare il reinserimento sociale .
Segnala, ulteriormente, il remittente, la «difficile percorribilità di un trattamento rieducativo intra murario per un soggetto ormai personalmente e psicologicamente strutturato».
A fronte di un’ampia portata applicativa (specie per l’inesistenza di un limite massimo di pena), due sono le eccezioni previste dalla norma: la prima correlata al titolo di reato in esecuzione, la seconda alla posizione giuridica individuale del condannato. Restano, infatti, esclusi dalla possibilità di ammissione alla misura i condannati ad una serie di reati selezionati in quanto espressivi di peculiare allarme sociale o pericolosità del soggetto: per tutti questi reati (delitti contro la personalità individuale quali la riduzione in schiavitù, la prostituzione minorile o la pedopornografia, le varie ipotesi di violenza sessuale, i reati attribuiti alla competenza della DDA e tutti i reati di cui all’art. 4 bis O.P.) è una valutazione astratta del legislatore a stabilire una presunzione di pericolosità e non meritevolezza della misura
La seconda classe di cause assolutamente ostative alla concessione della detenzione domiciliare agli ultrasettantenni è collegata ad un giudizio di pericolosità e non meritevolezza formulato, in concreto, da un organo giurisdizionale in sede diversa da quella della magistratura di sorveglianza: sono ostative alla misura la dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza o «l’intervenuta condanna con l’aggravante di cui all’art. 99 c.p.». Proprio intorno a quest’ultima ipotesi verte il cuore della questione sollevata.
Il Magistrato di Sorveglianza ne ravvisa, innanzitutto, la diversità ontologica rispetto alle ipotesi di cui agli artt. 102, 103, 105 e 108 c.p., dato che l’applicazione della recidiva di fonda su «un giudizio di pericolosità indiretto, di intensità potenzialmente molto differente e, soprattutto non attuale».
Il fondamento della recidiva va ravvisato nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità di chi delinque avendolo già fatto in passato, da valutare ai fini dell’applicazione facoltativa e discrezionale dell’aumento di pena: evocando la giurisprudenza costituzionale (sentenze 192/07 e 185/05) e delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Sent. 27.5.2001, n. 35738 e 24.2.2011, n. 20798), il remittente sottolinea il carattere facoltativo dell’aggravio di pena, ancorato a indici precisi, quali la natura dei reati, il tipo di devianza di cui sono il segno, la qualità delle condotte, la distanza temporale, il livello di omogeneità, l’eventuale occasionalità della ricaduta ed ogni altro possibile parametro individualizzante, significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero riscontro formale dei precedenti penali. Viene sottolineato, peraltro, che l’applicazione della recidiva non esprime un giudizio generale prognostico sulla persona, ma uno specifico sul fatto, ritenuto più grave perché reiterato.
Anticipando valutazioni che attengono già alla ritenuta non manifesta infondatezza della quaestio, il Magistrato sottolinea poi l’aleatorietà dell’applicazione della recidiva, che deriva, a suo giudizio, da una quantità di variabili imponderabili e ingovernabili, a partire dalla circostanza che il pubblico ministero si “ricordi” di contestarla; inoltre, pur laddove l’applicazione della recidiva costituisca giudizio, sebbene indiretto, di pericolosità del reo, questo “fotografa” un preciso momento: quello della decisione di merito; e quel giudizio non potrà mai essere attualizzato, neppure quando la posizione giungerà al vaglio della Magistratura di Sorveglianza, poiché basterà che la sentenza di condanna applichi la recidiva per inibire la valutazione di pericolosità attuale, trovandosi il giudice la strada sbarrata da una valutazione compiuta da altri, spesso anche molto tempo prima.
Ed allora il parametro costituzionale evocato in via principale, entrando nel merito della quaestio, non può che essere quello dell’art. 3 Cost., nelle declinazioni dell’eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza come affermatesi nella copiosa giurisprudenza della Consulta, che ha da tempo affermato il principio per cui «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenze n. 172/2012, 231 e 164/2011, n. 265 e n. 139 del 2010).
Appare più che pertinente il richiamo alla sentenza n. 185/2015 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’aumento obbligatorio di pena di cui all’art. art. 99, quinto comma, del codice penale, come sostituito dalla L. 251/2005): in quella circostanza la Corte criticava «il rigido automatismo sanzionatorio cui dà luogo la norma censurata – collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso»: esso «è del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo. L’obbligatorietà stabilita dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen. impone l’aumento della pena anche nell’ipotesi in cui esiste un solo precedente, lontano nel tempo, di poca gravità e assolutamente privo di significato ai fini della recidiva».
Agganciando anche a questa pronuncia il ragionamento sulla norma in scrutinio, il Magistrato di Sorveglianza osserva come essa preveda la natura ostativa di una qualsiasi precedente condanna con recidiva (rectius, anche di una sola condanna per qualsiasi tipo di recidiva, non importa se semplice o aggravata: «né sia mai stato condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 del codice penale»), risultando comunque avulsa la preclusione dell’accesso alla misura alternativa per l’ultrasettantenne da una valutazione in concreto di pericolosità attuale. Si evidenzia, opportunamente, che la recidiva può essere retaggio di un passato anche molto lontano, sia dalla sentenza, che, a fortiori, dalla valutazione della decisione sull’istanza presentata in fase esecutiva. Inoltre, la recidiva può essere stata ritenuta in relazione a precedenti reati di scarsa gravità, legati a contingenze del caso concreto e, dunque, non rappresentativi di una più marcata colpevolezza o pericolosità del condannato. Si prospetta, così, proprio uno di quei casi evocati dalla giurisprudenza costituzionale come indicativi di accadimenti reali contrari ad una presunzione assoluta fondata su di una generalizzazione irragionevole: vi possono essere «condannati con recidiva niente affatto pericolosi e condannati senza recidiva molto pericolosi, in entrambi i casi per ragioni imponderabili». Ad avviso del remittente, peraltro, un condannato di più di settant’anni di età è ragionevolmente più lontano di un giovane da contesti criminali e occasioni di delitto.
Il secondo parametro costituzionale evocato è l’art. 27 terzo comma Cost., che impone, com’è noto, un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra. Disancorare la qualità della pena da espiare hic et nunc da una valutazione di effettiva, concreta ed attuale pericolosità è irragionevole e determina nel condannato un senso di ingiustizia che si risolve in una frustrazione della finalità rieducativa e risocializzante della pena . Ciò viepiù ove si consideri che lo sbarramento imposto dalla norma può ricollegarsi a qualsiasi forma di recidiva e dunque anche ad un unico reato, di qualsiasi gravità, anche molto lontano nel tempo: il passato che ritorna, senza scampo.
Viene, dunque, dichiarata ammissibile e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 ter comma 01 O.P., con la scelta del remittente di prospettare al Giudice delle leggi due opzioni: in via principale si chiede declaratoria di incostituzionalità della norma nella parte in cui prevede che i condannati ultrasettantenni che abbiano riportato condanne con l’aggravante della recidiva non possono usufruire della misura della detenzione domiciliare; in via subordinata, nella parte in cui la norma non prevede che il divieto possa essere superato dall’acquisizione di elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti cessata o grandemente diminuita la pericolosità del soggetto.
4. Considerazioni conclusive.
Sebbene il dispositivo dell’ordinanza possa far sorgere, di primo acchito, qualche perplessità, una lettura attenta della parte motiva pare in grado di fugare ogni dubbio sull’ammissibilità della quaestio con riferimento alla precisazione del petitum.
È nota la giurisprudenza costituzionale sull’inammissibilità delle questioni che siano ancipiti, ossia poste in forma alternativa e ambivalente . Si tratta dei casi in cui «il remittente chiede alla Corte di rimuovere l’illegittimità costituzionale della disposizione attraverso due distinte modalità di intervento sul testo della norma censurata senza optare per l’una ovvero per l’altra, ponendole entrambe sullo stesso piano e indicandole come alternative tra loro» (sent. 248/2014). In tali circostanze la Corte dichiara la questione inammissibile in quanto proposta in termini di “alternatività irrisolta”, non competendo alla Corte di scegliere tra le due distinte soluzioni prospettate dal remittente. L’ipotesi, tuttavia, va distinta da quella in cui le questioni sono poste in chiave non meramente alternativa, ma di subordinazione tra loro: tale articolazione, anche se implicita, non pregiudica l’ammissibilità del ricorso incidentale .
Nel nostro caso esplicitamente il remittente pone le questioni in via subordinata l’una all’altra, chiarendo che in principalità viene richiesta una pronuncia ablativa.
E del resto appare chiaro dal complessivo tessuto della motivazione dell’ordinanza come il rimettente prospetti solo in via subordinata un intervento di tipo manipolativo, tale da consentire di superare la preclusione sancita dalla norma in presenza di elementi di segno contrario alla presunzione che la fonda : segnatamente, elementi volti a supportare un’affermazione di attuale non pericolosità.
La scelta del remittente pare dettata (anche) da ragioni di coerenza sistematica: come si è visto, norme di contenuto analogo a quella in esame sono state eradicate dall’ordinamento con un intervento del legislatore. Segnatamente, il D.L. 78/13 convertito, con modificazioni, in L. 94/2013, ha abrogato previsioni come quella del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive, per i condannati cui sia stata applicata la recidiva ex art. 99 comma IV c.p., di cui all’art. 656 comma 9 lett. c) c.p.p., nonché il divieto di concessione della detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1 bis O.P. ai condannati cui sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99 comma 4 c.p. Trattavasi, peraltro, di preclusioni collegate solo ad una recidiva qualificata, mentre nel caso di specie lo sbarramento alla detenzione domiciliare, come si è visto, può derivare anche da una recidiva semplice.
Si augura, ovviamente, la miglior sorte alla questione sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Milano: la preclusione è correttamente denunciata come irragionevole e contraria ad un’esecuzione rispettosa dell’art. 27 comma III Cost. La difesa si è costituita nei termini ed è fissata il 9 marzo 2021 l’udienza pubblica per la discussione .
La descrizione della fattispecie concreta e la motivazione sulla necessaria applicazione della norma censurata nel giudizio a quo sono sintetiche ma appaiono soddisfare i criteri di rilevanza stabiliti dalla giurisprudenza della Corte: l’ordinanza riporta il dato essenziale della presenza, nel cumulo pene dell’interessato, di condanne con il riconoscimento e l’applicazione della recidiva e si sofferma ampiamente sui diversi profili di ammissibilità dell’istanza, frustrati solo dalla preclusione denunciata.
Non può non rilevarsi una disattenzione sul vaglio preliminare circa la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, dovendosi, però, osservare che il dettato dell’art. 47 ter appare di tale lapidaria chiarezza da non avere neppure particolarmente impegnato la giurisprudenza, a quanto consta, nei tre lustri di vigenza della norma.
Solo dopo il promovimento della questione di legittimità costituzionale in parola la Corte di Cassazione si è pronunciata in un caso analogo a quello che forma oggetto del giudizio a quo nel procedimento di cui qui ci occupiamo, nel quale era stata proposta altresì questione di legittimità costituzionale sovrapponibile a quella in esame: per Cass. pen. sez. I, 8.6.2020 n. 20231, che ha annullato un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano, il giudice a quo si era sottratto al primario compito di verificare se la recidiva, al di là della mera “contestazione”, risultante dall’ordinanza impugnata, avesse avuto una concreta incidenza sulla pena irrogata. Tale verifica sarebbe indispensabile al fine di valutare se rispetto al condannato che chiede la misura alternativa sia formulabile quel giudizio di “accentuata pericolosità” alla base di una norma come quella di cui si è qui argomentato. Una recidiva ritenuta dal giudice della cognizione subvalente rispetto ad eventuali attenuanti non avrebbe effetto concreto sulla pena e non sarebbe, dunque, idonea a produrre gli effetti preclusivi indiretti in fase esecutiva. La Corte ha rinviato al primo giudice per nuovo giudizio, anche sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, laddove verificata l’effettiva sussistenza della condizione ostativa.
*Avvocato del Foro di Brescia