TURBOLENZE ESEGETICHE IN TEMA DI SUCCESSIONE DI LEGGI PROCESSUALI PENALI NEL TEMPO: LA PERDURANTE INQUIETUDINE IDENTIFICATIVA NELLA RICERCA DELL’ACTUS CERTUS RETTO DA UN TEMPUS (NON) CERTUM – DI RAFFAELE PICCIRILLO
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TURBOLENZE ESEGETICHE IN TEMA DI SUCCESSIONE DI LEGGI PROCESSUALI PENALI NEL TEMPO: LA PERDURANTE INQUIETUDINE IDENTIFICATIVA NELLA RICERCA DELL’ACTUS CERTUS RETTO DA UN TEMPUS (NON) CERTUM
EXEGETICAL TURBULENCE IN THE MATTER OF THE SUCCESSION OF CRIMINAL PROCEDURAL LAWS OVER TIME: THE PERSISTENT IDENTIFYING RESTELESSNESS IN SEARCH OF THE ACTUS CERTUS GOVERNED BY A TEMPUS (NON) CERTUM
di Raffaele Piccirillo*
Cass. pen., Sez. II, ordinanza del 5 aprile 2024 (dep. 18 aprile 2024), n. 16365, Pres. Rago – Est. e Rel. Recchione – P.M. Gargiulo
Giudizio di appello – Decreto di citazione in appello – Termine a comparire – Disciplina transitoria – Tempus regit actum – Successione di leggi processuali penali nel tempo.
(Artt. 601 e 598-bis c.p.p.; art. 11 disp. att. c.c.; artt. 34 e 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150; art. 16 del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, conv., con modif., dalla l. 25 febbraio 2022, n. 15; art. 5-duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199; art. 17 del d.l. 22 giugno 2023, n. 75, conv., con modif, dalla l. 10 agosto 2023, n. 112, art. 17; art. 11 del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, conv., con modif., dalla l. 23 febbraio 2024, n. 18)
Questione penale n. 35719/2024: a. se la disciplina dell’art. 601, comma 3, cod. proc. pen., introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. g), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che individua in quaranta giorni, anziché inventi, il termine a comparire nel giudizio di appello, sia applicabile a far data dal 30 dicembre 2022 oppure dal 30 giugno 2024; b. se, in tema di successione di leggi regolanti il termine a comparire nel giudizio di appello, ai fini dell’individuazione della disciplina da applicare, debba farsi riferimento alla data di emissione del decreto di citazione in appello, considerata l’autonoma rilevanza dello stesso, ovvero a quella della deliberazione della sentenza impugnata.
Sommario: 1. Il focus della rimessione. 2. Nomofilachie a confronto. 3. La permanente sinusoide esegetica sull’actus e la perdurante claudicanza speculare del tempus. 4. Osservazioni per una prognosi conclusiva.
- Il focus della rimessione.
Il tema cruciale della questione concerne il dies a quo della operatività del novellato termine di comparizione nel giudizio d’appello introdotto dalla riforma c.d. “Cartabia” e la carenza, in essa, di una espressa disposizione transitoria disciplinante, sul punto, il passaggio dalla previgente disciplina normativa codicistica a quella sopravvenuta.
Prendiamo le mosse dalla vicenda giudiziaria.
La Corte di appello aquilana confermava la sentenza di condanna inflitta in prime cure all’imputato ricorrente per le ipotesi delittuose di danneggiamento e invasione di un edificio pubblico.
Avverso tale pronuncia giudiziale di secondo grado interponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo, fra l’altro e per quanto di precipuo interesse in questa glossa, violazione di legge processuale penale (art. 601, co. 3 e 5, c.p.p.): non sarebbe stato rispettato il termine di comparizione di quaranta giorni (e non già quello previgente di giorni venti) disciplinato dall’art. 601 c.p.p. nella corrente formulazione testuale introdotta con la poderosa novellazione legislativa operata dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150.
Con la qui annotata ordinanza, la Corte suprema di cassazione, nel sondaggio dei plurimi dicta nomofilattici avvicendatisi sull’argomento del rimanipolato termine a comparire nel giudizio d’appello, rilevava un invero duplice contrasto interpretativo, concernente: (i) la individuazione, durante la vigenza del regime transitorio previsto dall’art. 94[1] del su indicato decreto legislativo, della durata del termine a comparire indicato nel decreto di citazione a giudizio in appello e, pertanto, la identificazione del dies a quo di vigenza dell’art. 601 c.p.p., laddove giustappunto determina in giorni quaranta il termine di comparizione nel giudizio d’appello; (ii) la natura – autonoma ovvero di mera esecutività derivata della sentenza impugnata – del decreto di citazione a giudizio in appello e la sua conseguente (eventuale) idoneità a identificare la legge processuale penale applicabile al giudizio in osservanza dell’assioma di diritto intertemporale[2] per autentica antonomasia – tempus regit actum – incastonato nell’art. 11 delle cc.dd. “Preleggi”.
La Sezione Seconda rimetteva così al Supremo Collegio la duale quaestio juris.
1. Nomofilachie a confronto.
Il Collegio di legittimità rimettente, nel vagliare, appunto, i recentissimi fronti ermeneutici in contesa, ne operava una proficua ricognizione antologica, interrogandosi sugli epiloghi interpretativi del convulso turbinio normativo sviluppatosi dal varo del rito impugnatorio pandemico alla recentissima interpolazione operata dalla riforma c.d. “Cartabia”[3].
Un primo indirizzo nomofilattico[4] ha ritenuto – in forza di una lettura di stretta autenticità dell’art. 94 delle disposizioni transitorie del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, eseguita attraverso un rigoroso filtro esegetico della testualità dell’art. 11 delle cc.dd. “Preleggi” – che l’art. 601 c.p.p., nella sua corrente formulazione introdotta dall’art. 34, co. 1, lett. d), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, applicabile dalla data del 30 dicembre 2022 in forza della sintesi normativa del succitato decreto legislativo con l’art. 16, co. 1, del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito in legge 25 febbraio 2022, n. 15, e con l’art. 6 del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito in legge 30 dicembre 2022, n. 199: l’art. 94 delle citate norme di transizione, giacché privo di richiamo alcuno al novellato art. 601 c.p.p., sostituirebbe soltanto per un breve iato temporale il rito pandemico a quello neo-introdotto dalla riforma, individuando dunque l’actus di riferimento, per la definizione della legge processuale penale operante, nel decreto di citazione a giudizio e non già nella sentenza gravata, di guisa che l‘interpolato termine di comparizione di quaranta giorni andrebbe ritenuto vigente già dal 30 dicembre 2022.
Una contrapposta falange giurisprudenziale di legittimità[5], invece, pur muovendo dall’assunto dell’immediata applicabilità del rimodulato art. 601 c.p.p. sin dal 30 dicembre 2022, si è, con nutrita dovizia di scrutinio logico-dogmatico, addentrata nella incoercibile vexata quaestio della identificazione dell’atto processuale ancorante la disciplina normativa dei termini a comparire, mutuando l’iter logico-argomentativo percorso dal Supremo Consesso con la nota sentenza c.d. “Lista”[6] e per l’effetto statuendo che, in virtù del recente rimaneggiamento dell’art. 601, co. 3 e 5, c.p.p., la disciplina del termine di comparizione nel giudizio d’appello va individuata, in assenza di specifica norma transitoria, in funzione della data di emissione del provvedimento gravato, al cui regime processuale vigente ratione temporis la parte impugnante si sia accordata: pertanto, per gli atti di appello presentati avverso pronunce rese entro il 30 dicembre 2022, tale termine andrebbe conteggiato in giorni venti, come invero asserito in un paradigmatico dictum (sentenza c.d. “Chiacchio”) reso proprio dalla medesima Sezione rimettente in diversa composizione collegiale[7]. Tale arresto ha riproposto l’insegnamento autorevole delle Sezioni Unite su menzionate, per cui, ai fini di un corretto governo del principio tempus regit actum, l’actus «va focalizzato ed isolato, sì da cristallizzare la disciplina giuridica ad esso riferibile […]», al quale la parte interessata al gravame si sia affidata e che sia rapportato nella sua intima e indeclinabile ontologia agli altri pur coinvolti nell’iter procedurale, non potendosi invero esso identificare con l’intera sequenza di atti informanti il processo, pena la vanificazione e disapplicazione patologica dell’art. 11 disp. att. c.c., che quel principio incastona, sancendo la immediata ultrattività della nova lex.
A inesorabile definizione sillogistica di tale opzione esegetica, si è infine concluso che il decreto di citazione a giudizio in appello, giacché privo di una effettiva portata decisoria autosufficiente e connotato di solo ancillare strumentalità rispetto alla pronuncia impugnata, non gode di un’autonoma consistenza assiologica nella cornice processuale del giudizio d’impugnazione, ma si atteggia ad atto di mera natura esecutiva, avvinto in inestricabile correlazione ad altro actus presupposto – la sentenza di prime cure, appunto -, che lo legittima e perciò si erge a ratio temporis di identificazione del rito impugnatorio applicabile.
Ad autorevole sostegno di tale asserto, in quella pronuncia si è richiamato per analogia ermeneutica la recente decisione[8] del Massimo Collegio di legittimità sull’operatività del novellato art. 573, co. 1-bis, c.p.p., limitata alle sole impugnazioni per gli interessi civili proposte nei giudizi ospitanti atti di costituzione di parte civile intervenuti dopo il 30 dicembre 2022 e al cui assetto normativo processuale di riferimento anche ai fini impugnatori agli effetti civili la parte civile si sia affidata, poiché – proprio come nel caso di specie dell’art. 601 c.p.p. – non si è reputata applicabile una norma non sospesa expressis verbis dalla disciplina transitoria. Orbene, secondo tale esegesi, poiché sul riformato art. 601 c.p.p. non grava norma transitoria alcuna a postergarne l’entrata in vigore, esso deve ritenersi vigente sin dal 30 dicembre 2022 e l’atto individuante la norma applicabile ratione temporis non è rinvenibile nel decreto di citazione a giudizio, considerato non autonomo, ma nella sentenza impugnata e, pertanto, per gli appelli proposti contro pronunce di primo grado rese prima del 30 dicembre 2022 è legittimo individuare in venti giorni il termine per comparire nel giudizio di appello.
Ambedue gli indirizzi di legittimità su richiamati pongono, a supporto della concorde opinione sulla immediata applicabilità dal 30 dicembre 2022 della novella legislativa intervenuta sul termine di comparizione in giudizio d’appello, la testualità dello sviluppo diacronico della disciplina normativa transitoria in materia, la quale, nella sua genetica articolazione, richiamava l’art. 34, lett. g), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (che includeva anche la modifica del termine a comparire), mentre poi, nella posteriore enunciazione dell’art. 94, comma 2, del citato decreto legislativo, espungeva tale richiamo e inglobava il solo rinvio al rito emergenziale, così esplicitando una inequivoca e solare voluntas legis di non procrastinazione dell’entrata in vigore del nuovo termine di comparizione; tale conclusione appare corroborata, altresì, dalla escludibilità di qualsivoglia ipotesi di interconnessione fra il termine di comparizione e lo statuto emergenziale sub art. 23-bis d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 (convertito con modificazioni dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176), che, nel varare il rito cartolare quale forma canonica di trattazione del giudizio d’impugnazione, salva la eventuale istanza di discussione orale, prescinde dalla precisa individuazione del termine a comparire, convivendo, senza distinzioni applicative di sorta, sia con il più breve termine di comparizione previgente di venti giorni sia con quello successivo di giorni quaranta[9].
Se i due orientamenti nomofilattici sopra richiamati si differenziano, in estrema epitome, per la sola individuazione dell’actus (per il primo, il decreto di citazione in giudizio d’appello; per il secondo, la sentenza appellata) retto dal (condiviso) tempus legis e si accomunano per l’opinione di una immediata operatività del novellato art. 601 c.p.p. sin dal 30 dicembre 2022 a causa dell’assenza di una specifica disciplina transitoria sul punto, cionondimeno, in medias res, si è proposto un filone di legittimità sintetico, il quale, adottando «una lettura “sistematica”»[10] dell’articolato normativo in scrutinio, ha invece giudicato la nuova disciplina sub art. 601, co. 3 e 5, c.p.p. operante rispetto ai soli gravami susseguenti al 30 giugno 2024[11]: ciò, in forza di un vincolo di coerenza sistemico fra la perdurante vigenza del rito pandemico e l’entrata in vigore del novellato assetto normativo sui nuovi termini a comparire, perciò non (ancora) applicabili a causa della proroga del primo[12]. È stato all’uopo arguito che, non essendo i termini stabiliti dall’art. 598-bis c.p.p., cui rinvia l’art. 601 c.p.p., compatibili con il previgente termine di comparizione, ne consegue che l’art. 94, cpv., del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, nel procrastinare il rito impugnatorio emergenziale in surrogazione di quello di nuovo conio, ha per facta concludentia sospeso la operatività del rimaneggiato art. 601 c.p.p., il cui maggiorato termine a comparire è l’esito della novellata scansione procedurale organica, sicché una sua anticipata vigenza, per altro monomiale, risulterebbe dunque viziata da implausibile incoerenza di sistema. Tale approdo argomentativo, di matrice analogico-sistematica, sarebbe sostenuto proprio dalla Relazione illustrativa[13] del citato decreto legislativo, la quale avrebbe spiegato l’incrementato termine di comparizione a quaranta giorni quale ineludibile epilogo, per l’appunto, della nuova sequenza cronologica del contraddittorio cartolare e delle richieste di trattazione orale, ciò confortando la opportunità di una reductio ad unum ermeneutica della neo-introdotta disciplina normativa e la sua vocazione surrogatoria di quella pandemica.
Tale impostazione intermedia propugna: da una parte, che la riformulazione dell’art. 94 del citato decreto legislativo, operata dall’art. 5-duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199, abbia comportato la surroga dello «statuto»[14] impugnatorio emergenziale con quello previsto dalla riforma c.d. “Cartabia”: ancorché non procrastinata per espressa statuizione normativa, la vigenza del novellato 601 c.p.p. andrebbe dunque ancorata a quella dell’art. 598-bis c.p.p. (dal 30 giugno 2024); dall’altra, che l’actus di parametrazione della ratio temporis del rito applicabile sia ravvisato nel «primo atto di impugnazione»[15], in ciò – i.e.: nell’individuare nell’atto di gravame quello di ragguaglio del tempus rituale applicabile – non trovando tuttavia conforto normativo né analogico-sistematico nell’art. 89 delle disposizioni transitorie in esame[16]. Tale indirizzo, dunque, condivide con il secondo, dei due su analizzati, l’ancoraggio alla sentenza appellato dall’actus identificativo del tempus della disciplina rituale applicabile e differisce da ambedue per la fissazione del dies a quo (30 giugno 2024) di vigenza della novellata liturgia processuale.
Dalla sinossi dei tre indirizzi nomofilattici sopra richiamati, il Collegio ha prima facie osservato la coesistenza di due stalli esegetici: l’uno inerente alla identificazione della data di entrata in vigore del rimodulato art. 601 c.p.p. (laddove, appunto, fissa il termine a comparire nel giudizio in appello in quaranta giorni); l’altro afferente alla natura – se autonoma ovvero solo esecutiva – del decreto di citazione a giudizio in appello e la sua capacità individualizzante il regime rituale da applicare nel rispetto del principio scolpito nell’art. 11 disp. att. c.c. Inoltre, l’ordinanza rimettente ha scorto e perlustrato ulteriori antri sub-concettuali interstiziali, compressi a mo’ di un tesissimo file rouge, nelle pieghe del duplice conflitto interpretativo: a) ciascuna delle pronunce di legittimità ivi vagliate ha evidenziato l’omesso richiamo dell’art. 601 c.p.p. nella disciplina transitoria di sospensione (sino alla data del 30 giugno 2024) della vigenza della riforma c.d. “Cartabia” e pertanto un vacuum normativo – che ben avrebbe potuto essere colmato con interpolazioni legislative susseguenti – a gravoso impatto logico-sistematico; b) la claudicante e disomogenea diagnosi della natura della vocatio in judicium d’appello e, soprattutto, la destabilizzante pervasività della collisione sistemica del giudizio di mera gregarietà di quella (rispetto alla pronuncia gravata) sulla declinazione operativa del principio “tempus regit actum”: si pensi alla (pur remota) eccentrica evenienza della distonia cronologica di sistema, rispetto alla nuova scansione temporale imposta dalla riforma, nell’ipotesi di un atto di citazione in giudizio d’appello emesso prima del 30 giugno 2024 per una celebrazione processuale successiva a tale data e vertente su un gravame interposto avverso una sentenza antecedente al 30 dicembre 2022, per cui dovrebbe applicarsi il termine a comparire breve previgente di giorni venti, con conseguente asimmetria cronometrica fra i due riti (conviventi).
2. L’implacabile sinusoide esegetica sull’actus e la perdurante claudicanza speculare del tempus.
L’ordinanza in glossa rientra nel vasto florilegio giurisdizionale in tema di raccordo ermeneutico fra l’assioma inserito nell’art. 11 delle cc.dd. “Preleggi” e la successione di leggi processuali penali nel tempo non accompagnata, come nel caso di specie, da espresse previsioni normative di transizione; essa manifesta una pregevole sensibilità nel percepire del primo quella resiliente plasticità applicativa necessitata da una normazione intertemporale e transitoria processuale sempre più incalzante nel recente passato, con specifico riferimento al parametro dell’actus, la cui irta individuazione a quei fini e in quei confini è prodromica alla fissazione del tempus di sua reggenza.
Tale consapevolezza emerge in ordinanza con il prudente governo delle note coordinate nomofilattiche fornite dal Supremo Collegio con la sentenza c.d. “Lista”, osservando che, ferma la loro statuizione precipua, per cui, in assenza di specifica regola transitoria o intertemporale, lo statuto rituale delle impugnazioni accede alla fonte normativa regolatrice del tempo della pronuncia gravata, resta irrisolto il nodo ermeneutico dell’“actus ad quem” – l’ultimo “utile” della scansione rituale – assorbente quella pregressa disciplina processuale applicata alla sentenza impugnata.
Come insegnato dalle Sezioni Unite richiamate, l’ultrattività della lex prior presidia il fisiologico affidamento della parte alla prevedibilità e tendenziale immutabilità della cornice normativa genetica (ancorché la prima, per giurisprudenza eurounitaria[17], sia principio accessorio archetipico del diritto penale sostanziale e non già processuale), conducendo per l’effetto a statuire che l’appello agli effetti penali promosso dalla parte civile, prima dell’abolitio dell’art. 577 c.p.p.[18], mantiene la sua efficacia anche dopo la novella legislativa abrogativa e che, anche dopo le rimanipolazioni legislative all’art. 576 c.p.p., la parte civile ha facoltà di proporre appello contro la sentenza di proscioglimento agli effetti della responsabilità civile, restringendo tale principio alle ipotesi di inestricabile congiunzione fra diritto processuale applicabile e il suo atto genetico. È parimenti irrevocabile in dubbio che, come sostenuto nella ordinanza in esame, l’emissione del decreto di citazione a giudizio in appello sia presieduta (talora) da preliminari valutazioni giurisdizionali, quali quelle ex art. 132-bis disp. att. c.p.p., lumeggiandone una natura non esecutiva soltanto, ma decisoria e autonoma: corrobora tale conclusione il sopra richiamato rilievo esteso in ordinanza, per cui, ove il decreto di citazione venisse reputato atto non autonomo, «si porrebbero le basi per una possibile applicazione asincrona delle norme della riforma Cartabia: invero il giudizio di appello, quando la novella entrerà in vigore, dovrà essere regolato – deve ritenersi – in base alle nuove cadenze temporali, il che mal si concilierebbe con la ultrattiva operatività del termine di comparizione breve (si tratta di una situazione limite – ma possibile -, che riguarderebbe i processi celebrati dopo il 30 giugno 2024, sulla base di un decreto di citazione emesso prima di tale data, relativo all’appello di una sentenza pronunciata prima del 30 dicembre2022)». Ebbene, tale (irrefutabile) osservazione, in una prospettiva epistemologica formale, fungerebbe da fattore di falsificazione popperiana della tesi analogico-sistematica propugnata dal filone sintetico succitato, il quale sostiene la estensione applicativa appunto analogica dello statuto impugnatorio pandemico anche all’art. 601 c.p.p. novellato, non godendo i nuovi termini di comparizione di immediata applicabilità a causa delle proroghe delle disposizioni emergenziali, cui essi sono avvinti in «stretta correlazione»[19].
D’altronde, ben appare giustificata la accorta adozione, in ordinanza[20] delle direttrici esegetiche offerte dalla sentenza c.d. “Lista” in coordinamento con un recentissimo e articolato arresto di legittimità, in omologa materia, del Supremo Collegio[21], che per l’appunto – chiamato ad affrontare la quaestio juris se, in carenza di apposita norma transitoria regolantene la applicabilità, il neo-introdotto art. 573, comma 1-bis, c.p.p. operi, per dilatazione crono-analogica dell’art. 99-bis del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, dal 30 dicembre 2022 ovvero, in ossequio al principio sub art. 11 disp. att. c.p.p., da altra data – ha statuito che esso si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte in relazione a giudizi nei quali la costituzione di parte civile sia intervenuta dopo il 30 dicembre 2022, così ancorando all’atto di costituzione di parte civile e non già alla sentenza di primo grado il tempus della disciplina processuale operante.
Se, allora, a tale pronunciamento parrebbe ispirarsi (e viene all’uopo non a caso ivi mutuato) l’approdo interpretativo del secondo orientamento nomofilattico[22] scrutinato nell’ordinanza di rimessione de qua circa l’intorno temporale (30 dicembre 2022) di ragguaglio dell’operatività del riformato art. 601 c.p.p. – per l’effetto, escludendo persuasività argomentativa al (terzo) filone sintetico logico-sistematico (che lo ravvisa nel 30 giugno 2024, ut supra) -, ebbene, esso si connota per la solo parziale apprensione dogmatica di quella recente sentenza a Sezioni Unite, poiché se ne discosta in tema di identificazione dell’atto, che infatti ravvisa nella sentenza oggetto del gravame in forza della commistione del principio di diritto stabilito dalla sentenza c.d. “Lista”.
Di preminente utilità appare quindi scrutinare, in brevissima sintesi, alcuni dei recenti criteri discretivi per l’individuazione dell’actus[23] adottati ai fini della tendenziale[24] parametrazione della cornice temporale di suo governo procedurale.
Invero, proprio in precipuo riferimento alla questione di diritto risolta dal Supremo Collegio circa il regime transitorio adottabile per l’art. 573, co. 1-bis, c.p.p. di nuovo conio, si sono avvicendate plurime voci dottrinali, pronunciatesi sulla corretta individuazione dell’atto processuale di relativo riferimento ratione temporis[25]. Orbene, in linea con la sentenza c.d. “Lista”, si è osservato come l’atto in questione vada identificato nella stessa fonte processuale del diritto al gravame, individuata nella sentenza del pregresso grado di giudizio[26]; in diversa prospettiva, si è commentato che «se il diritto al controllo si correla al diritto alla giurisdizione, legittimato, in generale, dall’eventuale pregiudizio sofferto a causa della risoluzione del giudice precedente, evidentemente, è intorno all’atto di appello o al ricorso per cassazione ed al momento della relativa presentazione che bisogna costruire il profilo delle guarentigie del sistema dei controlli, e risolvere il problema epistemico posto dall’assenza di disposizioni transitorie»[27]; da ultimo, tracciava l’iter logico-giuridico poi ripercorso dall’arresto di legittimità del Massimo Consesso una ultima riflessione dottrinale, per cui il riformato articolo di legge in parola «non può che trovare attuazione per l’avvenire, e precisamente per tutti quei processi nei quali la costituzione di parte civile avverrà dopo l’entrata in vigore della riforma. Se, infatti, il danneggiato, nel momento in cui si determina per l’esercizio dell’azione civile, deve avere ben presente il possibile epilogo della stessa ai sensi del comma 1-bis dell’art. 573 c.p.p., e, pertanto, a tale fine, deve esercitare l’azione civile attraverso una costituzione di parte civile che deve rivestire i requisiti formali, previsti a pena di inammissibilità, dal nuovo art. 78 lett. d) c.p.p., è evidente che, senza questo preliminare atto, non può vedere sottratto il giudizio sull’impugnazione proposta per i soli interessi civili al suo “giudice naturale”, al giudice dell’impugnazione penale, al quale il legislatore fino al 29 dicembre 2022 ha attribuito, in via derogatoria, giurisdizione e competenza sulla impugnazione proposta ai soli effetti civili avverso la sentenza penale.»[28], ultimando dunque il ragionamento con l’identificazione nella costituzione di parte civile dell’atto processuale di discernimento del tempus reggente lo statuto impugnatorio adattabile all’art. 573, co. 1-bis, c.p.p.
Pare allora che, in materia di successione di leggi processuali penali nel tempo e relativo governo intertemporale, per una vorticosa relazione e reazione suriettiva, a ogni mutamento della variabile indipendente dell’actus quella dipendente costituita dal tempus patisce almeno una speculare incertezza identificativa, ingenerando quella «infinita vertigine dei possibili»[29] di irricevibile ospitabilità in un ordinamento giuridico-processuale positivo volto alla prevedibilità del precetto legale.
3. Osservazioni per una prognosi conclusiva.
Le dune euristiche su tratteggiate riflettono, con solare inequivocità, una tuttora insanata indifferenza compensativa, da parte del Legislatore, del vuoto normativo transitorio intorno al novellato art. 601 c.p.p., oggi al supremo vaglio di legittimità. Parimenti, la lettura comparata e in sinossi dei commentati dicta su tale specifico argomento palesa una irrisolta sintesi ermeneutica di univoca e definitiva soluzione dogmatica di diritto intertemporale sui criteri identificativi di actus e tempus.
Come sopra accennato, dei tre indirizzi nomofilattici sopra scrutinati e scandagliati nell’ordinanza in esame, quello sintetico e ad approccio analogico-sistematico[30] – in ossequio al quale la novella disciplina sub art. 601, co. 3 e 5, c.p.p. è applicabile ai soli gravami susseguenti al 30 giugno 2024[31] in virtù di un nesso di coerenza sistemico fra la perdurante vigenza del rito pandemico e l’entrata in vigore del novellato assetto normativo sui nuovi termini a comparire – patirebbe, come d’altronde fra le righe ravvisato nell’ordinanza rimettente, un subliminale, ancorché evocativo, stridore fra la ratio ispiratrice delle premesse metodologiche adottate (appunto di coerenza sistematica) e l’epilogo sillogistico ricavabile: il caso-limite eccezionale menzionato in ordinanza – per cui, laddove il decreto di citazione venisse reputato atto non autonomo, «si porrebbero le basi per una possibile applicazione asincrona delle norme della riforma Cartabia: invero il giudizio di appello, quando la novella entrerà in vigore, dovrà essere regolato – deve ritenersi – in base alle nuove cadenze temporali, il che mal si concilierebbe con la ultrattiva operatività del termine di comparizione breve […]» – costituirebbe paradigma epistemico di falsificazione della tesi sostenuta dal filone de quo circa il differimento della vigenza dei nuovi termini a comparire in appello al 30 giugno 2024.
D’altronde, l’invero limitatissimo novero delle ipotesi di autonomia decisoria intrinseca del decreto di citazione a giudizio in appello – a fronte invece dell’amplissima antologia di quelle deponenti per la sua natura di mero atto esecutivo derivato della sentenza gravata – non lascerebbe prognosi fauste sulla sostenibilità dell’epilogo decisorio del primo orientamento di legittimità scrutinato dalla ordinanza in oggetto, in forza del quale i rimanipolati termini di comparizione sub art. 603 c.p.p. troverebbero immediata applicazione nei giudizi d’appello introdotti da decreti di citazione emesso dal 30 dicembre 2022.
Sembrerebbe, allora, in una prospettiva prognostica ideale (senz’altro portatrice di una immanente sovvertibilità in concreto), che, fra gli arresti all’evidenza del Massimo Collegio di nomofilachia, sia assistito da basamento logico-giuridico di più solida persuasività argomentativa quello – il secondo affrontato in ordinanza – mosso da esigenze di sintesi pressoché algebrica fra le più recenti e prominenti pronunce delle Sezioni Unite in materia di diritto intertemporale del rito impugnatorio: “mettendo a sistema“ le coordinate ermeneutiche della quasi ventennale sentenza c.d. “Lista” e quelle dell’ultima pronuncia intervenuta sul regime procedurale applicabile all’art. 573, co. 1-bis, c.p.p., parrebbe insuperabile, in carenza di disposizione transitoria specifica, ancorare alla sentenza appellata la ratio temporis dello statuto processuale da adottare rispetto al nuovo art. 603 c.p.p., i cui incrementati termini di comparizione vigerebbero in funzione delle sentenze di primo grado emesse dal 30 dicembre 2022. Ciò troverebbe d’altronde positivo conforto normativo e analogico-sistematico nell’art. 89 delle disposizioni transitorie richiamate[32].
Quartum datur: ben sarebbe auspicabile un intervento legislativo di interpolazione in limine mediante il varo di una norma transitoria postuma, ciò che troverebbe nella recente storia successoria del diritto processuale penale almeno un dirimente precedente: l’art. 15-bis della legge 28 aprile 2014, n. 67, norma transitoria introdotta dalla legge 11 agosto 2014, n. 118, che impedì la germinazione di potenziali e probabilissimi contrasti nomofilattici sui profili intertemporali delle pronunce a carico di imputato dichiarato contumace prima della abolizione della contumacia e rese dopo di questa, ma prima del neo-introdotto regime transitorio[33].
*Avvocato del Foro di Napoli, Cultore di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e Segretario della Camera Penale di Napoli Nord.
[1] A mero ausilio mnemonico, se ne riporta la rubrica e il testo: «Art. 94 – Disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni e di giudizi di impugnazione. 1. Le disposizioni di cui all’articolo 30, comma 1, lettera i), si applicano decorsi sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto [Comma modificato dall’articolo 5-undecies, comma 1, del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla Legge 30 dicembre 2022, n. 199]. 2. Per le impugnazioni proposte sino al 30 giugno 2024 continuano ad applicarsi le disposizioni di cui agli articoli 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 9, e 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176. Se sono proposte ulteriori impugnazioni avverso il medesimo provvedimento dopo la scadenza dei termini indicati al primo periodo, si fa riferimento all’atto di impugnazione proposto per primo [Comma sostituito dall’articolo 5-duodecies, comma 1, del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla Legge 30 dicembre 2022, n. 199 e successivamente dall’articolo 17, comma 1, del D.L. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni dalla Legge 10 agosto 2023, n. 112. Da ultimo modificato dall’articolo 11, comma 7, del D.L. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 febbraio 2024, n. 18].».
[2] M. Malvicini, Appunti per uno studio sui rapporti fra disposizioni transitorie e diritto intertemporale tra fonti costituzionali e primarie, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2021, disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it, opera una pregevole crestomazia della dogmatica dottrinale in tema di distinzione fra diritto transitorio e diritto intertemporale, per la cui definizione di (p. 1129) «[…] insieme dei principî e delle regole che disciplinano la successione delle norme nel tempo determinando, in modo tendenzialmente stabile e perenne, i relativi rapporti di applicabilità costituisce quello che, in senso specifico, è denominato diritto intertemporale.» all’uopo, in nota n. 22, cita G. U. Rescigno, voce Disposizioni transitorie, in Enciclopedia del diritto, XII, Giuffrè, Milano, 1964, 221, altresì osservando come «In dottrina non si registra un orientamento condiviso in merito alla linea di demarcazione tra diritto transitorio e diritto intertemporale.», invitando alla consultazione, sul punto, di R. Quadri, Disposizioni transitorie, in Novissimo Digesto Italiano, V, Utet, Torino, 1960, 1132-1133, G. Grottanelli De Santi, voce Diritto transitorio, in Enciclopedia giuridica, Treccani, Roma, 1989, e E. Bindi, voce Diritto transitorio Postilla di aggiornamento, in Enciclopedia giuridica, Treccani, Roma, 2007. L’Autore, inoltre, ai fini definitori del diritto transitorio, mutua (p. 1124) le prestigiose didascalie seguenti: «[…] quelle norme che ”la legge sopravveniente detta espressamente al proprio fine di regolare il passaggio da una legislazione a un’altra” [citando, in nota n. 7, R. Tarchi, Disposizioni transitorie e finali, in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario alla Costituzione, Zanichelli-Foro, Bologna-Roma, 1995, 22 ss., etc.]; dall’altro, invece, sono intese come transitorie quelle norme che hanno un’applicabilità limitata nel tempo, a causa della previsione ab origine di un termine finale di efficacia.», citando, in nota n. 8, R. Guastini, Le fonti del diritto. Fondamenti teorici, Giuffrè, Milano, 2010, 286-287 (ID. Il tempo e le norme, in Studi in onore di Leopoldo Elia, tomo I, Giuffrè, Milano, 1999, 731) e Altri. Di intesa icasticità è altresì la definizione data, di diritto intertemporale, quale «“categoria di norme che hanno il compito di regolare altre norme, pertanto definite come ius sopra iura”» da O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis e G. P. Voena, Milano, 1999, p. 94, siccome citato da V. Valenti, La successione nel tempo delle leggi penali e processuali, in Cammino Diritto Rivista di informazione giuridica, reperibile sul relativo sito in web, e (come del resto richiamato, in nota n. 1, dall’Autrice in parola) in G. Trinti, il Principio del tempus regit actum nel processo penale ed incidenza sulle garanzie dell’imputato, Possibili prospettive di mitigazione, in Diritto Penale Contemporaneo, Fascicolo 9/2017, p. 16 ss., reperibile sul relativo sito in web. Ancora, sullo specifico argomento del diritto intertemporale afferente alle leggi processuali penali alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali, si segnala altresì M. Chiavario, Norme processuali penali nel tempo: una sintetica rivisitazione (a base giurisprudenziale) di una problematica sempre attuale, in La legislazione penale, 31 luglio 2017, rinvenibile sul sito internautico della rivista, nonché, per un inquadramento dogmatico-sistematico della materia, M. Montagna, (voce) Tempo (successione di leggi nel) (dir. proc. pen.), in Dig. disc. pen., Agg. ****, UTET, Torino, 2008, pp. 1082 ss.
[3] Per A. Panetta, F. Panetta, Giudizio di appello: identificazione del termine di comparizione e qualificazione del decreto di citazione alle Sezioni Unite la rimessione delle due questioni, in Diritto & Giustizia, fasc. 76, 2024, pp. 6 ss., «[…] la sentenza è interessante all’interprete perché (nel confuso quadro normativo), evidenzia un difetto di coordinamento tra lo statuto delle impugnazioni introdotte dalla riforma Cartabia con quello pandemico, che ha condotto – quello statuto – la giurisprudenza e non solo, a diverse soluzioni ermeneutiche. La questione riguarda dunque e pure il momento processuale al quale fare riferimento per valutare l’applicabilità della nuova disciplina: se sia la data della sentenza impugnata, quella del deposito dell’impugnazione, ovvero la data di emissione del decreto di citazione in appello. Il sistema che si è, così, venuto a delineare, pur animato dall’intento di “snellire le incombenze a carico degli uffici giudiziari e incrementare l’efficienza processuale, costringe l’interprete ad una non sempre facile opera ricostruttiva”».
[4] L’ordinanza di rimessione in glossa cita all’uopo Cass. pen., Sez. II, 2 novembre 2023, n. 49644, in C.E.D. Cass. n. 285674-01; Cass. pen. Sez III, 24 gennaio 2024, n. 5481, in C.E.D. Cass. n. 285945, e Cass. pen., Sez. IV, 16 novembre 2023, n. 48056, in C.E.D. Cass. n. 285796).
[5] Cass. pen., Sez. II, 5 Dicembre 2023, n. 6010, in C.E.D. Cass. n. 285970-01: vd. oltre in nota n. 7.
[6] Cass. pen., SS.UU., 29 marzo 2007, n. 27164, in C.E.D. Cass. n. 236537-01, della quale, per mero agio espositivo, se ne cita il precipuo e dirimente principio di diritto: «Ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio “tempus regit actum” impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione.».
[7] La sopra citata, in nota n. 5, Cass. pen., Sez. II, 5 Dicembre 2023, n. 6010, Pres. Rago, Rel./Est. Saraco, in C.E.D. Cass. n. 285970-01, per cui, appunto, «In tema di atti preliminari al giudizio di appello, per effetto delle modifiche apportate all’art. 601, comma 3, cod. proc. pen. dall’art. 34, comma 1, lett. g), d.lgs. 10 ottobre 2023, 150, la disciplina del termine a comparire dev’essere individuata, in assenza di norma transitoria, con riguardo alla data di emissione del provvedimento impugnato, e non a quella della proposizione dell’impugnazione, sicché, per gli appelli proposti avverso sentenze pronunciate fino al 31 dicembre 2022, tale termine è di venti giorni. (In motivazione, la Corte ha escluso che la disposizione transitoria di cui all’art. 94, comma 2, d.lgs. 10 ottobre 2023, 150, sia riferibile agli atti preliminari al giudizio di appello, con la conseguenza che, per l’individuazione della normativa processuale applicabile, occorre fare riferimento al principio “tempus regit actum”).».
[8] Cass. pen. SS.UU., 25 maggio 2023, n. 38481, in C.E.D. Cass. n. 285036-01.
[9] Esemplare su tale articolazione argomentativa è Cass. Pen., Sez. VI, 20 febbraio 2024, n. 12157, in C.E.D. Cass. n. 286190-01, che sintetizza l’esegesi dei due filoni in esami e che non affronta expressis verbis la questione della individuazione dell’atto processuale, cui ragguagliare il tempo di relativa reggenza.
[10] G. Spagnher, Sui termini della citazione a giudizio per il procedimento d’appello, in Diritto e Giustizia Il quotidiano di Informazione Giuridica, 30 aprile 2024, e in IUS Penale il Penalista, 3 maggio 2024, rinvenibili sui relativi siti web delle Riviste, il quale ivi osserva che «[…] quest’ultima lettura “sistematica” deve ritenersi preferibile in quanto riconduce ad unità il sistema e non appare incompatibile con la volontà del legislatore.».
[11] Dies a quo introdotto dalla proroga disposta dall’art. 11, co. 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, conv., con modif., dalla l. 23 febbraio 2024, n. 18.
[12] Tale indirizzo di legittimità è costituto, come la commentata ordinanza menziona, da Cass. pen., Sez. II, 31 gennaio 2024, n. 7990, in C.E.D. Cass. n. 286003-01, nonché da Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 2024, n. 5347, in C.E.D. Cass. n. 285912, dove si è statuito che «La nuova disciplina dell’art. 601, comma 3, cod. proc. pen., introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150 del 10 ottobre 2022, che individua in quaranta giorni, anziché in venti, il nuovo termine a comparire nel giudizio di appello, è applicabile alle impugnazioni proposte a partire dal 30 giugno 2024, per effetto dell’art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215. (In motivazione, la Corte ha precisato che vi è stretta correlazione tra la cessazione dell’efficacia del c.d. rito pandemico e l’entrata in vigore delle previsioni che disciplinano l’introduzione e lo svolgimento del giudizio di appello).».
[13] Relazione illustrativa aggiornata al testo definitivo del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 pubblicata in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n. 245 del 19 ottobre 2022 – Suppl. Straordinario n. 5), laddove (p. 168) si afferma che «Considerata la dialettica anticipata e scritta imposta dal rito “non partecipato”, vengono ampliati a quaranta giorni i termini dilatori (oggi di venti giorni) concessi per comparire e per la notifica dell’avviso d’udienza ai difensori, ai sensi dell’art. 601, commi 3 e 5, c.p.p.».
[14] Così è definito, con suadente resa lessicale, nella qui glossata ordinanza di rimessione.
[15] In tali sensi e termini si esprime la già richiamata Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 2024, n. 5347, in C.E.D. Cass. n. 285912, mentre la pur succitata Cass. pen., Sez. II, 31 gennaio 2024, n. 7990, in C.E.D. Cass. n. 286003-01, non esplicita la propria posizione sul punto e adotta la più generica formula motiva seguente: «diverse potrebbero essere le soluzioni per individuare l’atto rilevante» di volta in volta.
[16] Ad memorandum, se ne riporta, a titolo paradigmatico, il testo di specifico riferimento (comma 3): «Le disposizioni degli articoli 157-ter, comma 3, 581, commi 1-ter e 1-quater, e 585, comma 1-bis, del codice di procedura penale si applicano per le sole impugnazioni proposte avverso sentenze pronunciate in data successiva a quella di entrata in vigore del presente decreto. […]».
[17] L’ordinanza in commento cita all’uopo «C. Edu, 28 maggio 2020, Georgouleas e Nestoras c. Grecia; C. Edu, Sez. IV, Contrada v.-Italia, 14 aprile 2015, Corte Edu, Grande Camera, Del Rio Prada v. Spagna, 21 ottobre 2013; C. Edu, Grande Camera, Scoppola v. Italia, 17 settembre 2009; C; C. Edu, Kokkinakis. V. Grecia, 25 maggio 1993».
[18] Solo ad memorandum, l’art. 9 della L. 20 febbraio 2006, n. 46, ha abolito il diritto all’impugnazione della persona offesa costituita parte civile per i reati di ingiuria e diffamazione.
[19] Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 2024, n. 5347, in C.E.D. Cass. n. 285912, già citata in nota n. 12.
[20] Essa, con lucida riflessione epistemologica, commenta: «È vero che le Sezioni unite hanno affermato, in via generale, che “le impugnazioni”, ove non diversamente stabilito, sono regolate dal diritto vigente al tempo della sentenza impugnata. Occorre chiedersi, tuttavia, “fino a quale atto” della progressione processuale possa considerarsi operativa tale regola, e quale sia l’ultimo atto che possa considerarsi “attratto” dalla legge vigente al momento della pronuncia della sentenza impugnata.».
[21] Cass. pen., SS.UU., 25 maggio 2023, n. 38481, in C.E.D. Cass. n. 285036-01, citata in nota n. 8.
[22] Cass. pen., Sez. II, 5 Dicembre 2023, n. 6010, in C.E.D. Cass. n. 285970-01, qui in note nn. 5 e 7.
[23] Sul tema, si segnalano L. Castellucci, L’atto processuale penale: profili strutturali e modalità realizzative, in G. Dean (a cura di), Trattato di procedura penale. Soggetti e atti, diretto da G. Spangher, vol. I, tomo II, Torino, 2009, pp. 1-2, citato (p. 26) sul punto da G. Trinti, il Principio del tempus regit actum nel processo penale ed incidenza sulle garanzie dell’imputato, Possibili prospettive di mitigazione, in Diritto Penale Contemporaneo, Fascicolo 9/2017, pp. 15 ss., reperibile sul relativo sito internautico, e si ribadisce l’autorevole e prominente contributo dogmatico-assiologico in materia di O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis e G. P. Voena, Milano, 1999, già citato in nota n. 2.
[24] È invero jus receptum che la selezione dell’actus, nell’ambito dogmatico del diritto intertemporale, vada di volta in volta operata in concreto. Come annotato da P. Grillo, La contumacia ‘ sopravvissuta’, in Diritto & Giustizia, fasc. 23, 2016, pp. 64 ss., è «Una decisione da assumere caso per caso. Il principio secondo cui le orme processuali si applicano, qualunque sia il loro contenuto, alle situazioni pendenti al momento in cui entrano in vigore è senz’altro valido. Ma va preso con le pinze, «non potendosi ritenere che in campo processuale l’entrata in vigore di una nuova disposizione determini ipso facto la sua piena applicabilità». Sembra la negazione del noto principio poc’anzi espresso. In realtà, dietro questa affermazione, vi è un prudente apprezzamento, sintetizzabile nel rilievo secondo cui occorre sempre verificare qual è l’impatto delle nuove norme sulle situazioni esistenti al momento del loro ingresso nel sistema giuridico.», commentando un pregevolissimo arresto di nomofilachia in Cass. pen., Sez. I, 8 marzo 2016, n. 20485, in C.E.D. Cass. n. 266944-01, per cui «Sussiste l’obbligo di notifica dell’estratto della sentenza contumaciale, unitamente all’avviso di deposito, qualora il giudizio di merito, a carico dell’imputato dichiarato contumace anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, sia stato definito dopo tale data ma prima della entrata in vigore della disciplina transitoria, di cui all’art. 15 bis della stessa legge, introdotto dalla legge n. 118 del 2014, sempre che la dichiarazione di contumacia non sia dipesa dalla presa d’atto di una formale irreperibilità non derivante da colpa.».
[25] Una esaustiva analisi dei vari indirizzi ermeneutici susseguitisi è in M. Toriello, Riforma “Cartabia” ed impugnazioni per i soli interessi civili: le Sezioni Unite sulla non immediata applicabilità dell’art. 573, comma 1-bis, c.p.p., in Sistema Penale, 12 ottobre 2023, sul relativo sito web.
[26] M. Toriello, ibidem, che all’uopo cita in nota n. 18 C. Citterio, Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022), in Giustizia insieme, 13 gennaio 2023.
[27] F. Falato, Tempus regit actum, situazioni soggettive protette, processo penale. A proposito della riforma del regime dell’impugnazione per i soli effetti civili, in La giustizia penale, maggio/giugno 2023, III, 182, ripresa sullo specifico punto da M. Toriello, ibidem in nota n. 19, che, commentando l’Autrice, ne sintetizzava posizione, osservando che, giacché «[…] il novum interferisce sulla produzione degli effetti dell’actus, non limitandosi a modificarne la progressione nel procedimento, poiché, ponendo in capo al giudice un vincolo di metodo per valutare la fondatezza della pretesa, produce conseguenze sul piano dei risultati, e, quindi, della funzionalità dell’interesse lì coltivato, ha ritenuto necessario assicurare stabilità agli iter processuali in corso di svolgimento, escludendo la possibilità della immediata translatio nella sede civile, individuando l’actus nell’atto di impugnazione […]».
[28] G. Biondi, La riforma Cartabia e le impugnazioni. Le prime questioni di diritto intertemporale sull’applicabilità dell’art. 573, comma 1-bis, c.p.p. ai giudizi in corso, in Sistema Penale, 10 febbraio 2023, trovabile sul sito internautico della Rivista, citato in nota n. 20 da M. Toriello, ibidem.
[29] U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980.
[30] Vd. p. 5 e note nn. 9 e 11 di questo scritto.
[31] Dies a quo introdotto dalla proroga disposta dall’art. 11, co. 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, conv., con modif., dalla l. 23 febbraio 2024, n. 18.
[32] Vd. nota n. 16.
[33] Cfr. nota n. 24, laddove si è giustappunto citato un articolato arresto di legittimità, che risolse la questione su richiamata dell’ultrattività del regime processuale della contumacia, abolita con la succitata legge 28 aprile 2014, n. 67, rispetto ai giudizi di cognizione a carico di imputati dichiarati contumaci prima dell’entrata in vigore di quella legge e definiti dopo di essa, ma prima del varo della disciplina transitoria a quelli non applicabile ratione temporis, statuendo – si ripete per completezza argomentativa – che «Sussiste l’obbligo di notifica dell’estratto della sentenza contumaciale, unitamente all’avviso di deposito, qualora il giudizio di merito, a carico dell’imputato dichiarato contumace anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, sia stato definito dopo tale data ma prima della entrata in vigore della disciplina transitoria, di cui all’art. 15 bis della stessa legge, introdotto dalla legge n. 118 del 2014, sempre che la dichiarazione di contumacia non sia dipesa dalla presa d’atto di una formale irreperibilità non derivante da colpa.».