SUL TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE: LE CRITICITÀ IRRISOLTE DI UN TIPO CRIMINOSO ANCORA PRIVO DI UNA BASE LEGALE E DI UN FONDAMENTO REALE CHE LO LEGITTIMINO – DI ROBERTO RAMPIONI
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SUL TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE: LE CRITICITÀ IRRISOLTE DI UN TIPO CRIMINOSO ANCORA PRIVO DI UNA BASE LEGALE E DI UN FONDAMENTO REALE CHE LO LEGITTIMINO.
di Roberto Rampioni*
La «storia» dell’art. 346-bis c.p., travagliata nel pur breve arco di esistenza, è tristemente nota. Introdotta nel 2012 sulla scorta di pressanti indicazioni sovranazionali; riscritta nel 2019 sulla spinta del cieco furore punitivo imperante; di recente sottoposta a «lettura tassativizzante» dalle Sezioni Unite nel tentativo – mal riuscito – di salvarla da fondate censure di incostituzionalità, viene oggi decisamente ridimensionata nella portata applicativa dalla cd. «riforma Nordio». Una norma incriminatrice, peraltro, scarsamente applicata in prevalenza per comode ed improprie «mediazioni al ribasso» della imputazione.
1. Il delitto di «traffico di influenze illecite» – si afferma – “anticipa la risposta penale agli accordi pre-corruttivi”. Quale momento di una necessaria «progressione criminosa» – per il “nesso inscindibile che corre tra traffico di influenze e corruzione” – costituisce un “avamposto nella lotta alla illegalità”[1].
Ora, la novella legislativa che modifica la portata della norma incriminatrice – si osserva criticamente – non consentirà più di “punire il mediatore che millanti relazioni inesistenti” (salvo la possibilità di ricorrere allo schema del delitto di truffa) e lascerà “comunque impunito chi ha pagato il mediatore”; e ciò fa sì che “il nostro Paese abbia gli occhi del mondo addosso”, dal momento che “non può fare quello che vuole”. La fattispecie incriminatrice – si prosegue, infatti – diviene “piccola piccola” nella sua portata, così da determinare una significativa, seppur parziale, abolitio criminis, comunque tale da suscitare scandalo; e simile “soffocamento applicativo” presenterebbe anche profili di illegittimità costituzionale per violazione di obblighi internazionali[2].
2. La «storia» dell’art. 346-bis c.p., travagliata nel pur breve arco di esistenza, è tristemente nota.
Introdotta nel 2012 sulla scorta di pressanti indicazioni sovranazionali; riscritta nel 2019 sulla spinta del cieco furore punitivo imperante; di recente sottoposta a «lettura tassativizzante» dalle Sezioni Unite[3] nel tentativo – mal riuscito – di salvarla da fondate censure di incostituzionalità, viene oggi decisamente ridimensionata nella portata applicativa dalla cd. «riforma Nordio». Una norma incriminatrice, peraltro, scarsamente applicata – i numeri (anche qui come per l’abuso di ufficio) sono illuminanti – in prevalenza per comode ed improprie «mediazioni al ribasso» della imputazione.
Come, correttamente, si è inteso da tempo rilevare, allo scopo di potenziare l’azione di contrasto al “fenomeno corruttivo di tipo politico-affaristico o sistemico, in cui l’intesa corruttiva si realizza grazie alla figura del mediatore senza che corrotto e corruttore entrino in contatto direttamente”, una volta di più, invece di “delineare preventivamente la disciplina extra-penale del cd. lobbismo”[4], si è puntato tutto sulla disciplina penale, “giungendo alla costruzione di una (mini-)macro-fattispecie incriminatrice di traffico di influenze illecite dai confini sempre più incerti e sempre meno espressione di un tipo criminoso omogeneo, munita di un apparato sanzionatorio ai limiti della ragionevolezza” [5].
Nel 2012 si era inteso «staccare» la nuova norma dalla figura del millantato credito (cui certa giurisprudenza aveva riportato anche la vendita di entrature non inesistenti), previsione nella quale il destinatario della millanteria non rispondeva penalmente; e la si era «avvicinata» alla disciplina della corruzione, quale scambio fra soggetti entrambi penalmente responsabili. Per tale via si era inteso estendere la tutela penale all’area prodromica al delitto di corruzione.
Il delitto in esame tendeva (e tende) a contrastare il comportamento di chi, avendo relazioni con un soggetto pubblico e sfruttandole, si fa dare o promettere – evidentemente, al di fuori dei casi di concorso nei delitti di corruzione propria o in atti giudiziari – denaro od altro vantaggio, come prezzo della propria mediazione illecita verso tale soggetto pubblico ovvero per remunerarlo in relazione al compimento di un atto contrario a doveri dell’ufficio.
Una fattispecie, quella in esame, che ipotizzava in termini reali, ciò che il millantato credito prospettava in termini simulati.
La sensibile anticipazione dell’intervento penale già rendeva del tutto vago, al di là della collocazione sistematica della norma, il contenuto dell’offesa, di certo non individuabile nella lesione dei beni del buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione. Norma atteggiantesi a delitto-ostacolo, suscettivo di sanzionare atti meramente «preparatori» (si è detto: propedeutici) rispetto alle vere e proprie condotte corruttive [6]. E disposizione che rivelava (e rivela), peraltro, gravi carenze sotto il profilo della precisione-determinatezza del precetto: – in cosa consistenti e come accertabili le “relazioni esistenti”? – quali, appunto, i criteri di determinazione della illiceità della mediazione in difetto di indicazioni normative? Muovendo, del resto, dal dato che è impossibile ed impensabile, ma anche non proficuo, proibire la prassi della c.d. raccomandazione «virtuosa»[7].
Colla novella del 2019, al di là del consueto «inasprimento» sanzionatorio (che ha riguardato il limite massimo della pena e le pene accessorie della interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la P.A.; ma anche l’inserimento della disposizione nell’ambito dei reati che comportano la responsabilità dell’ente), sotto il profilo della struttura della norma incriminatrice si è inteso perseguire l’ampliamento della sfera di operatività:
– coll’abrogare la fattispecie di millantato credito (art. 346 c.p.) e col «liberare», il nuovo art. 346-bis cp dal requisito implicito della necessaria idoneità della influenza venduta ad incidere effettivamente sul pubblico agente; così da pervenire al risultato – quanto meno sperato – di punire sia il mediatore che il committente della mediazione, a prescindere dalla reale capacità del primo di influenzare il pubblico agente;
– coll’attribuire rilevanza anche alle condotte finalizzate ad una corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 cp) ed alla relativa remunerazione, così da far assumere rilevanza pure al traffico di influenze c.d. gratuito;
– coll’ampliare l’ambito della prestazione del committente a “qualsiasi utilità” e non più soltanto a vantaggi di carattere patrimoniale;
– coll’inserire i pubblici agenti internazionali di cui all’art. 322 bis c.p. tra i destinatari dell’influenza illecita.
Per tale via si è dato vita – come è agevole intendere – ad una norma incriminatrice “davvero problematica sul versante dei principi di garanzia, in quanto ancora più indeterminata e disomogenea di quella elaborata dalla legge n. 90 del 2012” [8].
Di recente, le Sezioni Unite, alle molteplici criticità che affliggono la norma incriminatrice (fra l’altro: incerta individuazione del significato della doppia clausola di illiceità speciale e sua indeterminatezza; assenza di una compiuta disciplina del lobbying), hanno appunto dovuto affrontare il nodo problematico di fondo – sia pure da una particolare angolazione – quella relativa ai rapporti fra «vecchio» millantato credito e la «nuova» ampia fattispecie incriminatrice di traffico di influenze (art. 346-bis, cpv, cp), essendosi immediatamente delineato un netto contrasto giurisprudenziale sulla delicata, quanto limitata, questione di diritto intertemporale circa la continuità normativa o meno tra «vecchio» e «nuovo» e, dunque, incorporazione completa o meno del millantato credito nel nuovo art. 346-bis c.p.[9].
Ora, le Sezioni Unite hanno inteso aderire all’indirizzo meno restrittivo col ribadire il primato del «criterio letterale» ex art. 12 delle preleggi, quale canone ermeneutico «vincente» rispetto al canone della «voluntas legis» (in chiave psicologica), e col fare ricorso al collaudato «criterio logico-strutturale» nel raffronto tra fattispecie astratte al fine di stabilire se la novella del 2019 abbia dato vita ad una mera successione modificativa ovvero ad una abolitio criminis[10].
E per tale via le Sezioni Unite, rimarcata la diversa natura della fattispecie di millantato credito (monosoggettiva) rispetto a quella di traffico di influenze (plurisoggetiva), sono giunte ad affermare la «discontinuità normativa» fra vecchia e nuova disciplina, rilevando – fondatamente – in ordine alla figura del privato committente, che si veniva irragionevolmente a punire la vittima di un inganno (figura priva della possibilità di pervenire ad un accordo corruttivo coll’intraneus attraverso l’opera del «finto» mediatore) e si finiva per giustificare l’incriminazione della pura e semplice «intenzione malvagia» in pieno contrasto coi fondamentali principi garantistico-liberali di materialità ed offensività [ed il GRECO, vien fatto di chiedersi, non ha obiettato nulla?].
Come si è inteso fondatamente rilevare, “una doverosa interpretazione «tassativizzante» e «tipizzante» dell’art. 346-bis impone, pertanto, di negare la sua integrazione al cospetto di ogni forma di venditio fumi, non solo dunque quella in cui l’agente ottenga la promessa/dazione del privato col «pretesto» di corrompere il funzionario pubblico, ma anche quella avente ad oggetto il mercanteggiamento di un’inesistente attività mediatoria presso il soggetto qualificato. Solo una lettura di questo genere consente di ripristinare «l’equilibrio costituzionale tradito» dal legislatore del 2019, limitando la criminalizzazione ai fatti che – almeno in potenza – mettono a rischio il corretto ed imparziale funzionamento della P.A.”11.
Se, del resto, il traffico di influenze illecite deve costituire una sorta di «delitto ostacolo», quale «avamposto» nella lotta alla illegalità nell’azione del pubblico funzionario, condotte, quale il traffico di influenze «putativo», in quanto non suscettive di incidere in modo distorsivo sui processi decisionali pubblici e, dunque, prive di capacità offensiva rispetto agli interessi meritevoli di protezione penalistica (il buon andamento e l’imparzialità della P.A.), non valgono ad integrare la previsione di cui all’art. 346-bis cp. Pseudo-interessi, quali la «credibilità» ovvero l’«immagine» della P.A. [un ritorno alla tutela del «prestigio», peraltro, mediato?], non tanto vaghi, quanto «vuoti», senza reale consistenza, non meritano tutela penalistica.
Le modifiche che si è inteso introdurre con la cd. riforma Nordio mirano ad offrire maggiore «precisione» al tipo legale ed un più significativo contenuto offensivo coll’esclusione del rilievo della vanteria e delle relazioni solo «asserite», coll’introduzione di un dolo qualificato dall’intenzionalità, colla previsione di uno «scopo» cui deve mirare il ricorso alle relazioni «esistenti», colla introduzione di una pur approssimativa nozione di mediazione illecita12.
Difetta ancora, tuttavia, una disciplina organica del fenomeno lobbystico, l’unica suscettiva di realizzare la trasparenza dei processi decisionali pubblici col fissare il limite di liceità dell’azione – pur utile – esercitata dai portatori di interessi particolari (non generali) e dai rappresentanti dei cd. gruppi pressione presso la pubblica amministrazione, anche in ordine ai rapporti tra economia e politica. Disciplina regolatoria che consenta di differenziare dalle attività di reale interferenza indebita i fisiologici tentativi dei privati di «concorrere» colle proprie istanze alle scelte operate nell’ambito di processi decisionali pubblici.
3. È una norma “a tipicità impalpabile”; una fattispecie “evanescente”, di cui la stessa giurisprudenza di legittimità ha cercato [senza esito, appunto] di “restringere le maglie”; un precetto che, in particolare nella modalità esecutiva della mediazione illecita, “apre uno spaccato assai più delicato e complesso sotto il profilo della tassatività/determinatezza del precetto penale (art. 25, comma 2, Cost.) e della prevedibilità della decisione giudiziale (art. 7 CEDU)”; “una tipicità normativa invisibile, aggravata dalla impalpabilità del tipo criminoso di riferimento: qual è il fatto socialmente dannoso che intendiamo reprimere?”; “il traffico di influenze illecite restituisce l’immagine di una fattispecie costruita sull’argilla. Il Tatbestand – se inteso quale tecnica per tracciare con precisione i confini tra lecito e illecito ed evitare che il giudice assuma un ruolo creativo – nell’art. 346-bis cp è semplicemente assente: una descrizione alquanto complessa fa pendant con una tipicità inesistente”13.
Davvero problematico revocare in dubbio le affermazioni di Mongillo; e, in effetti, la dottrina è sostanzialmente concorde al riguardo: vecchia (2012) e recente (2019) formulazione dell’art. 346-bis cp presentavano, con certezza, la necessità di “precisare alcuni elementi del reato”, al fine di meglio definire l’esatto ambito applicativo; ed ora, tuttavia, anche la fattispecie di nuovo conio introdotta dalla cd. riforma Nordio non sembra andare esente da critiche, presentando, assieme ad innovazioni “apprezzabili”, altre “inutili” ovvero “eccentriche”, ed altre ancora “ambigue e poco intellegibili”14.
Difficile a questo punto ipotizzare la possibilità di essere smentiti nell’affermare che la norma in esame, nelle sue successive formulazioni, non presenta il carattere della piena «conoscibilità» (non già quel «surrogato» di marca sovranazionale della prevedibilità della decisione giudiziale, che nel nostro paese nulla di buono fa sperare al cittadino alla luce dei noti contrasti giurisprudenziali in materia e degli indirizzi estensivo-repressivi che comunque si profileranno in un prossimo futuro); e non rispetta i fondamentali principi di «precisione» (non delimitando in modo netto l’area del lecito da quella dell’illecito) e di «determinatezza» (non consentendo un agevole e mirato esercizio del diritto di difesa, «provando»).
Difetta ancora oggi – come accennato – una organica disciplina legale dell’attività lobbistica e dei cd. gruppi di pressione e, dunque, l’elemento individuante l’illiceità speciale, la «mediazione illecita», nello schema normativo è puramente citato, non compiutamente descritto sul piano contenutistico. Come è stato affermato, al di là di sparute aree in cui la «decisione» (la decisione del giudice, ad es.) non appare in alcun modo suscettibile di mediazione [anche qui, tuttavia, vien fatto di chiedersi se la pura «raccomandazione» debba presentare necessariamente rilievo penalistico], “restano comunque ampi spazi di irrisolta incertezza. Una folta costellazione di casi si colloca nella densissima fascia grigia dell’incriminazione e vede per lo più coinvolti privati nella veste di influence peddler … L’incertezza giuridica diviene fitta nebbia nei casi – quelli più pregnanti e frequenti – in cui si punti ad incidere su decisioni politico-parlamentari o di indirizzo politico, su atti di alta amministrazione o comunque sull’esercizio di poteri pubblici discrezionali”15.
Essendo, appunto, erroneo ritenere illecito un qualunque tentativo di condizionare un processo decisorio discrezionale, quando una siffatta «influenza» potrà essere considerata sanzionabile con la pena criminale? Compito questo, alla luce del principio di riserva di legge, asse portante del vigente sistema ordinamentale, non affidabile al giudice – come da molti si pretenderebbe – pena l’illegittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost.16.
4. Né minori criticità solleva la norma sotto il concorrente profilo del rispetto del principio di offensività.
Si sostiene, invero: “occorre prendere sul serio l’essenza, la funzione di questo «tipo» criminoso: esso fa parte a pieno titolo del sottosistema della corruzione e anticipa la risposta penale agli accordi pre-corruttivi”17. L’art. 346-bis cp individuerebbe una figura di reato «avamposto», fortemente anticipata; un «delitto ostacolo» che sanziona un’intesa tra privati a finalità corruttive di un soggetto intraneus ancora non coinvolto ovvero un accordo prodromico in ordine a diverse condotte antigiuridiche, accordo di cui il funzionario pubblico ben può essere inconsapevole.
Vien fatto di chiedersi: nel nostro sistema penalistico fino a che punto è consentito anticipare la tutela penalistica? A protezione di cosa? In realtà, non mancavano presidi penalistici, così che è lecito dubitare dell’esistenza di lacune significative: il cd. mini-sistema dei delitti di corruzione da sempre sanziona, anticipando appunto la tutela, il perfezionamento del mero «patto corruttivo» – non importa se a tre o a due – momento consumativo del reato. Così come l’art. 322 cp sancisce la rilevanza penale del tentativo unilaterale di corruzione nel caso, appunto, di istigazione non accolta.
Forse che si è inteso (rectius, preteso) introdurre una deroga al disposto dell’art. 115 cp, così sancendo la punibilità del «mero accordo» tra mediatore e privato? Ma, precisamente, in ordine a cosa? Ove anche si tratti di intese pre-corruttive, come giustificabile l’arretramento della soglia di rilevanza penale a meri atti preparatori che non raggiungono la soglia del tentativo e neppure dell’atto unilaterale di istigazione alla corruzione? Prima ancora del principio di offensività, si intende respingere il principio fondamentale del diritto penale del «fatto», sanzionando la mera intenzione prava?
Ora, si assume sul punto, vuoi nell’ipotesi di «mediazione onerosa» vuoi in quella di «mediazione gratuita», “il disvalore penalistico risiede nel patto preliminare alla corruzione, nel mero accordo tra le parti avente ad oggetto l’influenza illecita”18 [anche per la corruzione funzionale e per atto conforme? e punibilità da estendere anche al soggetto ingannato dalla millanteria decettiva?].
Ma, quale, in cosa consistente il fatto socialmente dannoso che si intende reprimere?
Sostiene al riguardo Gambardella che, in realtà, la clausola di riserva, posta nell’incipit della norma, “evidenzia, rende manifesto, l’obiettivo politico-criminale perseguito dal legislatore con l’introduzione nel 2012 (e la riformulazione nel 2019) del delitto di traffico di influenze illecite: quest’ultimo costituisce un avamposto nella lotta alla illegalità nell’azione di pubblici poteri, sanzionando penalmente condotte precorritrici o propedeutiche ai reati di corruzione, le quali hanno come finalità l’influenza illecita sulle attività della pubblica amministrazione. Condotte le quali creano il pericolo che i pubblici agenti vengano effettivamente corrotti … La «clausola iniziale» potrebbe fornire allora un decisivo contributo sia nella tipizzazione delle condotte sia nel fondare il loro disvalore (di azione), introducendo un elemento soggettivo del fatto tipico: lo «scopo» di commettere un reato appartenente al microsistema della corruzione; «scopo» («fine») che se poi effettivamente realizzato configura una progressione criminosa con l’assorbimento del primo reato di traffico di influenze nel successivo di corruzione”19.
Troppo vago parlare di «illegalità nell’azione dei pubblici poteri»; interesse, oggetto di protezione quello della legalità dell’agire pubblico inafferrabile per la sua genericità, per la tutela del quale si intende, peraltro, approntare un armamentario sofisticato e di particolare efficacia: realizzare un «avamposto» a fini di «lotta»!
Argomentare che – evidentemente consapevoli della impalpabilità – si cerca di meglio definire, individuando la ratio della configurazione dell’avamposto nella sanzionabilità delle “condotte pre-corrutrici o propedeutiche ai reati di corruzione”. E ciò potrebbe anche essere, ove, appunto, già non esistesse a tali fini un apparato sanzionatorio non indifferente.
Né vale assumere che simili condotte «precorritrici e propedeutiche» “creano il pericolo che i pubblici agenti vengano effettivamente corrotti”. Non certo un «pericolo» penalisticamente inteso e, dunque, sanzionabile in quanto lesivo: il pericolo che il funzionario pubblico giunga ad accordarsi col privato e/o il mediatore è già punito dal mini-sistema dei delitti di corruzione (istigazione compresa). L’interlocuzione che si instaura fra privati a fini di mediazione può costituire una situazione di «futuribile rischio» per l’imparzialità e la efficienza dell’agire pubblico [è lo schema, appunto, dell’art. 115 cp!], ma simile interlocuzione, intercorsa tra privati ed estranea al pubblico agente, nessun rilievo può assumere nel richiamato mini-sistema dei delitti di corruzione, così da far sfumare ogni preteso “nesso inscindibile” tra «traffico» e «corruzione».
La «finalizzazione» dell’interlocuzione – e la fattispecie di nuovo conio la prevede – è sì suscettiva di individuare il «disvalore di azione» di simile condotta [l’atteggiamento interiore dell’agente], ma non offre alcuna indicazione sul (necessario e tipizzante) «disvalore di evento» della condotta medesima che soltanto “precorre” il possibile contatto col funzionario pubblico.
È che dovrebbe finalmente indicarsi l’oggetto giuridico di siffatta fattispecie; un conto, invero, è “l’obiettivo politico-criminale perseguito”, la possibile scelta di politica criminale; ben diverso l’interesse – ritenuto con fondamento razionale e, dunque, legittimante la tutela penale – meritevole di protezione.
Un simile interesse [che non può trovare collocazione nell’area propria dei delitti contro la pubblica amministrazione (azione imparziale ed efficiente del pubblico funzionario; indipendenza del giudice) dal momento che l’intraneus resta estraneo alla “propedeutica mediazione”] non viene minimamente indicato; né è appagante in tal senso l’affermazione, di stampo circolare, che “il disvalore penalistico risiede nel patto preliminare alla corruzione, nel mero accordo tra le parti avente ad oggetto l’influenza illecita”. Quale, in cosa consistente, l’offesa (non già il sempre ambiguo «dis-valore»), penalisticamente rilevante che giustifica la sanzione penale? Quale il nesso che legherebbe inscindibilmente, ma soprattutto necessariamente e sempre, l’interlocuzione «non virtuosa» (improper) tra privati alla futuribile corruzione?
Né il discorso cambia se l’oggetto di tutela del cd. micro-sistema della corruzione viene spostato – secondo i desiderata europei – nell’area dell’economia e del mercato: “la corruzione non più vista solo come un atto, pur grave, di «tradimento» del funzionario pubblico rispetto al dovere di fedeltà … [ma,] invece, considerata come un meccanismo che distorce le regole della concorrenza e del mercato, al punto da minare persino le stesse fondamenta della democrazia”20.
L’offesa di tale classe di reati non è mai consistita – se non in alcune allarmanti pronunce giurisprudenziali – nella violazione del dovere di fedeltà, come non può essere individuata nella violazione da parte di chicchessia di generiche regole di concorrenza. L’intervento penalistico si giustifica solo se a protezione di un individuato interesse «reale», salvo appunto (anche in materia) un «cambio di paradigma», che nessuno auspica; una traslazione dalla “tradizionale attività repressiva-penale” alla “più moderna prevenzione”21 [al non-diritto penale, seppure sbrigativamente sanzionato con la pena criminale] che pretende di punire anche il soggetto passivo, seppur malintenzionato, di una millanteria decettiva.
Come si è inteso osservare, c’è un punto che può dirsi tipico dell’esperienza attuale dei sistemi penali e, in specie, di quella «brulicante realtà» della legislazione penale «complementare» (latamente intesa): autentico «parco dei divertimenti» del diritto penale «politicamente dipendente». Generalizzazione non arbitraria in quanto nel dominio dell’idea di scopo il diritto penale diviene criterio di organizzazione della legge penale quale tecnica di controllo sociale22.
Le principali criticità cui oggi va incontro il diritto penale sono note: la flessibilizzazione, in ragione del predominio dell’«idea di scopo» ai danni dell’«idea di diritto»; la «moralizzazione», a causa della progressiva perdita culturale di «laicità» dell’ordinamento; la materializzazione, per il sempre più frequente ricorso a «valutazioni di contenuto» finalizzate ad elidere ogni (solo ritenuta) «lacuna della punibilità» e, in ambito processuale, ad aggirare le «garanzie difensive» proprie dello Stato di diritto; la soggettivizzazione, per la tendenza a privilegiare gli elementi espressivi dell’atteggiamento interiore dell’agente a scapito degli elementi oggettivi del fatto-reato.
Diversamente, ove si intenda discutere (soprattutto, in chiave applicativa) della «scienza dei limiti del potere punitivo» e, dunque, cercare di fissare (nel miglior modo umanamente possibile) «la linea di confine del diritto penale frammentario», anche attualmente non sembra possibile acquisire «nulla di meglio» di quanto offerto dalla teoria del bene giuridico. Come si è inteso sottolineare, è importante tuttavia che “il coinvolgimento dell’argomento bene giuridico…avvenga in modo asimmetrico, cioè non col fine di un’interpretazione estensiva”; ed in questo senso, individuata in sede interpretativa «l’unitaria» direzione di tutela normativamente prescelta (senza dar vita ad una personale moltiplicazione di direzioni nell’ottica della plurioffensività), ragionare nel senso della sola esistenza di «lacune nella non punibilità»: “il diritto penale è la negazione di ogni forza”, in quanto solo in una prospettiva negativa può essere neutralizzato il gran guasto della politicizzazione della legge penale. Il diritto penale è il «garante» contro l’uso arbitrario della coercizione, laddove la forza del diritto penale viene messa al servizio di «un fine particolare di governo»23.
L’attuale legislazione penale, ma anche buona parte della scienza penalistica, incuranti del monito di Wolfgang Naucke, procedono “secondo il principio: forma giuridica + bisogno di pena capace di incontrare il consenso della collettività = diritto penale”24. Al contrario, il diritto penale, quale strumento di garanzie per il cittadino e di tutela di beni giuridici «personali» (seppure ultraindividuali), deve continuare ad avvertire – ed in modo forte – il richiamo critico alla delimitazione concettuale e normativa.
5. Ed è questo il punto di inserzione della questione relativa ai profili di incostituzionalità della «nuova» disciplina del traffico di influenze per la violazione di obblighi sovranazionali.
Si è parlato, per vero stucchevolmente, della sussistenza di obblighi di incriminazione in materia, ma in realtà né la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa (art. 12), né la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (art. 18) sanciscono vincoli «assoluti» di incriminazione.
Quest’ultima «invita» gli Stati membri a «considerare» la possibilità di introdurre il delitto di trading influence (shall consider adopting).
La Convenzione del Consiglio d’Europa in ordine alla introduzione di nuovi tipi criminosi controversi – tra i quali, appunto, il traffico di influenze offre peraltro agli Stati-parte la possibilità di formulare riserve (a scadenza triennale). Ed in tal senso non pochi Paesi firmatari (tra essi Germania, Regno Unito, Svezia, Danimarca, ecc.) non hanno coltivato tale possibilità, vuoi, per il contrasto con i fondamentali principi penalistici di precisione, determinatezza ed offensività, vuoi per il rischio di contrarre «senza ragioni plausibili» l’attività del cd. lobbista.
Sciaguratamente, con la legge «Spazzacorrotti», le eccezioni-riserve via via formulate anche dallo Stato italiano non sono state ribadite alla scadenza del triennio e si è dato vita alla formulazione normativa del 2019 – apprezzata dal GRECO (Group d’Etats contre la corruption) con il suo rapporto del dicembre 2019 (Terzo ciclo di valutazione. Secondo Addendum al Secondo Rapporto di conformità sull’Italia, par. 26-28) – che sanziona come reato il traffico di influenze, sia attivo che passivo, anche quando la relazione tra il mediatore ed il funzionario pubblico è solo asserita in modo fraudolento.
La novella «Nordio», come visto, interviene su tale aspetto specifico, eliminando dalla portata applicativa della norma, analogamente a quanto statuito dalle Sezioni Unite, l’ipotesi della millanteria, che resterebbe punibile a carico del solo mediatore – ove ne ricorrano gli estremi – nello schema della truffa. Ed al riguardo v’è chi auspica, problematicamente, una pronuncia della Corte costituzionale, la quale dichiari l’illegittimità della norma che in violazione di obblighi internazionali (artt. 11 o 117, 1 comma, Cost.) restringe l’ambito di applicazione del previgente tipo criminoso, così da determinare la «reviviscenza» di tale tipo criminoso nella sua più ampia portata25.
Novella – si rileva ancora – che rischia di entrare in contrasto con la «Proposta di Direttiva europea sulla lotta contro la corruzione» (maggio 2013) che – pur nella sua attuale portata puramente politica – prevede (art. 10) un obbligo di incriminazione del traffico di influenze illecite sia nel caso di influenze «asserite» (non solo reali ed esistenti), sia in presenza di un qualunque vantaggio indebito (e non solo economico, come previsto dalla riforma Nordio) nel contesto di una «mediazione illecita» sostanzialmente indefinita (e non delimitata dai «lacci» della medesima riforma).
La novella, in sostanza, ripropone le «riserve» avanzate da molti Stati membri sul piano dei principi fondamentali del diritto penale.
Ciò che, tuttavia, maggiormente e più in generale rileva è che “lo schema-tipo di traffico di influenze abbozzato dalla Convenzione del CdE è estremamente vago e poroso. Il nucleo di disvalore si riduce al carattere improper dell’influenza che l’intermediario s’impegna a esercitare a favore del committente”26. Espressione del tutto vaga, che non viene neppure chiarita dall’Explanatory Report allegato alla Convenzione. La ratio, la scelta di politica criminale sarebbe, in definitiva, quella di sanzionare le condotte di coloro che, gravitando nelle aree del «potere» e mossi da corrupt intent (il traffico improper), cercano di ottenere vantaggi col dare vita ad una atmposphere of corruption. Una formula davvero «nebulosa» ed in chiave soggettivistica, del tutto incentrata sul piano dei disvalori dell’azione, ma che nulla di chiaro, preciso e determinato offre sul piano della tipicità e dei cd. disvalori di evento.
6. Il leit motiv «ce lo chiede l’Europa» non è, dunque, un buon argomento a sostegno del mantenimento in vita di un tipo criminoso che denuncia plurimi e gravi profili di incostituzionalità. Se, oltre che illiberale – in quanto in contrasto con i principi fondanti del diritto penale – il «suggerimento» si rivela privo di senso, esso, al pari dell’ordine criminoso, va respinto o, se troppo superficialmente già accolto, va prontamente riconsiderato.
In un contesto di sempre più diffusa quanto cieca cancel culture, al pari dell’insana scelta dell’abolizione dell’insegnamento dei classics27 non è augurabile la rinnegazione di quei principi – retaggio di secoli di «lotta» (questa sì tale) per la libertà e per le garanzie del cittadino – per il raggiungimento di un «fine particolare di governo» attraverso l’introduzione di una norma atteggiantesi a «strumento tecnico di controllo sociale».
La via, l’unica, per introdurre un tipo criminoso siffatto è quella di disciplinare finalmente ed in modo compiuto il fenomeno lobbistico. Come è stato fondatamente osservato, “nessun intervento sull’art. 346-bis è da solo sufficiente ad accrescere la trasparenza dei processi decisionali pubblici, né a chiarire quali siano i confini di liceità dell’azione esercitata dai portatori di interessi e dai rappresentanti dei gruppi di pressione presso la P.A.”28. Una regolamentazione organica del lobbying varrebbe ad offrire, nel rispetto del principio di riserva di legge, tipicità ed un contenuto offensivo ad una fattispecie sanzionatoria di condotte di «mediazione» non virtuosa, in quanto esercitata secondo modalità non conformi alla normativa di riferimento. L’applicabilità della norma scatterebbe, infatti, colla violazione delle regole specifiche ed espresse che disciplinano tale attività, dal momento che simile violazione si atteggerebbe in tal caso come inosservanza di un obbligo penalmente sanzionato. Così facendo, risulterebbero precluse interpretazioni «creative» suscettive di dilatare la sfera di operatività della norma medesima29.
*Professore ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata
[1] M. Gambardella, Abrogazione dell’abuso di ufficio e rimodulazione del traffico di influenze illecite nel ddl «Nordio» (la versione approvata dal Senato nel febbraio 2024), in Sistema penale, 11 aprile 2024.
[2] L. Gatta, La legge Nordio e il «soffocamento applicativo» del traffico di influenze illecite. Tra parziale abolitio criminis e profili di illegittimità costituzionale per violazione di obblighi internazionali, in Sistema penale, 16 luglio 2024.
[3] Cass. pen., Sez. Un., 29 febbraio 2024 (dep. 15 maggio 2024), n. 19357.
[4] P. Severino, Senza norme sul lobbismo difficile da abbattere l’illegalità, in Dir. pen. contemp., 21.6.2018. Sul tema v. l’ampia trattazione di R. Alagna, Lobbing e diritto penale. Interessi privati e decisioni pubbliche tra libertà e reato, Torino, 2018.
[5] F. Cingari, La riforma del delitto di traffico di influenze illecite e l’incerto destino del millantato credito, in Dir. pen. processo, 2019, 749 s. V. anche F. Mazza, Il delitto di traffico di influenze illecite: profili critici, in Giust. pen., 2016, II, 695 s.
[6] Cass. pen., Sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 11808, in Cass. pen., 2013, 2639, ha ritenuto che “il delitto di traffico di influenze di cui all’art. 346-bis c.p., così come introdotto dall’art. 1, comma 75, della l. n. 190 del 2012, è una fattispecie che punisce un comportamento propedeutico alla commissione di una eventuale corruzione e non è, quindi, ipotizzabile quando sia già stato accertato un rapporto, alterato e non paritario, fra il pubblico ufficiale ed il soggetto privato”.
[7] Sull’irrilevanza penale della «raccomandazione» v. Cass. pen., Sez. V, 18 maggio 2023, n. 30564, in Cass. pen., 2023, 1624.
[8] Così F. Cingari, op. cit., 754. Dello stesso Autore sull’applicabilità della norma in esame alle influenze dirette a condizionare l’esercizio delle funzioni parlamentari, v. Sulla responsabilità penale del parlamentare: tra corruzione ed influenze illecite, in Cass. pen., 2017, 176 s.
[9] Sul punto v. il recente lavoro di G. Ponteprino, Cronaca di un finale annunciato. In margini applicativi dell’art. 346-bis cp, in Dir. pen. proc. 2024, 876 s.
[10] Sez. Un. pen., 29 febbraio 2024 (dep. 15 maggio 2024), n. 19357.
11 Così G. Ponteprino, op. cit., p. 883.
12 Sulla nozione di «illecita mediazione» v. Cass. pen., Sez. VI, 8 giugno 2021, n. 40518, in Cass. pen., 2022, 129; Cass. pen. Sez. VI, 14 ottobre 2021, n. 1182, in Cass. pen., 2022, 1403.
13 Così, fra l’altro, V. Mongillo, Il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano. Crisi e vitalità di una fattispecie a tipicità impalpabile, in Sistema penale, 2 novembre 2022.
14 Sul punto v. M. Gambardella, op. cit.
15 Così V. Mongillo, op. cit.
16 Principio quello del nullum crimen sine lege pur invocato da G.L. Gatta, op. cit., in ordine alla rimodulazione dell’art. 346-bis cp da parte della riforma «Nordio».
17 M. Gambardella, op. cit.
18 M. Gambardella, op. cit.
19 M. Gambardella, op. cit.
20 Così R. Cantone, Nella lotta contro la corruzione l’Italia inserisce la retromarcia: abroga l’abuso d’ufficio, in Giustizia insieme, 17 luglio 2024.
21 R. Cantone, op. cit.
22 G. Marra, Il paradosso della legalità nella modernità penalistica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 731.
23 W. Naucke, Negatives Strafrecht, 4 Ansätze, Berlin, 2015, 132; F. Von Hayek, Liberalismo, Cosenza, 2012, 4 s.
24 W. Naucke, Strafrecht-Eine Einfurung, 2000, par. 7, n. marg. 65.
25 G.L. Gatta, op. cit.
26 V. Mongillo, op. cit., 6, il quale segnala che il predicato «improper», utilizzato nel testo inglese, “incomprensibilmente scompare nella traduzione italiana ufficiale della Convenzione”.
27 Sull’interessante tema della cancel culture v., da ultimo, M. Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e cancel culture, Torino, 2023; M. Bonazzi, Il naufragio di Ulisse, Un viaggio nella nostra crisi, Torino, 2023.
28 G. Ponteprino, op. cit., 887.
29 Sia pur sul diverso tema dell’abuso di ufficio v. F. Ramacci, Vecchi broccardi e nuove riforme per lo scontento di una giurista crepuscolare, in Studi senesi, 2021, 459 s.