UN GARANTE DEI DIRITTI DELLE PERSONE SOTTOPOSTE AD INDAGINE E PROCESSO – DI GIORGIO VARANO
VARANO – UN GARANTE DEI DIRITTI DELLE PERSONE SOTTOPOSTE AD INDAGINE E PROCESSO.PDF
UN GARANTE DEI DIRITTI DELLE PERSONE SOTTOPOSTE AD INDAGINE E PROCESSO
di Giorgio Varano*
Il processo mediatico rappresenta una falsa traslitterazione del processo penale nell’alfabeto delle persone comuni. Il mancato rispetto della presunzione di innocenza è il prodotto del declino del processo penale nella società a causa di molteplici fattori: il nuovo linguaggio della disintermediazione, l‘involuzione della politica, la regressione della società in tribù, lo snaturamento del giornalismo. Sull’onda di un populismo divenuto paradigma di ogni agire politico, si è così aperto nel tempo un vasto mare al processo mediatico. I rimedi legislativi tardivamente approntati non sembrano poter incidere sul rispetto della presunzione di innocenza, che può essere tutelata solo riportando il processo penale alla sua funzione. Una proposta per una tutela “indiretta”: l’istituzione del Garante dei diritti delle persone sottoposte ad indagine e processo.
1. Premessa. 2. Il linguaggio come “principio ordinatore della realtà”. 3. La politica nella “democrazia dell’imputazione”. 4. La tribù social e il “clan giustizialista”. 5. Il giornalismo, tra tuttologia e imprenditoria. 6. Il decreto legislativo per l’attuazione della Direttiva europea sulla presunzione di innocenza. 7. L’istituzione di un Garante dei diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo.
- Premessa.
Il processo mediatico rappresenta una falsa, ma suggestiva, traslitterazione del processo penale nell’alfabeto delle persone comuni. La voracità con la quale il processo mediatico ha divorato quello penale non è conseguenza solo della propria forza demolitrice, ma di una serie di cambiamenti che sono al tempo stesso causa ma anche conseguenza del declino del processo penale nella società e del suo progressivo imbarbarimento.
Il cambiamento radicale del linguaggio, dovuto anche alla disintermediazione ed all’involuzione della politica e dei corpi sociali, lo snaturamento della comunicazione e del giornalismo, hanno inciso sulla natura e sull’idea stessa del processo penale, aprendo la strada alla sua mediatizzazione sull’onda di un populismo penale divenuto paradigma di ogni ragionamento sui fatti della giustizia, con gravi squilibri all’interno della intera società.
Il processo, così come la giustizia, sono infatti parte integrante del vivere sociale e quindi termometro della qualità dei rapporti sociali. Non a caso il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.) è sancito nella parte relativa ai rapporti civili e non in quella relativa all’amministrazione della giustizia. L’onda populista ha stravolto prima la grammatica dei rapporti sociali e poi il senso del processo penale; lo svilimento dei legami sociali è infatti una delle caratteristiche del populismo, perché «pensa che ciò che costituisce la coesione interna di una società sia la sua identità e non la qualità interna di rapporti sociali[1]».
Una riflessione più ampia sulle cause di questo stravolgimento può avere ad oggetto elementi apparentemente ultronei rispetto al processo. Il linguaggio, la società e il giornalismo, benché “esterni” al processo penale, sono in realtà uno specchio nel quale si possono vedere le conseguenze che il tradimento del senso e dello scopo del processo penale hanno portato nel vivere civile, e le ragioni e le conseguenze del grande successo che il processo mediatico persegue nella collettività.
- Il linguaggio come “principio ordinatore della realtà”.
L’importanza del linguaggio, nel suo essere “gergo dell’autenticità” quindi “principio ordinatore della realtà” e mezzo di condivisione della stessa, fu colta già dai nostri costituenti[2]. Nel corso degli anni, con una notevole accelerazione nell’ultima decade, complici un certo analfabetismo funzionale e l’esigenza di rispondere tempestivamente all’emotività dell’opinione pubblica (in questo modo alimentata a dismisura), il linguaggio di uso corrente non solo è stato banalizzato, ma è diventato un mero strumento di catalogazione, un generatore di risposte emotive che finisce con l’impedire il dialogo e un approccio razionale ai problemi.
La scarsa capacità di lettura analitica[3], e quindi la incapacità di comprensione – ma anche di scrittura – di un testo che non sia un semplice titolo o slogan, unita alla bulimia informativa che viene appagata tramite la lettura sui social network di frasi brevi, titoli o slogan, ha come conseguenza il mancato approfondimento dei testi e l’incremento dell’emotività come primo, e spesso unico, criterio di valutazione e di comprensione della realtà.
A questo occorre aggiungere che nello “spazio” della disintermediazione, rappresentato dal web in tutte le sue ramificazioni (social network, sistemi di messaggistica, chat, canali tematici, etc.), ognuno di noi entra con le proprie competenze, diventando a sua volta un media che diffonde notizie, una sorta di “essere biomediale”[4]. Tuttavia, maggiori sono le competenze, maggiori sono i dubbi che sorgono nel fruitore dello spazio della disintermediazione, e, viceversa, minori sono le competenze ed il livello di istruzione e di conoscenza tecnica e maggiori saranno le certezze che si radicalizzeranno[5]. Provare ad invertire questa tendenza, non solo nell’ambito del dibattito sulla giustizia penale, rappresenta uno sforzo enorme dai risultati molto modesti, soprattutto perché tutte le forze politiche alimentano o inseguono questo linguaggio, pur dichiarandosi a turno – secondo convenienza – “garantiste”. Dimenticano che «gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni che hanno delle cose»[6], e che diffondere idee distorte sulla giustizia penale e sul processo prima o poi presenta il conto anche ai diffusori, perché in questo meccanismo passare da giudici ad imputati è abbastanza repentino e incontrollabile.
Questa realtà sociale, radicalizzata dal meccanismo della disintermediazione (non solo in tema di informazione), comporta inoltre, nel campo penale, un’esaltazione della fase delle indagini e la visione del processo come un ostacolo alla immediata soddisfazione di quello che viene ritenuto il “bisogno di giustizia”[7].
Questo nuovo linguaggio, utilizzato non solo dalla Politica in generale ma anche dalle istituzioni, riduce drasticamente i margini della riflessività in tema di giustizia, alimentando nei cittadini soltanto certezze da un lato e paure dall’altro, e rendendo impossibile qualsiasi dialogo con quelli che potremmo definire i “radicalizzati”, coloro che guardano con sospetto chiunque abbia competenze specifiche. Si crea, quindi, quello che in comunicazione viene definito il “gioco senza fine”: quanto più qualcuno animato da buone intenzioni si rivolge a coloro che hanno certezze e paure, tanto più costoro si intestardiscono nelle proprie certezze e paure[8].
La deriva emotiva del linguaggio non affligge solo chi non ha le competenze, ma anche chi, come i giudici, non solo ne è in possesso, ma dovrebbe mostrare nelle sentenze con il proprio linguaggio un alto livello di riflessività e di distanza dalle passioni (siano esse bene o male riposte per motivi culturali o ideologici) e non come se «la pubblica opinione fosse il nuovo lettore immaginario del giudicante»[9].
- La politica nella “democrazia dell’imputazione”.
Uno degli elementi scatenanti del moderno processo mediatico sono stati i processi ai politici e alla Politica iniziati negli anni ’90 con “Tangentopoli”. Il processo penale e le indagini, snaturati, sono divenuti una nuova forma di controllo e di verifica della Politica, quando non un tentativo di sostituzione della stessa, fino ad arrivare alla distorsione del processo mediatico vissuto come forma di partecipazione politica.
Ad onor del vero, se il processo mediatico è stato il combustibile dell’incendio che ha distrutto la Prima Repubblica e i piromani sono stati tanti (molti dei quali, ora in pensione, sono divenuti pompieri), il comburente è stato fornito dalla debolezza strutturale della politica, che non ha saputo comprendere le ragioni della crisi delle istituzioni[10], la necessità della tutela ma anche di una riforma dello schema classico della tripartizione dei poteri, spesso approfittando della scorciatoia giudiziaria per avvantaggiarsi di un cambiamento degli assetti politici.
Questa deriva è peggiorata nell’ultimo decennio, con il grande successo delle forze populiste che hanno fondato sulla negatività, più che sulla positività, le proprie fortune, trasformando la politica nella sua antitesi: una perenne attività di giudizio. Infatti, il giudicare è una attività rivolta sempre al passato, a qualche azione o omissione commessa. L’attività politica, invece, è una lettura del presente ma soprattutto una visione, una proposta per il futuro che dovrebbe aggregare in modo positivo chi vi si riconosce, al contrario della negatività del giudicare. Ma nel breve periodo è molto più semplice creare aggregazioni fondandole sulla negatività, attraverso la polarizzazione attorno ad un giudizio negativo.
Queste coalizzazioni negative sono state favorite e alimentate da una concezione tribale (o meglio, da clan) della giustizia e dal fenomeno della leaderizzazione della Politica, in cui non si valuta più politicamente l’azione di questo o quel partito, ma il profilo etico, morale o penale di questo o quel leader. Questo meccanismo ha comportato una “giudiziarizzazione del politico” in quella che viene definita una “democrazia dell’imputazione” in cui «ormai tutto si svolge come se i cittadini attendessero dalla giustizia i risultati che non sperano più di ottenere dalle elezioni»[11].
La Politica, dunque, è causa ma anche vittima del populismo, non solo penale ma anche comunicativo. Sarebbe sufficiente introdurre delle regole minime in tema di comunicazione, una sorta di manifesto della comunicazione politica che impegnasse tutti i partiti sottoscrittori al rispetto di alcune regole condivise. Del resto, se esistono dei regolamenti per le attività parlamentari di Camera e Senato, a maggior ragione dovrebbero esistere delle regole per l’attività politica dei parlamentari nell’agorà pubblica, soprattutto se disintermediata.
- La tribù social e il “clan giustizialista”.
Il sentimento di giustizia è certamente regredito negli ultimi decenni, negando ogni valore alle conquiste del pensiero della modernità e della legalità processuale, fino ad arrivare ad interpretare il processo mediatico come l’unico vero momento di valutazione e di giudizio dei fatti. Le odierne modalità e tecniche di comunicazione e di confronto ricordano le epoche tribali e medievali, con gruppi riuniti su presupposti semplici o superstizioni, in cui l’immagine prevale sulla parola[12].
Il processo mediatico ha, inoltre, delle profonde somiglianze con la Cancel culture. Esso ormai spesso prescinde dai fatti-reato, non viene più imbastito sulla base di un presunto reato, ma anche (o solo) su valutazioni etiche o morali del comportamento di una determinata persona, a prescindere se la stessa sia o non sia indagata o imputata.
Il giudizio e la condanna sono già stati emessi da tempo per questa o quella categoria di soggetti (i corrotti, i mafiosi, i molestatori, gli stupratori, etc.), pertanto basta poi inserire quella determinata persona all’interno di una di quelle categorie perché venga messo in scena tutto l’armamentario per “cancellarla” immediatamente – anche in funzione special-preventiva – dal consesso civile, senza offrirgli alcun diritto di parola: «Cancel ha il significato principale di sopprimere l’avversario, vale a dire di non dargli la parola, anzi di rifiutare che possa addirittura avere il diritto di parlare[13]».
Il potere distorsivo della realtà delle fake news, la loro capacità di incidere, non solo sui processi di formazione del consenso e delle “credenze”, ma sempre più spesso anche sulla legislazione penale, non hanno ancora visto alcun tipo di intervento legislativo volto ad arginare tale fenomeno. Anche sul significato di fake news non c’è un punto di vista comune, vista la genericità del concetto e il suo utilizzo talmente vasto da renderlo spesso improprio[14].
Basti pensare a quanto hanno inciso alcune campagne mediatiche, farcite di fake news, sulla legislazione penale del nostro Paese negli ultimi anni, per comprendere la serietà del problema e la totale assenza di consapevolezza dello stesso da parte del legislatore, totalmente inerte sul tema nonostante i numerosi interventi legislativi di altri paesi europei, alcune proposte giacenti in Parlamento e qualche brillante idea sul punto espressa da alcuni studiosi.[15]
La tribù social, in cui tutto questo trova terreno fertile, è un universo variegato composto da vari clan, molto diverso rispetto a quello delle tribù di un tempo, che rappresentavano un insieme di “mescolanze” in cui vi era la prevalenza della relazione sul singolo individuo ed un insieme di prestazioni e contro-prestazioni reciproche (cd. sistema delle prestazioni totali)[16]. La tribù social rappresenta dunque un ossimoro, viste le caratteristiche proprie dei moderni network (tra cui l’asocialità e l’individualismo), anche se non ha perso una caratteristica tipica delle tribù di un tempo: fidarsi interamente o diffidare interamente[17]. All’interno della tribù social vi è poi il “clan giustizialista”. Esso “diffida interamente” e per sua natura ignora il fattore umano e a maggior ragione non ne tiene conto quando affronta le tematiche della giustizia.
Quest’ultima, però, colloca proprio l’uomo e la sua dimensione al centro di ogni suo valore e di ogni sua procedura, consentendo a tutte le parti di intraprendere quel percorso di ricomposizione non solo con la società ma soprattutto con sé stesse, iniziando quella «dinamica che implica un cambiamento per i partecipanti: come ogni rituale, c’è un prima e un dopo per chi vi prende parte[18]». Vittime e imputati vengono invece privati della possibilità di vivere compiutamente il processo, di confrontare dinanzi a un terzo le proprie realtà, di compiere quel nuovo cammino di ricomposizione che consente loro di chiudere l’esperienza del passato e di provare a vivere il presente con un nuovo sguardo – anche ottimistico – al futuro.
Il clan giustizialista, che si nutre di fake news, è diventato inoltre una sorta di giuria[19] permanente di common law, che attraverso la propria attività mediatica di una falsa interpretazione della realtà e della legge incide sui processi di formazione della stessa, in chiave autoritaria per la procedura penale e draconiana per le pene. Mentre sia l’operato della giuria che i processi penali soggiacciono ad una serie di regole al cui rispetto sovraintende comunque un giudice terzo, nello spazio indeterminato del web e dei media non c’è alcun garante del rispetto delle regole, e le “giurie” sono composte soprattutto da persone senza identità, o quantomeno che si percepiscono come tali perché appartenenti ad un clan. Nessuna crescita sociale è possibile laddove vi sia invisibilità di massa, perché essa scatena i peggiori istinti dell’uomo. Del resto, quando si “indossa” l’identità social ed in genere quella degli strumenti di comunicazione digitale, gli effetti sembrano essere quelli dell’anello di Gige di cui raccontava Platone[20], per cui si diventa invisibili a tutti mentre si è in grado di vedere tutti: così si scatenano i peggiori istinti dell’uomo.
- Il giornalismo, tra tuttologia e imprenditoria.
La genericità e lo snaturamento del giornalismo hanno gravi conseguenze sulla diffusione del processo mediatico. Sappiamo che da tempo esiste il problema di un mancato esercizio delle facoltà critiche nei confronti delle fonti delle notizie ed in generale di un inadeguato distacco dalle influenze dirette e indirette del potere giudiziario[21]. Questo avviene non solo per ragioni ideologiche ma anche a causa di una qualche “incompetenza”.
La divisione tra giornalisti professionisti e pubblicisti è talmente sottile da essere di fatto inesistente. Chiunque può occuparsi di qualsiasi tipo di notizia. Non esistono, inoltre, delle specializzazioni né formali né sostanziali. Un giornalista – professionista o pubblicista – può creare informazione indistintamente su medicina, giustizia, economia, finanza, politica, geopolitica, costume, società, spettacoli, etc., senza che gli venga richiesta alcun tipo di specializzazione in tal senso. Questo rappresenta una parte del problema, perché ovviamente molto dipende anche dall’esperienza in questa o quella materia e dal livello di preparazione personale.
Inoltre, non si può non considerare che la notizia è anche un prodotto, e come tale viene spesso gestito con criteri economici. E nel settore giustizia, qual è il prodotto che vende di più? Certamente quello che risponde maggiormente alle aspettative del “mercato”, cioè dei cittadini: il prodotto giustizialista[22] della filiera corta, cioè quello disintermediato. La notizia passa spesso direttamente dagli atti di indagine (in corso) al cittadino tramite il giornalista. A quel punto lo spazio processuale che verrà non solo non interessa più, ma anzi viene visto come quel luogo oscuro in cui grazie a trucchi o cavilli il colpevole “se la cava”. Una vera informazione sul processo di fatto non viene fornita lasciando quindi immanente l’originaria informazione rivelata dalle indagini: ma «una verità non aggiornata, non è una verità[23]».
Altro fenomeno che, miscelato al precedente, provoca un fattore potenzialmente esplosivo è la fusione nella stessa persona della figura del giornalista e dell’editore (quindi imprenditore)[24]. È questo un aspetto poco evidenziato, ma le sue conseguenze sul giustizialismo – come prodotto della filiera corta – sono piuttosto rilevanti. Nel momento in cui viene meno il sano conflitto editore-giornalista, non c’è più quella contrapposizione tra interessi diversi, talvolta confliggenti: quello economico da un lato, quello giornalistico dall’altro. Il giornalista-imprenditore non è più un professionista “indipendente”, che risponde solo alla sua coscienza e che può resistere alle richieste del proprio editore, ma un soggetto economico che più vende prodotti più guadagna, ed il prodotto che vende di più è appunto quello giustizialista.
A questo aggiungiamo che alcuni giornalisti hanno cambiato natura non solo sotto questo profilo, ma sono diventati dei veri e propri attori politici: parlano direttamente ai propri sostenitori, appoggiano questo leader o quel movimento o partito, esercitano un ruolo di rappresentanza di determinati settori politici e sociali, il tutto senza passare da alcuna competizione elettorale e tenendo sempre ben presente – ma celato – il loro interesse economico quali imprenditori. Basti pensare alle figure dei giornalisti-influencer[25], un moderno ossimoro che fa comprendere come la deriva della rete abbia creato una confusione nei ruoli, nobilitandone alcuni del passato.
- Il decreto legislativo per l’attuazione della Direttiva europea sulla presunzione di innocenza.
A dicembre 2021 è entrato in vigore il decreto legislativo n.188, recante le “disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della Direttiva UE 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali[26]”.
L’elaborato contiene degli interventi che, seppur animati da buone intenzioni, rischiano di essere dei meri desiderata che non avranno mai concreta ed efficace applicazione, sia per l’errata individuazione dei soggetti controllori, sia per l’affidamento esclusivo alla parte debole – la persona sottoposta a processo – della legittimazione del potere di segnalazione e di richiesta di intervento. Il decreto legislativo contiene sei articoli, ed anche senza entrare eccessivamente nel merito di ogni disposizione, se ne possono evidenziare alcune principali criticità.
L’art. 3 prevede la possibilità delle conferenze stampa “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti”. Il problema, già oggetto delle circolari di alcuni procuratori, è facilmente individuabile. Chi stabilisce l’eventuale effettiva presenza della particolare rilevanza pubblica? È possibile che chi compie le indagini, chi decide l’eventuale iscrizione di notizie di reato in tema di diffamazione e chi svolge la conferenza stampa sia lo stesso soggetto, il Procuratore della Repubblica? Ma soprattutto, cosa accade quando la rilevanza pubblica, o meglio mediatica, è creata dalle scelte investigative dello stesso pubblico ministero?
L’art. 4, ai commi 1, 3 e 4, prevede che «nei provvedimenti diversi da quelli volti dalla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna divenuti irrevocabili», che «in caso di violazioni delle disposizioni di cui al comma 1, l’interessato può a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo», e che «sull’istanza di correzione il giudice che procede provvede, con decreto motivato, entro quarantottore dal suo deposito».
Premesso che una simile norma priva di una specifica sanzione disciplinare risulta essere un mero auspicio, appare evidente che la richiesta di correzione su istanza di parte è un rimedio che poggia su piedi d’argilla. La persona sottoposta alle indagini è in uno stato di debolezza psicologica, pensare che possa “battagliare” contro il pubblico ministero procedente, con una richiesta di correzione al giudice mentre è impegnato a difendersi nel merito, è alquanto velleitario, senza considerare i termini così brevi per azionare la richiesta di correzione. Tutto questo non risponde a quella “effettività del ricorso”, richiesta dall’art. 10 della direttiva europea[27], e rischia di non far emergere la vera incidenza dei dati relativi al fenomeno che si vorrebbe regolare e di rendere inadeguato il loro studio, la cui competenza, quanto alla trasmissione alla Commissione Europea, il Ministero della Giustizia ha inteso riservarsi (art. 5).
Al di là delle singole norme, la direttiva europea, all’art. 4, pone un doppio perimetro: le dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche e la mancata presentazione come colpevole nelle decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza. Questo doppio perimetro – normativamente necessario, almeno il primo – limita il campo d’azione, lasciando fuori tutta una serie di soggetti e di atti[28] che contribuiscono in maniera determinante ad alimentare il processo mediatico e il tumulto del clan giustizialista.
- L’istituzione di un Garante dei diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo.
Affidare alla politica e alle sue istituzioni, o alla stessa magistratura, la tutela del diritto delle persone sottoposte a indagini o processo a non subire un processo mediatico – quindi una tutela contro un qualcosa che avviene in uno spazio esterno alle indagini e al processo – limitando inoltre alle parti deboli la legittimazione attiva nel richiedere tutela, non risolverà in alcun modo il problema anche perché si parte dal presupposto errato che il processo penale sia solo “un affare” tecnico che riguarda le sole parti, e non anche un rito che «ha un profondo legame con la società», un «dispositivo liberale di tutela delle libertà democratiche di ogni cittadino[29]», e che la presunzione di innocenza sia un principio da tutelare all’interno del limitato spazio delle indagini e del processo.
La giustizia, per essere tale, deve mantenersi alla giusta distanza dai conflitti e dalle passioni. A maggior ragione, dunque, tali distanze devono essere richieste a chi deve controllare il rispetto delle norme che non attengono al processo penale propriamente inteso – competenza questa esclusiva del giudice, allo stato idealmente terzo – ma al vivere civile, in materie che richiedono inoltre competenze specifiche non solo di diritto ma anche, tra le altre, di giornalismo, di sociologia, di scienze cognitive e di comunicazione. Non a caso la direttiva europea, come detto, lascia ampia libertà ai singoli stati membri nell’individuare i soggetti controllori del rispetto dei principi stabiliti in tema di presunzione di innocenza.
Le persone sottoposte ad indagini e processo rappresentano una minoranza debole, perché non solo sono “attenzionate” dallo Stato con tutta la forza invincibile che lo contraddistingue ma anche da vasti settori della società, e vittime spesso di processi di piazza e anche di un linguaggio dell’odio proveniente non solo da una parte dell’opinione pubblica, ma persino da una parte della politica e da alcune istituzioni del nostro Paese. La politica, il governo, la magistratura e anche l’avvocatura[30] non possono e non devono occuparsi della tutela di tali diritti al di fuori del processo. Perché hanno interessi confliggenti, non ne hanno le competenze e sono già parti all’interno dello spazio previsto per il loro agire: le leggi, le indagini, i processi. Tale tutela andrebbe affidata ad una autorità garante esterna, indipendente, collegiale, composta da esperti in tante materie. Una autorità nominata del Presidente della Repubblica e non della politica, perché sia quanto più possibile non collegata, e non collegabile un domani, alla stessa.
In tal senso, un Garante dei diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo sarebbe realmente quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea e dalle norme nazionali, ma anche da tutta quella serie di “atti extraprocessuali” di cui vengono inondati i media e i social network. Al Garante dovrebbe essere dunque riconosciuta anche la legittimazione attiva nel richiedere al giudice la correzione dei provvedimenti, anche d’ufficio e non solo su segnalazione dell’interessato, e la possibilità di adire in via diretta l’Autorità garante per le comunicazioni, le cui competenze andrebbero ampliate[31].
Occorre comprendere, infatti, che il processo mediatico è un virus che non colpisce solo il diretto interessato ma tutta la società, nella quale si diffonde a ritmi incontrollabili e con effetti a lungo termine non rilevabili nell’immediato. La competenza, dunque, non può essere relegata al singolo giudice addirittura su esclusiva legittimazione della parte debole processata sui media, né al solo spazio di indagine o processuale.
L’ufficio del garante dovrebbe essere collegiale, composto da tante professionalità diverse ognuna con competenze specifiche in determinate materie (costituzionale, penale, processuale, comunicazione, giornalismo, scienze cognitive). La sua attività di denuncia, di tutela ma anche di studio e di raccolta dei dati aiuterebbe la nascita di un dibattito e di una riflessione culturale più ampia, non solo ad arginare gli effetti nefasti del processo mediatico, e anche, forse alla lunga, a ricondurre il processo penale alla sua funzione e al suo ruolo all’interno della società.
*Avvocato, responsabile della comunicazione di UCPI, segretario di redazione della rivista
[1] Pierre Rosanvallon, Pensare il populismo. Lit Edizioni srl, 2017, traduzione dell’edizione originale del 2011.
[2] La loro attenzione, in questo senso, si concretizzò nell’incarico di revisione linguistica del testo della Costituzione affidato ad un giornalista e saggista. Tale opera di revisione fu indirizzata ad un miglioramento della nitidezza e della scorrevolezza del testo, al fine di consentire la sua comprensione ad una platea quanto più vasta possibile di cittadini, e di essere quel minimo comune denominatore non solo dei principi, ma anche del linguaggio.. Nel 1948 la lingua italiana non era così diffusa e parlata, e il testo della Costituzione fu pubblicato in tutti i comuni d’Italia anche a fini di riunificazione “linguistica”. Vedi Tullio De Mauro, Il linguaggio della Costituzione, in Costituzione della Repubblica Italiana, UTET 2008, Edizione non in commercio per il 60° anniversario della Costituzione.
[3] CENSIS, Quindicesimo rapporto sulla Comunicazione. I media digitali e la fine dello star system, Franco Angeli editore, 2018, cfr. tabelle pagine 117-119.
[4] CENSIS, Sedicesimo rapporto sulla Comunicazione. I media e la costruzione dell’identità, Franco Angeli editore, 2020: «Nel momento in cui i media sono sempre meno “media”, cioè non fanno da tramite tra una cosa l’altra, ma sono “la” cosa che ci fa diventa diventare ciò che siamo, allora la fusione tra le tecnologie digitali e la nostra esistenza si è compiutamente realizzata, dando vita a un nuovo essere, che non si può definire in altro modo se non biomediale»
[5] CENSIS, Quindicesimo rapporto sulla Comunicazione. I media digitali e la fine dello star system, Franco Angeli editore, 2018, cfr. tabella pagina 167.
[6] Epitteto, Manuale, I-II sec. d.c.
[7] In un caso di grande rilevanza pubblica, le indagini sono state viste persino dalle istituzioni politiche come un ostacolo alla immediata individuazione dei responsabili: “non possiamo aspettare i tempi della giustizia penale!”. Questa la dichiarazione dell’allora Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova nell’agosto del 2018.
[8]Paul Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, prima edizione italiana 1980, XII Edizione 2017, Feltrinelli, p. 121.
[9] Iacopo Benevieri, L’impersonalità della sentenza, in Diritto di Difesa n. 1 2021 e in www.dirittodidifesa.eu.
[10] Francesco Cossiga, Sulle riforme istituzionali in ragione della inadeguatezza dell’apparato istituzionale, 26.06.1991, messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 87 co. 2 Cost., in www.legislature.camera.it.
[11] Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi 2017.
[12] È un qualcosa che ricorda anche le false credenze, con le odierne fake news, e i meccanismi di comunicazione medievali – come quello per immagini, spesso con la fotografia della persona giudicata accompagnata da una frase-giudizio in sovraimpressione – in cui «tutte le cose che prima si aveva una certa reticenza a dire adesso sono sdoganate». Vedi, Vinicio Capossela: “Ho paura dei politici che dicono alla gente: ‘rimanete bestie, non sforzatevi di essere uomini’”, intervista sull’album Ballate per uomini e bestie, in Huffington Post Italia 9.11.2019: «Nel Medioevo l’immagine era più forte della parola perché la gente era in gran parte analfabeta. E in un certo senso anche oggi andiamo sempre più a sostituire l’immagine alla parola, a semplificare sempre di più».
[13] Antoine Garapon, La despazializzazione della Giustizia, Mimesis Edizioni 2021, pag. 71.
[14] Sul punto, si segnala la seguente brillante definizione “penalisticamente orientata” di fake news: «Una informazione in parte o del tutto non corrispondente al vero, prodotta e divulgata intenzionalmente o inintenzionalmente attraverso il web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione, e caratterizzata da una apparente plausibilità, quest’ultima alimentata da un sistema distorto di aspettative dell’opinione pubblica e da un’amplificazione dei pregiudizi che ne sono alla base, che ne agevola la condivisione e la diffusione pur in assenza di una verifica delle fonti, tale da ledere beni giuridici individuali, come l’onore e la reputazione, ovvero finalizzata a incidere, direttamente o indirettamente, sulla libertà dei cittadini di esercitare il diritto di voto e ad incidere sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche», così Tommaso Guerini, in Fake news e diritto penale. La manipolazione digitale del consenso nelle democrazie liberali, Giappichelli Editore, 2020, pag. 28.
[15] Sempre in Fake news e diritto penale. La manipolazione digitale del consenso nelle democrazie liberali, l’autore Tommaso Guerini, dopo una approfondita e importante disamina degli interventi normativi introdotti in alcuni paesi europei e un’analisi delle varie proposte di legge rimaste lettera morta nel nostro Parlamento, avanza la proposta di affidare la competenza a sovraintendere al procedimento di rimozione delle fake news ad un organo di diritto pubblico, come un’autorità garante, o di estendere in tal senso le competenze dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
[16] Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. Einaudi 2002, pag. 8 e pag. 24.
[17] Marcel Mauss, op. cit., pag 101: «In tutte le società che ci hanno immediatamente preceduto e che ancora ci circondano, ed anche in numerose usanze connesse con la nostra morale popolare, non esiste via di mezzo: fidarsi interamente o diffidare interamente».
[18] Antoine Garapon, La despazializzazione della Giustizia, Mimesis Edizioni 2021, pag. 33: «Notare un tale rapporto strutturale tra diritto e spazio diventa ancora più importante se lo si contrappone all’idea di giustizia, che è, al contrario, temporale. Quest’ultima implica in effetti un “processo” nel senso di un procedimento, una dinamica che implica un cambiamento per i partecipanti: come ogni rituale, c’è un prima e un dopo per chi vi prende parte (almeno quando il rituale funziona)».
[19] Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi 2017: «Quantunque largamente misconosciuto, storicamente uno degli aspetti essenziali dell’attività delle giurie popolari nelle democrazie consisteva così nell’aggiustare o modificare lo spirito della legge con la formulazione dei loro giudizi».
[20] Cicerone, De officiis (I doveri): 38. «Di qui trae l’origine il noto aneddoto di Gige introdotto da Platone: essendosi la terra spaccata per certe grandi piogge, Gige scese in quella voragine e scorse, come dicono le leggende, un cavallo di bronzo, che aveva ai fianchi delle porte; dopo averle aperte scorse il corpo di un uomo morto di grandezza mai vista, con un anello d’oro al dito; glielo tolse e se lo mise, poi si recò all’adunanza dei pastori (era, intatti, pastore del re); lì, ogni volta che volgeva il castone dell’anello verso la palma della mano, diveniva invisibile a tutti, mentre egli era in grado di veder tutto; ritornava nuovamente visibile quando rimetteva l’anello al suo posto. E così, servendosi dei poteri concessigli dall’anello, fece violenza alla regina e col suo aiuto uccise il re suo padrone, tolse di mezzo chi, a parer suo, gli si opponeva, e nessuno poté scorgerlo mentre compiva questi delitti; così, tutto ad un tratto, grazie all’anello divenne re della Lidia. Se, dunque, il sapiente avesse questo stesso anello, penserebbe che non gli fosse lecito peccare più che se non l’avesse; i galantuomini, difatti, cercano l’onestà, non la segretezza».
[21] Renato Borzone: «in materia di informazione giudiziaria vi sono numerosi problemi relativamente all’esercizio di facoltà critiche da parte dei media nei confronti della fonte (principale) delle loro informazioni: acquiescenza pregiudiziale alle tesi dell’accusa, inadeguato distacco dal “potere” giudiziario, a volte ideologicamente – quanto acriticamente – considerato un “contropotere” del male assoluto, “la politica”. E già questa concezione dei “poteri” dello Stato la dice lunga su molte delle distorsioni in materia di informazione giudiziaria». In presentazione de L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale. A cura dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane. Pacini Giuridica, 2016.
[22] Interessanti, a tal proposito, i risultati dell’indagine sull’informazione giudiziaria in Italia (seppur limitata alla carta stampata) contenuti nel libro bianco già citato. L’analisi dei titoli degli articoli indica che, se il 48,9% di essi è formulato in modo neutro (e cioè senza propendere per la fondatezza o meno delle accuse oggetto d’indagine giudiziaria), ben il 40,2% dei titoli hanno una marcata impronta colpevolista e solo il 3,9% di tipo garantista o a favore dell’innocenza. Il dato sulla fase processuale oggetto degli articoli è clamorosamente sbilanciato a favore della fase degli arresti (27,5%) e delle indagini preliminari (36,7%). Solo il 13% delle notizie riguarda lo svolgimento del processo vero e proprio (dibattimento). Quanto alle fonti delle notizie, laddove siano desumibili ovviamente dagli articoli, la gran parte proviene dall’Accusa (33%) e dalla polizia giudiziaria (27,9%). Solo il 6,8% dalla Difesa. Nell’80% dei casi degli articoli analizzati (7373) non viene dato nessuno spazio alla difesa nei brani giornalistici. Il contenuto degli articoli, a prescindere dal titolo (già analizzato) è connotato da un’impronta colpevolista (29,2%) o comunque si limita a fornire la ricostruzione effettuata dall’accusa (32,9%), per un totale del 62,1% dei casi. Un’impronta neutra, scevra da un appoggio alle tesi dell’accusa o della difesa, è rilevabile nel 24,1% dei casi. Un “taglio innocentista” è rilevabile solo nel 3,2% dei casi.
[23] Tommaso Edoardo Frosini, Apocalittici o integrati. La dimensione costituzionale della società digitale, Mucchi Editore, 2021.
[24] Siamo ovviamente lontanissimi dalle cooperative di giornalisti che editano il proprio giornale, perché in quel caso i soggetti economici sono talmente tanti da essere diluiti nella loro influenza e anche dalla scarsità dei reciproci mezzi economici.
[25] Influencer, dal dizionario Treccani on line: «Personaggio noto ai frequentatori della rete telematica, che ha il potere di condizionare le scelte di gruppi di utenti, riuscendo a imporre mode e tendenze». In estrema sintesi, un “piazzista” della rete.
[26] Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188, Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. (21G00199) (GU Serie Generale n.284 del 29-11-2021 – Suppl. Ordinario n. 40). Entrata in vigore del provvedimento: 14/12/2021.
[27] Direttiva (UE) 2016/343, art. 10 comma 1: «Gli Stati membri provvedono affinché gli indagati e imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti conferiti dalla presente direttiva».
[28] Basti pensare ai tanti atti, sentenze comprese, in cui il proscioglimento o l’assoluzione vengono descritti come dovuti a qualche ragione procedurale, indicando la persona come certamente colpevole, ma non punibile, oppure ai decreti di perquisizione e sequestro di numerose pagine nei quali viene effettuata una ricostruzione delle presunte responsabilità, con l’indicazione dei relativi mezzi di prova.
[29] Francesco Petrelli, Comunicare il processo, in www.questionegiustizia.it
[30] Quanto all’avvocatura, sarebbe interessante una indagine statistica sui risultati dei processi penali per i quali i difensori hanno partecipato alle varie trasmissioni televisive e in generale al flusso mediatico generato.
[31] cfr. nota 15.