VERSO UNA RIFORMA LIBERALE DELLA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DA REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE – DI TOMMASO GUERINI
GUERINI – VERSO UNA RIFORMA LIBERALE DELLA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DA REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE.PDF
Verso una riforma liberale della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche[1]
di Tommaso Guerini*
La relazione, in versione lievemente ampliata e corredata da note essenziali, tenuta dall’Autore al Convegno “Per una riforma liberale del decreto legislativo n. 231/01” organizzato dall’Unione Camere Penali Italiane a Roma il 22 settembre 2023.
1.- La responsabilità da reato nelle temperie d’inizio millennio
Nel corso degli oltre vent’anni che ci separano dall’entrata in vigore del decreto legislativo 231/01, il tema della sua riforma si è ciclicamente riproposto, senza mai superare la fase dei lavori preparatori delle due commissioni di studio (Greco, 2007; Melillo-Garofoli, 2016) chiamate ad aggiornare la legge fondamentale che regola la responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi nell’ordinamento italiano.
Nell’immobilismo del legislatore, si è avuta quella che la dottrina più attenta ha recentemente definito la totemizzazione del decreto 231[2], le cui infrastrutture fondamentali, a dispetto delle evidenti crepe che mostrano, si sono rivelate impenetrabili a qualsivoglia proposta di modifica, fatte salvo alcune novelle di scarso rilievo sull’impianto generale della disciplina, come quelle in materia di whistleblowing.
A dispetto di evidenze empiriche e nonostante il parere pressoché unanime di coloro i quali studiano e praticano quotidianamente questa materia, nella duplice prospettiva della compliance e della dimensione giudiziale, il decreto 231 appare refrattario a qualunque proposta di riforma, quasi come se fosse destino che un altro totem prendesse il posto di quello rappresentato dal principio societas delinquere non potest, abbattuto senza troppe nostalgie dopo oltre due secoli di onorato servizio.
La questione non è di poco momento e non riguarda soltanto gli addetti ai lavori.
La necessità di aggiornare e ripensare i tre elementi che compongono il sistema 231 – dimensione sostanziale, processuale e sistema di compliance – è ormai indifferibile.
In attesa che il cantiere della riforma riprenda i propri lavori, l’Unione delle Camere Penali Italiane intende fornire, attraverso l’Osservatorio sul d.lgs. 231/01, un proprio contributo al dibattito scientifico e politico, in particolare attraverso l’individuazione di alcune coordinate essenziali che indirizzino lo sforzo riformatore in una prospettiva rigidamente liberale e costituzionalmente orientata.
In primo luogo, occorre tener conto del fatto che la morfologia di un sistema penale pensato per operare nei confronti dei soggetti produttivi, all’interno di uno dei più importanti sistemi economici del mondo, interconnesso e globale, è un tema che impinge le fondamenta teleologiche di un sistema punitivo e si riflette su innumerevoli altri settori di primaria importanza per la salvaguardia di interessi fondamentali, tra i quali – nell’epoca del PNRR – quello degli appalti pubblici e – nell’epoca della pandemia da Covid-19 – la sanità pubblica e privata[3].
In altre parole, al di là dei profili strettamente dogmatici – che pure, come si vedrà, restano in larga parte non del tutto chiari – perché, come e con quali sanzioni punire o non punire un ente collettivo lecito per fatti di reato commessi nell’esercizio dell’attività di impresa ha un’incidenza diretta sulla stessa visione del rapporto tra cittadino e Stato.
Essendo poi la disciplina della responsabilità da reato degli enti collettivi una parte non secondaria del diritto penale dell’economia e dell’impresa, essa non è e non può essere neutra riguardo ai fini che tramite essa il sistema politico si propone di raggiungere.
Assunta questa prospettiva, risulta evidente come non solo si possa, ma si debba ragionare di una declinazione in chiave liberale delle prospettive di riforma del decreto legislativo 231/01, la cui disciplina rientra a pieno titolo nel più ampio obiettivo di realizzare un sistema punitivo che coniughi liberalismo e democrazia, arginando, anche in questo campo, “l’asservimento dell’afflizione punitiva al perseguimento di ideologie o di scorciatoie demagogiche”.
2.- Il Manifesto del Diritto penale liberale e del giusto processo come àncora per ogni progetto di riforma in chiave “liberale” del sistema punitivo
Come noto, lo strumento attraverso il quale l’UCPI ha deciso di realizzare questo intento è il Manifesto del Diritto penale liberale e del giusto processo, nel quale sono enunciati quelli che sono i valori e i principi fondamentali che – specialmente nell’epoca del populismo penale e del diritto penale totale – devono essere difesi e non devono perdere centralità nel dibattito sul diritto e sul processo penale.
Nel solco tracciato dal Manifesto, questo documento si propone di dimostrare come il sistema 231 sia ormai parte integrante del sistema punitivo italiano e che, pertanto occorre orientare le ormai indifferibili esigenze di riforma in una prospettiva liberale e costituzionalmente orientata, volta a contemperare le esigenze preventive e repressive tipiche della materia con la rigorosa salvaguardia dei diritti individuali e collettivi dei soggetti destinatari dei precetti.
Al di là delle diverse concezioni sottese alla giustificazione dell’esistenza stessa di forme di responsabilità direttamente o indirettamente penali degli enti collettivi – immedesimazione organica, deficit organizzativo, teoria sistemica ecc. – ciò che interessa rimarcare in questa sede è che attraverso la previsione di sanzioni che colpiscono un ente collettivo per un fatto già punito ad altro titolo da parte dell’ordinamento giuridico – e che, spesso, è oggetto di un triplice ordine di sanzione: civile, amministrativa e penale – si finisce per ledere interessi – un tempo si sarebbe detto beni giuridici – primari delle persone fisiche che quegli enti dirigono, posseggono o dei quali sono dipendenti, fornitori ovvero, secondo una definizione tipica delle concezioni di corporate governance, sono Stakeholders.
Da qui, l’importanza di declinare alcuni fondamentali principi del Manifesto anche con riferimento agli enti collettivi.
Innanzitutto, anche con riferimento al sistema 231 è possibile enunciare che “principi e limiti implicano sempre dei costi di fronte alle manifestazioni del crimine. In caso contrario principi e limiti sono inutili declamazioni astratte”.
Allo stesso modo, nulla vieta di ritenere come la responsabilità da reato disciplinata dal decreto 231, al pari del diritto penale “vero e proprio” sia uno strumento di controllo sociale che incide fortemente sui beni fondamentali della persona e in primo luogo sui suoi diritti di libertà, così come su onore e reputazione, rapporti di lavoro e di famiglia, e più in generale sugli spazi di interazione sociale dell’individuo.
Ciò è particolarmente vero non solo perché l’utilizzo del lemma persona (fisica vs. giuridica) può ricomprendere sia l’essere umano quanto l’ente collettivo, ma soprattutto perché ci pare che tale principio abbia il pregio di cogliere nel segno nella parte in cui rimarca la connessione tra strumenti di controllo sociale e diritti di libertà, ampliando la sfera oggetto di tutela a beni senz’altro suscettibili di essere lesi attraverso la previsione di forme dirette responsabilità di alcune fondamentali formazioni sociali attraverso le quali gli individui si propongono di realizzare obiettivi primari all’interno dei sistemi democratici.
Allo stesso modo, riteniamo che la definizione di diritto penale liberale fornita al terzo paragrafo del manifesto, secondo il quale è tale quel “modello di diritto penale che legittima l’intervento punitivo solo quando è strettamente necessario e proporzionato alle esigenze di tutela, oltre che rispettoso della persona che lo subisce” siano applicabili anche al più ampio settore del diritto punitivo.
Analogamente, ci pare che anche in materia 231 si possa senz’altro ritenere che “ogni eccesso punitivo, che superi il principio del “minimo sacrificio necessario”, costituisce un arbitrio dello Stato e, nei casi più gravi, un delitto. È compito precipuo delle istituzioni assicurare il pieno rispetto della persona del colpevole, la quale è un fine in sé non strumentalizzabile in nome della prevenzione dei reati”.
In particolare, occorre riflettere sul secondo paragrafo del quinto principio rappresenti un monito per chi è chiamato a riflettere su una forma di responsabilità nell’ambito della quale gli interessi della persona fisica dell’indagato e quelli della persona fisica coinvolta in un procedimento penale in ragione dell’ipotizzato reato di quest’ultimo possano divergere.
Le ragioni della difesa di un ente collettivo, infatti, non dovrebbero mai soverchiare l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, come invece accade in quei casi in cui un’impresa, per attuare misure di self cleaning, ovvero per provare l’elusione fraudolenta del proprio Modello di Organizzazione Gestione e Controllo decida di adottare forme di dissociazione che finiscono per ledere la presunzione di non colpevolezza.
Considerando le specificità del sistema 231 – nonché la necessità di mantenerlo separato dal diritto penale, anche al fine di ribadire la natura di extrema ratio di quest’ultimo – rivestono inoltre un particolare interesse i principi enunciati ai punti 13-16 del Manifesto.
Ribadire che tutti sono uguali di fronte alla legge e che l’interpretazione di quest’ultima è uguale per tutti (§ 13), che non è ammessa l’interpretazione analogica in malam partem e che, stante la funzione di garanzia della legge penale, la dimensione testuale del divieto è base ineludibile, che deve essere rispettata secondo una “stretta interpretazione” (§14), che le leggi penali e le previsioni sanzionatorie devono basarsi su dati scientifici e criminologici attendibili e condivisi dalla comunità scientifica (§15), nonché, da ultimo, che la sede nella quale deve svolgersi il confronto sulle scelte punitive non può che essere il Parlamento e che il confronto deve svolgersi senza strozzature del dibattito maggioranza/opposizione, non adottando tecniche procedimentali che impediscano il consapevole esercizio del voto da parte dei rappresentanti (§15), assume un significato pregnante in un settore nell’ambito del quale, come rilevato anche dalla dottrina più attenta, nel silenzio del legislatore un ruolo fondamentale nel garantire la funzionalità del sistema è stato svolto dalla Corte di Cassazione.
Al di là del meritorio, anche se non certo rapido, né costante, contributo della giurisprudenza nel colmare i numerosi vuoti del decreto 231, non si può tuttavia fare a meno di osservare come, da un lato la stessa Corte di Cassazione non abbia mai consentito – caso forse unico nel panorama italiano – il vaglio della Corte costituzionale sul sistema 231, attraverso declaratorie di manifesta infondatezza su questioni e istituti che avrebbero meritato ben altra considerazione (come il regime della prescrizione; l’applicazione del decreto agli enti stranieri, ecc.) e che, dall’altro lato, sempre la Corte di Cassazione non abbia fatto ricorso allo strumento della remissione alle Sezioni Unite di questioni ancora irrisolte nella giurisprudenza, tra le quali assume particolare evidenza la vexata quaestio della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente collettivo.
Ma, a ben vedere, vi è di più.
La supplenza giudiziaria nel sistema 231 ha fatto sì che il legislatore potesse dimenticarsi di aggiornarne la parte generale e la disciplina processuale a fronte non solo di una irrefrenabile espansione della parte speciale del decreto, ma soprattutto dinnanzi ai radicali sconvolgimenti che negli ultimi vent’anni hanno interessato il diritto e il processo penale.
La questione non riguarda soltanto le evidenti storture applicative che ancora interessano l’elemento soggettivo dell’illecito, solo in parte corrette dalla recente sentenza Impregilo-bis[4], ma più in generale la possibilità di ricondurre a sistema la responsabilità da reato degli enti collettivi in un sistema penale differenziato e sempre più pervaso da istituti sui quali è impresso lo stigma special-preventivo che pervade l’intero decreto 231.
3.- I risvolti processuali: per un processo all’ente davvero “giusto”
La Riforma Cartabia è destinata a produrre sul sistema penale una rivoluzione copernicana e il suo impatto sulla penalistica contemporanea è pari a quello che ebbe sul finire dello scorso secolo l’entrata in vigore del Codice del 1988.
Eppure, questo cambio di paradigma sembra non interessare l’ente collettivo, al quale pure le modifiche sono destinate ad essere applicate, in ragione della clausola contenuta all’art. 34 del decreto.
Questo ci conduce a svolere alcune ulteriori riflessioni sui principi di un processo penale liberale, al quale sono dedicati i paragrafi 19 ss. del Manifesto.
Fatto salvo il riconoscimento della natura non penale dell’azione nei confronti degli enti collettivi, riguardo ai quali non opera l’art. 112 della Costituzione, a noi pare che tutti gli altri principi enunciati dal Manifesto possano e debbano trovare applicazione anche nel processo de societate.
In particolare, occorre ribadire e chiarire definitivamente, attraverso norme imperative, che l’onere della prova dell’illecito, tanto nella sua dimensione materiale quanto nella sua dimensione soggettiva spetta all’accusa e che, pertanto, anche la prova della colpa di organizzazione deve essere data da chi ipotizza una responsabilità amministrativa da reato, non potendosi risolvere in un onere di allegazione per la difesa, come nei fatti è oggi nonostante i richiami della giurisprudenza di legittimità.
In altri termini, anche per l’ente collettivo occorre che “la condanna dell’imputato può essere pronunciata solo quando la sua responsabilità -così come ogni altro elemento da cui dipende la misura della pena- sia provata al di là di ogni ragionevole dubbio, altrimenti l’imputato deve essere prosciolto. La regola di giudizio del cd. BARD deve presiedere anche alla disciplina delle impugnazioni proponibili dal pubblico ministero” (§ 28).
Allo stesso modo, riteniamo che anche per gli enti collettivi “la soggezione al potere pubblico non può essere temporalmente illimitata: la durata ragionevole del processo deve essere assicurata in forma distinta e autonoma rispetto alla prescrizione del reato” (§ 31).
Si tratta di un tema che sta assumendo un peso sempre maggiore in quanto è sempre più frequente che a fronte della prescrizione del reato presupposto, il processo prosegue per il solo ente collettivo.
A questa stortura, che trova la propria origine nella scelta del legislatore del 2001 di ricalcare per gli enti collettivi il modello di derivazione civilistica già utilizzato per l’illecito amministrativo disciplinato dalla l. 689/1981, non ha posto rimedio nemmeno la – discussa – disciplina dell’improcedibilità dell’azione penale, posto che: a) non è pacifico che si applichi agli enti collettivi posto che, come già ricordato, nei loro confronti non è corretto parlare di azione “penale” e che b) tale disciplina è destinata a operare solo dal secondo grado in avanti, mentre è frequente che l’ente si trovi imprigionato in un processo eterno già nel corso delle indagini preliminari o del primo grado.
A dispetto di quanto si possa ritenere, la ragionevole durata del processo è un’esigenza particolarmente sentita anche dagli enti collettivi, e ciò in quanto nel corso degli anni il decreto 231 ha assunto un ruolo centrale anche rispetto ad altre forme di responsabilità collettiva, riguardo alle quali vi sono conseguenze estremamente negative anche solo in ragione di una iscrizione dell’ente nel registro delle notizie di reato, come nel caso della disciplina dettata dal Codice degli appalti, dall’art. 32 del d.l. 90/2014 in materia di Misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell’ambito della prevenzione della corruzione e, non da ultimo, dal sistema di misure di prevenzione patrimoniali previste dal Codice antimafia (d.lgs. 159/2011).
Proprio il riferimento al Codice antimafia ci porta verso le conclusioni, per formulare le quali ci pare utile richiamare il § 35 del Manifesto, ove si legge che “Le misure di prevenzione – personali e patrimoniali – vigenti sono afflittive, talvolta più della stessa pena, e, quindi, devono avere lo statuto
di garanzie della materia penale. Per la loro applicazione non è sufficiente la tutela giurisdizionale, ma occorre il requisito della massima tassatività dei presupposti (…). Deve essere in ogni caso rispettata la garanzia della irretroattività sfavorevole”.
A noi pare, infatti, che quanto sancito con riferimento al sistema della prevenzione patrimoniale valga anche per la disciplina dettata dal decreto 231, la quale, nel corso degli anni, ha dimostrato di avere numerosi punti di contatto, tanto sotto il profilo teleologico, quanto sotto il profilo regolatorio, con il sistema descritto dal Codice antimafia.
Si pensi al mancato riconoscimento della natura penale di entrambe le forme di responsabilità a dispetto del loro evidente portato afflittivo, nonché al ruolo centrale che in entrambi i sistemi è svolto dalla confisca del profitto.
In sintesi, è nostra opinione non solo che una riforma del decreto 231 sia ormai indifferibile, ma che nel progettarne le linee guida essenziali il legislatore debba tenere conto dei principi enunciati dal Manifesto del Diritto penale liberale e del giusto processo.
Così facendo, l’occasione di una riforma apparentemente di settore potrebbe rappresentare un fondamentale tassello verso la costruzione di un sistema punitivo che, anche se non coincidente con il nucleo duro del diritto penale, si caratterizzi per l’applicazione delle stesse garanzie previste per quest’ultimo.
* Avvocato, Professore associato di diritto penale nell’Università Telematica Pegaso
[1] Il testo riprende in versione lievemente ampliata e corredata da note essenziali la relazione tenuta dall’Autore al Convegno “Per una riforma liberale del decreto legislativo n. 231/01” organizzato dall’Unione Camere Penali Italiane a Roma il 22 settembre 2023. L’Autore ringrazia il Prof. Avv. Giulio Garuti, l’Avv. Vittore D’Acquarone e l’Avv. Daniele Ripamonti per i preziosi momenti di confronto sulle questioni oggetto di questo intervento. Come si usa dire, ma in questo caso è vero, tutto ciò che di buono c’è in questo testo è loro, mentre gli errori, sono soltanto miei.
[2] Così F. Centonze-S. Manacorda, Il “circolo virtuoso” della regolazione e l’evoluzione del d.lgs. n. 231/2001, in AA. VV. Verso una riforma della responsabilità da reato degli enti (a cura di F. Centonze e S. Manacorda), Bologna, 2023, 13.
[3] Abbiamo toccato il tema nel nostro T. Guerini, La La tutela penale della libertà di manifestazione del pensiero nell’epoca delle fake news e delle infodemie, in AA. VV., Diritto penale e paradigma liberale. Tensioni e involuzioni nella contemporaneità, Napoli, 2020, 199 ss.
[4] Cass., Sez. VI, 11 novembre 2021 (dep. 15 giugno 2022), n. 23401, Pres. Fidelbo, Rel. Rosati. In Sist. pen., 27 giugno 2022, con nota di C. Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo”.