LA PROPORZIONALITÀ SANZIONATORIA AL COSPETTO DELLE CONFISCHE DEI PROVENTI: LEGALITÀ DELLA PENA, VECCHIE GEOMETRIE, NUOVE VOCAZIONI FUNZIONALI – DI MARIO ARBOTTI
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LA PROPORZIONALITÀ SANZIONATORIA AL COSPETTO DELLE CONFISCHE DEI PROVENTI: LEGALITÀ DELLA PENA, VECCHIE GEOMETRIE, NUOVE VOCAZIONI FUNZIONALI
di Mario Arbotti *
Cass. pen., Sez. V, 14 dicembre 2023 (dep. 27 febbraio 2024), ord. n. 8612, Presidente Vessichelli,
Estensore e Relatore Catena e De Marzo.
Confisca per equivalente – Proporzionalità sanzionatoria – Aggiotaggio – Ostacolo all’esercizio delle funzioni pubbliche di vigilanza – Questione di legittimità costituzionale.
(Art. 2641 c.c.; Artt. 3, 11, 27, commi 1 e 3, 42, 117 Cost.; Art. 1 Primo Protocollo addizionale CEDU; Artt. 17 e 49 CDFUE).
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641, primo e secondo comma, c.c., nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato, in relazione agli articoli 3, 27, primo e terzo comma, 42 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’articolo 1 del primo Protocollo addizionale alla Cedu, nonché agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento agli articoli 17 e 49, par. 3, CDFUE.
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Il principio di proporzionalità sanzionatoria ha conosciuto una progressiva evoluzione nella giurisprudenza costituzionale, liberandosi gradualmente dai vincoli del tertium comparationis, pur senza mai emanciparsi del tutto dalla sua dimensione comparativa. Alcuni “limiti” che ancora ne caratterizzano il sindacato, però, paiono attenuarsi notevolmente rispetto alle confische dei proventi, in ragione soprattutto della più marcata direzione finalistica degli strumenti ablatori. La recente questione di costituzionalità, allora, offre la possibilità alla Corte di proseguire in quel percorso di bonifica delle pene manifestamente sproporzionate.
The principle of proportionality of sanctions has been invested by that axiological overflow typical of fundamental principles, gradually freeing itself from the bonds of the tertium comparationis, although without ever completely emancipating from its comparative dimension. Some of the ‘constraints’ that still characterise the syndicate, however, seem to be considerably attenuated with respect to confiscations of proceeds, due above all to the more distinctive functional vocation of the ablatory instruments. The recent question of constitutionality thus gives the Court the opportunity to continue along that virtuous path of rectifying manifestly disproportionate penalties.
SOMMARIO: 1. La matematica del castigo emancipata da schemi geometrici: il caso delle confische dei proventi. – 2. Una recente quaestio legitimitatis della confisca per equivalente nei reati di aggiotaggio e ostacolo all’esercizio delle funzioni pubbliche di vigilanza. – 3. Proporzionalità sanzionatoria e teleologia “identitaria” degli strumenti ablatori. – 4. Overlapping protection, doppia pregiudizialità e ruolo del giudice comune. – 5. Passione punitiva e funzione di garanzia dei gatekeepers istituzionali.
1. La matematica del castigo emancipata da schemi geometrici: il caso delle confische dei proventi. — La matematica del castigo ( 1) rappresenta — è ben noto — uno dei maggiori problemi della scienza penalistica, quasi un “oggetto impossibile” (2) della sua dottrina, caratterizzata da uno statuto epistemologico inevitabilmente debole che rende pressoché impossibile individuare, una volta per tutte, una criteriologia oggettiva che fissi una corrispondenza certa e biunivoca tra reato e pena. Le grandezze sul campo, difatti, sono incommensurabili e lo iato — valoriale prima che normativo — tra interessi del reo sacrificati dalla pena e beni offesi dall’illecito rende irrealistica la prospettiva della ricerca di una pena “giusta” in assoluto (3).
Anche se emancipata da prospettive non sempre al riparo da inclinazioni eticizzanti — almeno in parte correlate alle teorie c.d. “assolute” — ed inquadrata in una più “laica” visione di scopo (4), l’individuazione di una pena perfettamente coerente — già in astratto — con i più variegati obiettivi preventivi risulta operazione non facile, sempre esposta al rischio di una successiva falsificazione empirica e, prima e più in alto, di un’insostenibile eccedenza degli scopi perseguiti sui vincoli assiologico-garantisti assicurati dal rispetto della colpevolezza e del principio di proporzione fra disvalore del fatto e reazione sanzionatoria (5).
D’altronde, la scelta sulla dosimetria sanzionatoria risulta strutturalmente relata alle valutazioni politico-criminali di competenza istituzionale del legislatore, essendo espressione di quelle opzioni intimamente politiche — portato della sua legittimazione democratica — che si traducono nell’esercizio di un potere discrezionale difficilmente sindacabile dagli organi che, nell’architettura del sistema costituzionale, sono chiamati a svolgere un (fondamentale) ruolo contro-maggioritario di garanzia.
Non sorprende, allora, l’atteggiamento timido — e a tratti deferente — che ha caratterizzato per lungo tempo il sindacato della Corte costituzionale sulle scelte relative al quantum punitivo, confinando il principio di proporzionalità sanzionatoria negli angusti limiti delle geometrie triadiche e delle “rime costituzionalmente obbligate” correlate al principio di eguaglianza (6). Le ragioni di un tale self-restraint sono ben note: l’assenza di un necessario medium comparativo e, dunque, di una soluzione costituzionalmente obbligata impone di arrestare il sindacato di costituzionalità per evitare di sconfinare in apprezzamenti di merito — rimessi alla discrezionalità esclusiva del legislatore — e in soluzioni creative precluse al Giudice delle leggi (7).
Al netto della natura plurivoca (8) — e a tratti terminologicamente confusa — e della non sempre agevole distinzione fra i vari moduli di giudizio (9), purtuttavia, anche il principio di proporzionalità sanzionatoria è stato nel tempo investito da quell’eccedenza assiologica tipica dei principi fondamentali (10) — assurgendo, quasi, al rango di vero e proprio Schranken-Schranke (11) —, la cui forza generativa (12), in uno con la necessità di tutela dei diritti fondamentali (13) e l’esigenza di non lasciare sguarniti spazi al controllo di costituzionalità, ha permesso una graduale emancipazione dal tertium comparationis e un’evoluzione del sindacato direttamente proiettato sulla “manifesta irragionevolezza intrinseca” dell’opzione punitiva (14). Il principio di eguaglianza/ragionevolezza (15) ha così assunto un connotato conformativo rispetto ad ogni parametro costituzionale (16), legandosi sempre maggiormente — all’interno delle geometrie della materia penale (17) — al principio di rieducazione (18) e — al di fuori dello ius puniendi stricto sensu inteso — ai diversi diritti costituzionalmente riconosciuti incisi dall’intervento statale (19). Ne è derivata una progressiva ascensione performativa del principio di proporzionalità sanzionatoria, non solo emancipato dalle strettoie di una valenza meramente argomentativa e assurto al rango di vero e proprio principio dimostrativo (20), ma, per di più, in grado di focalizzare il vaglio del Giudice delle leggi direttamente sulla scelta punitiva opzionata dal legislatore, al di là di rigidi schemi isonomici.
Una proporzione senza geometrie, ma non per questo priva di una dimensione comparativa. A ben vedere, pur chiarito il ruolo di mero “sostitutivo sanzionatorio” assegnato alla fattispecie comparativa — terminus ad quem e non più starting point del vaglio di proporzionalità (21) —, la natura del giudizio non pare smarrire del tutto quella dimensione relazionale correlata all’idea stessa di proporzionalità (22). L’assenza di un punto di riferimento nel sistema — di una “rima adeguata” — capace di offrire quantomeno la disciplina di risulta, in effetti, non solo accentuerebbe il rischio di un esito spiccatamente creativo della decisione, ma renderebbe impervio lo stesso percorso argomentativo, dovendosi a quel punto fondare su un apprezzamento valutativo — dall’indubbia cifra politico-criminale — rimesso in toto al Giudice costituzionale (23).
Le residue difficoltà connesse alla pars construens del vaglio di proporzionalità — nell’individuazione, in particolare, di una nuova cornice edittale da sostituire a quella dichiarata costituzionalmente illegittima — paiono, invece, almeno stemperarsi laddove il sindacato afferisca ad una confisca dei proventi. Tali misure, difatti, presentano una più spiccata “vocazione funzionale” rispetto alle altre tipologie sanzionatorie, che si può identificare essenzialmente — al netto delle peculiarità teleologiche dei singoli strumenti ablativi (24) — nel recupero dei vantaggi illeciti e nel ripristino dello status quo patrimoniale antecedente alla commissione dell’illecito. Un tale scostamento risulta senz’altro più agevolmente misurabile dal Giudice delle leggi, permettendogli di impostare il giudizio di non manifesta sproporzione in termini meno discrezionali e, pertanto, più penetranti (25).
Come meglio si dirà, tra l’altro, tale operazione è favorita dalla possibilità di stabilire un preciso collegamento tra la funzione ripristinatoria svolta dall’istituto e determinati elementi delle fattispecie normativa, la cui puntuale espunzione permette di ricalibrare la complessiva risposta sanzionatoria, sterilizzando il rischio di esiti manifestamente sproporzionati senza necessariamente impostare confronti con altre discipline “limitrofe”, anche nella parte ricostruttiva del giudizio (26). In altri termini, taluni “limiti” che ancora caratterizzano il vaglio di proporzione tra fatto e pena e che lo rendono vincolato a schemi comunque comparativi sembrano attenuarsi notevolmente rispetto alle confische dei proventi, in ragione tanto della più agevole possibilità di valorizzare la funzione di asset recovery assolta dallo strumento, quanto della facilità nell’impostare una relazione tra la predetta finalità e la fattispecie astratta che consenta di elidere solo quegli elementi normativi che determinano sistematicamente la sproporzione sanzionatoria (27).
In questo orizzonte concettuale, si inserisce la recente ordinanza n. 8612/2024 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione che — sulla scia delle acquisizioni già sedimentate nella giurisprudenza costituzionale, in particolare nella decisione n. 112 del 2019 — ha sollevato una questione di legittimità costituzionale della confisca per equivalente disciplinata dall’art. 2641, comma 2, c.c., per i reati di aggiotaggio e di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, nella misura in cui si estende obbligatoriamente anche ai beni utilizzati per commettere il reato. Su quest’ultima ordinanza occorre ora soffermare l’attenzione.
2. Una recente quaestio legitimitatis della confisca per equivalente nei reati di aggiotaggio e ostacolo all’esercizio delle funzioni pubbliche di vigilanza. — Nell’ambito di una travagliata vicenda giudiziaria concernente la pretesa realizzazione — tra gli altri — di reati di aggiotaggio e di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza, il Tribunale di Vicenza disponeva la confisca per equivalente, sino a concorrenza dell’importo di ben 963 milioni di euro, delle somme di denaro impiegate per la realizzazione dei suddetti illeciti, qualificate come mezzi impiegati per commettere i reati e coincidenti con i finanziamenti erogati da un istituto di credito ai propri clienti/soci per l’acquisto sul mercato primario e su quello secondario di azioni proprie, funzionali all’illecita alterazione del prezzo delle stesse e alla creazione dell’artificiosa rappresentazione dell’entità del patrimonio di vigilanza.
La Corte di appello di Venezia disponeva successivamente la revoca della misura ablatoria, evidenziandone la marcata frizione con i principi espressi tanto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 112 del 2019, quanto dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, si evidenziava come la confisca per equivalente dei mezzi impiegati per la realizzazione dell’illecito — stante la sua indiscussa natura “punitiva” — collidesse frontalmente con il principio di proporzionalità della pena, risolvendosi in una sanzione manifestamente sproporzionata, disancorata dal disvalore dell’illecito e dalla valutazione dei singoli contributi concorsuali, oltreché completamente priva di qualsivoglia relazione di “congruità” con i profitti realizzati. In altri termini, ad avviso del Giudice di merito, il severo apparato detentivo di riferimento — dotato di un’ampia forbice edittale — permetterebbe già di calibrare adeguatamente la sanzione all’entità dell’offesa arrecata, risolvendosi la confisca obbligatoria degli instrumenta sceleris in null’altro se non in un quid pluris afflittivo, in grado di incrinare definitivamente qualsivoglia rapporto di proporzione fra gravità del fatto ed entità della complessiva risposta sanzionatoria, tale da infirmare in radice ogni aspirazione autenticamente ripristinatoria dello strumento ablatorio.
Tali considerazioni si pongono alla base della scelta di disapplicare la previsione che imporrebbe l’applicazione obbligatoria della confisca dei beni utilizzati per commettere il reato, valorizzando — pur in assenza di un chiaro aggancio della disciplina nazionale al diritto eurounionale — i più recenti approdi della giurisprudenza della Corte di Giustizia (28) che — come è noto — ha aperto, in assenza di sufficienti margini ermeneutici per esperire un tentativo di interpretazione conforme, alla possibile disapplicazione da parte del giudice comune della disciplina interna in contrasto con il principio di proporzionalità sanzionatoria, riconosciuto in singoli atti dell’Unione o, più in generale, all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
La Corte di Cassazione — recependo sul punto i rilievi del Procuratore Generale — ha ritenuto, per converso, che la disapplicazione della normativa interna non fosse limitata ai soli profili necessari per consentire l’irrogazione di una sanzione proporzionata nel caso di specie e, dunque, non investisse tanto un problema di proporzionalità sanzionatoria nel caso concreto, quanto — più in generale — un vizio di manifesta sproporzione dell’assetto sanzionatorio concernente la disposizione normativa già nella sua formulazione astratta. Di talché, la disapplicazione operata dal giudice di merito si sarebbe risolta in una interpretatio abrogans della disposizione e non in un mero adeguamento ermeneutico della stessa orientato al principio di proporzionalità, con la scontata conseguenza di rendere quanto mai necessario percorrere l’itinerario dell’incidente di costituzionalità per porre rimedio al vulnus individuato.
Il Giudice di legittimità, allora, nella selezione dei parametri costituzionali rilevanti, fa anzitutto riferimento al combinato disposto degli artt. 3 e 27 della Costituzione, secondo il più aggiornato armamentario concettuale che concentra sul finalismo rieducativo della pena il referente concettuale alla stregua del quale svolgere il vaglio di proporzionalità. In questa prospettiva — come già accennato — liberato dalle geometrie del tertium comparationis, il sindacato si appunta sulla proporzione tra la sanzione comminata dal legislatore e la gravità del fascio di condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, nel prisma della funzione rieducativa costituzionalmente assegnata alla pena. L’istanza di proporzione, insomma, pare riflettere e soddisfare la specifica teologia imposta alla sanzione criminale, elevandosi a misura fondamentale del progetto rieducativo e, al contempo, a presupposto di legittimità della sanzione (29): nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono ad essere percepite come ingiuste dal condannato, risolvendosi in un concreto ostacolo al suo percorso di risocializzazione (30).
Altrettanto valorizzato è il principio di personalità della responsabilità penale, strettamente relato — sempre — alla necessaria funzione rieducativa della pena, che contrasta di regola con la previsione di pene fisse — come inevitabilmente è la morfologia sanzionatoria della confisca —, precludendo quel processo di individualizzazione del trattamento sanzionatorio funzionale non solo all’adeguamento della pena al disvalore oggettivo e soggettivo del fatto, ma, prima e più in alto, alle personali esigenze di risocializzazione del singolo reo.
I vizi di costituzionalità sono, poi, rinvenuti anche in relazione all’eccessiva limitazione del diritto di proprietà, sotto l’angolo di visuale degli artt. 3 e 42 Cost. nonché — a testimonianza di quel felice e sempre più vivace processo di cross-fertilization tra Carta Costituzionale e Carte europee dei diritti fondamentali (31) — degli artt. 1 Prot. Addiz. CEDU e 17 CDFUE. In questo orizzonte, il sindacato di proporzionalità — corroborato sempre dal vaglio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., operante in combinato disposto con la norma costituzionale che presidia il singolo diritto fondamentale — pare declinarsi in modo diverso rispetto al modello finora analizzato, liberandosi dalla prospettiva retrospettiva focalizzata sulla proporzione tra fatto commesso e pena irrogata (32) ed abbracciando il vaglio prospettico concentrato sulla sostenibilità dell’ingerenza pubblica rispetto al coefficiente di incisione del diritto messo a repentaglio dalla pena. La gravità della limitazione del diritto di proprietà, insomma, pare qui essere posta in raffronto agli obiettivi di prevenzione perseguiti dal legislatore, con uno sguardo proiettato necessariamente verso il futuro (33). In altri termini, nonostante i due paradigmi valutativi condividano un elemento — la limitazione di diritti fondamentali conseguenti alla pena —, si distinguono chiaramente per il secondo elemento comparativo, in un caso un fine preventivo — generale o speciale —, nell’altro un accadimento del passato rappresentato dal reato commesso.
Da ultimo, il Giudice di legittimità lamenta una violazione anche dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, in relazione agli artt. 11 e 117 Cost., valorizzando tanto le più recenti evoluzioni della giurisprudenza della Corte di Giustizia (34), quanto l’importanza assunta dal principio di proporzionalità nella complessiva disciplina eurounitaria delle misure di carattere patrimoniale (35), nel contesto della regolamentazione finalizzata a garantire il riconoscimento reciproco e, dunque, la circolazione e l’esecuzione delle decisioni delle autorità nazionali. Tali parametri osterebbero alla legittimazione di uno strumento ablativo in grado di determinare un sistematico peggioramento della situazione patrimoniale dei destinatari della misura, di gran lunga superiore a quello derivante dalla mera ablazione a somma zero tipica degli strumenti a vocazione autenticamente ripristinatoria.
3. Proporzionalità sanzionatoria e teleologia “identitaria” degli strumenti ablatori. — L’atteso intervento della Corte costituzionale non potrà non confrontarsi con il significativo precedente rappresentato della decisione n. 112 del 2019, dal quale pare possibile mutuare un ipotetico schema decisorio. In quel caso, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della confisca, diretta o per equivalente, prevista dall’art. 187-sexies d.lgs. n. 58 del 1998 per l’illecito amministrativo di insider trading nella parte in cui prevedeva la confisca del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, anziché del solo profitto (36), ancorando la dichiarazione di incostituzionalità alla violazione del principio di proporzionalità sanzionatoria delle sanzioni amministrative desumibile da una lettura sinergica dell’art. 3 Cost. e 42 Cost. (37).
Al di là delle prospettive di judicial minimalism (38) che paiono aver informato la decisione — nella scelta prudente di qualificare la sanzione come “amministrativa”, mantenendosi nel solco della precedente giurisprudenza senza sbilanciarsi su temi sensibili come l’estensione dell’art. 27 Cost. alle sanzioni amministrative e la reale natura, behind the appearances, della confisca allora in rilievo (39) —, il sindacato di costituzionalità è stato interamente focalizzato sulla natura manifestamente sproporzionata del complessivo assetto sanzionatorio, al di là di puntuali riferimenti — anche solo nella fase di individuazione dei rimedi — a tertia comparationis. Ad avviso del Giudice delle leggi, difatti, « la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati » (40).
Come è a facile arguire, a conclusioni non dissimili pare doversi giungere anche in relazione alla confisca dei beni utilizzati per commettere il reato disciplinata dall’art. 2641 c.c., in grado di determinare — in uno con le severe pene detentive previste per i reati di aggiotaggio e di ostacolo all’esercizio delle funzione di vigilanza — una sistematica alterazione del rapporto di proporzione tra gravità dell’illecito ed entità della risposta sanzionatoria, completamente disancorata — nel suo contenuto patrimoniale — da qualsivoglia dimensione di adeguatezza rispetto al concreto vantaggio economico ricavato dall’illecito (41). Per di più — come emblematicamente dimostrato proprio dal caso di specie — in materia di market abuse la sproporzione tra l’ablazione dei beni utilizzati per commettere l’illecito e il concreto vantaggio economico ricavato dallo stesso assume una dimensione così manifesta e sistemica da rendere percepibile ictu oculi la rottura di qualsivoglia equilibrio sanzionatorio tra reato e pena, atteso che le somme movimentate per determinare l’alterazione del prezzo degli strumenti finanziari sono — di regola — di gran lunga superiori al beneficio patrimoniale effettivamente ricavato dall’operazione. Al di là della vocazione ripristinatoria dello strumento — già di per sé frustrata da un’ablazione anche minimamente superiore al profitto locupletato —, persino l’inquadramento in una prospettiva “punitiva” della misura non può giustificare — al metro dei principi costituzionali — un sacrificio così marcatamente irragionevole dei beni del reo sottoposto a sanzione.
D’altronde, una soluzione analoga a quella già sperimentata dal Giudice costituzionale pare valere persino a fortiori per la confisca per equivalente oggetto degli attuali strali di costituzionalità. Tale modello ablatorio, in effetti, è senz’altro riconducibile — secondo un ben noto e costante orientamento giurisprudenziale (42) — alla nozione sostanziale di pena, considerata la totale assenza di qualsiasi rapporto di pertinenzialità tra res oggetto dell’ablazione e reato commesso che potrebbe — non senza incertezze e titubanze — ancora giustificarne un inquadramento come misura di sicurezza patrimoniale (43). Il principio di proporzionalità sanzionatoria, allora, può in questo caso operare nella sua massima proiezione assiologica, valorizzando il contatto diretto ed immediato con il finalismo rieducativo (44), senz’altro ostacolato da sanzioni che rompono manifestamente il normale equilibrio fra gravità dell’illecito e quantum e quomodo della risposta sanzionatoria.
Ulteriormente — e come già accennato — il vaglio di proporzione rispetto alle confische dei proventi pare liberarsi definitivamente da alcune difficoltà che continuano ordinariamente ad affliggerlo soprattutto con riferimento alla fase della nuova individuazione di una cornice edittale non manifestamente sporporzionata, rispetto alla quale — è ben noto — più facile è invadere lo spazio di discrezionalità riservato al legislatore nelle scelte di politica criminale.
A ben vedere, nonostante un giudizio di proporzione possa senz’altro essere formulato indipendentemente dalla predilezione per un’idea di scopo della sanzione — considerando esclusivamente il grado di afflittività voluta o, comunque, implicata —, il ruolo del Giudice costituzionale è senz’altro semplificato laddove la proporzione della sanzione venga apprezzata valorizzandone la particolare funzione (45). In effetti, inquadrato in una corretta prospettiva di scopo, il sindacato di proporzionalità può più agevolmente liberarsi dalle briglie comparative del tertium, essendo l’indefettibile discrezionalità della valutazione comunque ancorata ad una funzione previamente individuata e l’apparato argomentativo blindato da una maggiore “coazione alla razionalità” (Zwang zur Rationalität), in ragione della migliore “giustificabilità” e, a monte, della più agevole controllabilità critica della scelta (46).
In questo orizzonte concettuale, le confische dei proventi mostrano senz’altro una più accentuata teleologia “identitaria”, coincidente sostanzialmente con il recupero dei vantaggi generati dall’illecito ed il ripristino della situazione economica antecedente lo stesso. L’apprezzamento della generale — e a tratti comune — vocazione ripristinatoria, allora, permette di impostare più agevolmente il giudizio di proporzione, censurando quei soli elementi della fattispecie che, permettendo un’estensione dell’ablazione che trascende manifestamente il recupero dei soli vantaggi indebitamente locupletati, finiscono per incrinare sistematicamente l’equilibrio fra gravità dell’illecito e reazione sanzionatoria.
Il compito della Corte, tra l’altro, è significativamente favorito dalla possibilità di riportare la fattispecie in un clima di compatibilità con il principio di proporzione sanzionatoria senza necessità di individuare una nuova — e costituzionalmente adeguata — cornice edittale. In questi casi, difatti, l’equilibrio punitivo può essere restaurato focalizzando la dichiarazione di incostituzionalità su singoli elementi normativi della fattispecie — i beni utilizzati per commettere il reato — la cui elisione permette agevolmente di superare la sistematica disarmonia sanzionatoria.
Alla luce delle considerazioni che precedono, allora, la questione di costituzionalità pare già instradata verso un esito di accoglimento che permetterebbe — sulla scia dell’insegnamento di Corte costituzionale n. 112 del 2019 — di rimuovere dall’oggetto della confisca i soli beni utilizzati per commettere il reato, considerato che — come già accennato — in materia di abusi di mercato questi ultimi lungi dal potere essere identificati nei tradizionali instrumenta sceleris, coincidono con le ingenti somme di denaro movimentate per l’alterazione del prezzo degli strumenti finanziari, di gran lunga superiori — di regola — rispetto al profitto effettivamente ricavato dal reo (47).
4. Overlapping protection, doppia pregiudizialità e ruolo del giudice comune. — La Corte costituzionale si trova, ormai da tempo, ad operare all’interno di un ordinamento multilivello, impegnata nel confronto costante con le Corti sovranazionali — sempre maggiormente attive nel ruolo di giudici dei diritti e nella tutela di materie lato sensu costituzionali (48) — e, di riflesso, con i giudici comuni, il cui protagonismo ermeneutico è stato sollecitato proprio dal “nuovo” ruolo istituzionale riconosciutogli dalle Corti europee, in particolare — è ben noto — dalla Corte di giustizia (49).
Nell’ambito di un processo di progressiva ascesa dello standard di tutela dei diritti fondamentali, in effetti, situazioni ricorrenti di overlapping protection e di doppia pregiudizialità hanno imposto un progressivo ripensamento del ruolo “monologico” del Giudice delle leggi, sollecitando l’abbandono di approcci “autarchici” nella tutela dei diritti fondamentali e l’apertura verso un costante dialogo con gli altri organi giurisdizionali — quasi una nomofilachia integrata, mediante l’osmosi fra parametri nazionali e parametri europei (50) —, illuminato dall’autorevolezza del proprio operato e dalla forza argomentativa delle proprie decisioni (51).
In materia di proporzionalità sanzionatoria, in particolare, significative spinte propulsive sono emerse dalla recente — e a tratti sorprendente (52) — evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia che — con un manifesto overruling rispetto alla composizione di interessi raggiunta in CGUE, 4 ottobre 2018, C-384/17, Link Logistic N&N — nella decisione CGUE, 8 marzo 2022, C-250/20, NE ha riconosciuto il carattere incondizionato dell’obbligo di prevedere pene proporzionate, il suo effetto diretto e, conseguentemente, la possibilità per le autorità amministrative e per i giudici nazionali di disapplicare il diritto interno in contrasto con tale obbligo, limitata a quei profili di disciplina che impediscono l’irrogazione di una sanzione proporzionata (53).
Una soluzione a tratti rivoluzionaria che se da un lato indubbiamente concorre ad innalzare lo standard di tutela del diritto fondamentale a non subire pene sproporzionate (54), dall’altro non pochi problemi pone al cospetto del principio di legalità dei reati e delle pene, della certezza del diritto e della parità di trattamento. Profili evidentemente non ignoti al giudice europeo che, purtuttavia, nel valorizzare il mero volet individual-garantistico di tali principi, ha di norma buon gioco nel ribadire l’assoluta liceità della manovra disapplicativa, tesa, in ogni caso, a ridurre la sanzione concretamente irrogata al consociato e, dunque, proiettata in una dimensione esclusivamente in bonam partem (55).
Non sfugge, però, che un’impostazione metodologica siffatta — da sempre affine al modus operandi delle Corti sovranazionali — finisce inevitabilmente per relegare in una condizione di subalternità il versante ordinamentale — e la valenza politica — del principio di legalità in materia penale, come norma fondamentale sul riparto della potestà normativa tra legislatore e giudice (56). Una diversa prospettiva che non può essere ignorata dal Giudice costituzionale, in quel percorso di progressivo ri-accentramento del sindacato sulla tutela dei diritti fondamentali che ha inaugurato una nuova “stagione” del controllo di costituzionalità (57), orientata a riaffermare la centralità del Giudice delle leggi tanto in una prospettiva istituzionale, nella concorrenza con le spinte centrifughe della giurisprudenza europea, quanto sul versante ordinamentale, mediante l’adozione di soluzioni che garantiscano effetti erga omnes e, pertanto, sterilizzino sul nascere diversità di trattamento e distonie sistemiche.
In questo orizzonte concettuale si inserisce anche l’ordinanza in commento che, nell’evidenziare diffusamente la concorrenza di rimedi giurisdizionali potenzialmente attivabili, preferisce percorrere la strada dell’incidente di costituzionalità, valorizzando le acquisizioni sedimentate nella giurisprudenza della Corte costituzionale (58) in forza delle quali — fermo restando il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 11 della Costituzione — il principio di legalità, anche nella sua proiezione politica e ordinamentale, si colloca tra i principi supremi dell’ordine costituzionale, sul cui presidio è vigile il sindacato del Giudice delle leggi. In altri termini, le esigenze di legalità della pena, certezza del diritto e, più in particolare, di predeterminazione dei criteri orientativi ai quali il giudice comune deve attenersi per apprezzare l’esistenza di un’eventuale disarmonia punitiva, inducono la Corte di Cassazione a preferire l’itinerario della quaestio legitimitatis, escludendo la possibilità di operare un’applicazione prevedibile negli esiti — e pienamente rispettosa della separazione fra i poteri — del principio di proporzionalità sanzionatoria, perlomeno qualora, come nel caso di specie, tale soluzione possa condurre a disapplicare in concreto una misura che il legislatore prevede come obbligatoria, senza lasciare al giudice alcuno spazio di graduazione.
Del pari, la preferenza accordata all’incidente di costituzionalità rispetto all’itinerario di un possibile rinvio pregiudiziale (59) risulta motivata aderendo alla nota soluzione elaborata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 269 del 2017 — e da allora progressivamente raffinata e in parte smorzata negli esiti (60) —, di dare preferenza, in caso di “doppio contrasto”, alla questione di legittimità costituzionale e al conseguente giudizio erga omnes condotto « alla luce dei parametri interni (ex artt. 11 e 117 Cost.) ed eventualmente di quelli europei, secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla […] Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni » (61). Del resto, un successivo dialogo con la Corte di giustizia potrà sempre essere attivato dal Giudice costituzionale, in grado, tra l’altro, di rappresentare al massimo livello di autorevolezza istituzionale e argomentativa le istanze provenienti dai giudici comuni, agendo quale « miglior possibile veicolo di senso per la tradizione giuridica e per i principi costituzionali dell’ordinamento nazionale nel dibattito sovranazionale » (62).
Una scelta che — nel complesso — si lascia senz’altro preferire, se non altro al fine di assicurare una maggiore eguaglianza e certezza di soluzioni in ordine alla penetrazione della norma europea nell’ordinamento interno (63), evitando, al contempo, composizioni di interessi estemporanee e a macchia di leopardo, rimesse alla mera discrezionalità del singolo giudice, inevitabilmente foriere di una caoticità applicativa che non pare giustificabile alla luce del solo orientamento in bonam partem della soluzione opzionata (64).
5. Passione punitiva e funzione di garanzia dei gatekeepers istituzionali. — Il lungo percorso di progressiva ascensione del principio di proporzionalità sanzionatoria ha nell’ultimo periodo conosciuto diversi slanci di decisiva importanza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, assurgendo sempre maggiormente al ruolo di topos privilegiato per vagliare la legittimità costituzionale delle scelte sanzionatorie operate dal legislatore.
In questo itinerario si inserisce, da ultimo, anche la sentenza n. 46 del 2024 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 646, primo comma, c.p., come modificato dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui prevedeva la pena minima di due anni di reclusione per il delitto di appropriazione indebita. Un innalzamento del minimo edittale — in contrasto con il dato di comune esperienza dell’eterogeneità di condotte dotate di disvalore assai differenziato potenzialmente abbracciate dalla fattispecie incriminatrice — che la Corte ha ritenuto sprovvisto di qualsiasi plausibile giustificazione e, già solo per questa ragione, costituzionalmente illegittimo. Nonostante il legislatore goda di ampia discrezionalità « nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato » (65) — rammenta la Corte — tale « discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità » (66). Il controllo sul rispetto di detti limiti spetta, appunto, alla Corte costituzionale che — prosegue ancora la sentenza — « è tenuta ad esercitarlo con tanta maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari » (67).
Considerazioni non dissimili paiono valere anche quando — come nel caso di specie — in gioco non vi sia la sola libertà personale — già compressa dal severo apparato detentivo previsto per le fattispecie di aggiotaggio e ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza — ma anche il patrimonio, inteso non solo nella sua dimensione minimale e statica, di complesso di beni a disposizione dell’individuo, ma, prima e più in alto, nella sua proiezione personologica e dinamica, quale insieme dei rapporti suscettibili di valutazione economica funzionali alla piena realizzazione esistenziale della persona.
La recente ordinanza del Giudice di legittimità, allora, offre alla Corte la possibilità di avanzare ulteriormente nel virtuoso percorso di consolidamento ermeneutico delle capacità performative del principio di proporzionalità sanzionatoria che, liberato dai vincoli schematici di un inquadramento rigidamente triadico, pare permettere al meglio un sindacato vigile e penetrante sulle scelte punitive intrinsecamente e manifestamente irragionevoli.
Nella consapevolezza che in una stagione oramai tristemente nota di populismo penale (68) e di passione punitiva (69) — anche rispetto al patrimonio, la cui capacità di orientamento delle scelte di politica criminale è oggi talmente rilevante da aver spinto la dottrina a parlare di un’età dei proventi (the age of proceeds) (70) —, il necessario spazio contro-maggioritario di verifica delle scelte sanzionatorie non può rimane completamente disarmato, ma, al contrario, necessita di gatekeepers istituzionali sempre maggiormente sensibili alle ragioni di valore sottese alla tutela delle garanzie individuali e dei diritti fondamentali della persona.
(*) Dottorando di ricerca in Diritto Penale presso l’Università di Bologna.
(16) In questi termini, M. Cartabia, Ragionevolezza e proporzionalità, cit., 463.
(21) In questi termini, V. Manes, Proporzione senza geometrie, in Giur. cost., 2016, 2110.
(23) Come rilevato da V. Manes, Proporzione senza geometrie, cit., 2110 s.
(30) Sul punto, ex multis, sia sufficiente il rinvio a Corte cost., 19 marzo 2012, n. 68.
(33) In questi termini, sostanzialmente, N. Recchia, Il principio di proporzionalità, cit., 233.
(34) In particolare, CGUE, 20 marzo 2018, C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri, § 56.
(39) Analoghi rilievi in F. Mazzacuva, Il principio di proporzionalità delle sanzioni, cit., 5 s.
(40) Corte costituzionale 6 marzo 2019, n. 112; § 8.3.6.
(42) Da ultimo ribadito in Cass. pen., Sez. Un., 31 gennaio 2023, n. 4145.
(44) Cfr., sul punto, F. Palazzo, L’illegittimità costituzionale della legge penale, cit., 12.
(47) Cfr., ad esempio, E. Amati, La confisca negli abusi di mercato, cit., 1 s.
(56) Analogamente sul punto N. Recchia, ibidem.
(61) Cfr. Corte costituzionale sentenza 14 dicembre 2017, n. 269, § 5.2.
(64) In argomento, cfr. le osservazioni di M. Pelissero, op. cit., 1371 ss.
(65) Cfr. Corte costituzionale 22 marzo 2024, n. 46, § 3.1.
(66) Corte costituzionale 22 marzo 2024, n. 46, ibidem.