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“WHATEVER IT TAKES” – DI GIORGIO VARANO

“WHATEVER IT TAKES” – DI GIORGIO VARANO

di Giorgio Varano

Il tema economico è molto importante, in questo momento anche decisivo per il futuro dell’avvocatura, e deve essere declinato politicamente, non solo economicamente, dunque da avvocati e non da lavoratori. L’avvocatura istituzionale ha il dovere di affermare con forza “whatever it takes” per preservare il ruolo e la funzione di tutta l’avvocatura. C’è una intera generazione di avvocati, in questo senso, che rischia di essere spazzata via.

La “vita a distanza” di questi giorni così confusi rappresenta anche un precedente ed un esperimento molto pericoloso. Quel “virus dell’assuefazione disciplinare”, di cui ha così intensamente scritto Francesco Petrelli, sembra stia mutando in vari virus che si insinuano prima nelle nostre vite quotidiane e poi in tutti i momenti di confronto sociale, politico, culturale e persino nella declinazione dei diritti.
 
La partecipazione a distanza nei processi sta già passando da una asserita necessità ad una ipotesi strutturata di gestione dei processi.
 
Una necessità spesso maliziosa, creata ad arte sul presupposto che anche in questo momento di gravissima crisi economica si debbano incarcerare per forza tutte le persone che hanno commesso un reato in flagranza (anche quelle che hanno rubato due chili di pasta e qualche pezzo di formaggio, per fame), e che non le si possa processare con tutta calma e a piede libero. Quindi “per i loro diritti” occorre fare subito un processo in catene e a cristalli liquidi, in cui il manuale d’istruzioni non è il codice di rito, ma un protocollo in formato pdf che diventa legge locale con la pubblicazione in una chat WhatsApp.
 
Un bilanciamento difficile, in questo momento, tra vari sensi di responsabilità, in cui i meno responsabili hanno gioco facile nell’insinuare un altro virus che sia la premessa per un futuro di processi tutti smaterializzati, da loro sempre sognato.
 
Tutto questo sta avvenendo in un mondo già decadente, in un basso impero dei diritti, della magistratura, della politica, e anche dell’avvocatura.
 
La personalizzazione della politica in quella che ormai conosciamo come ‘democrazia del leader’”, di cui scrive Gaetano Insolera, è un virus diffuso anche all’interno della magistratura e in parte del mondo dell’avvocatura.
 
La magistratura associata negli ultimi anni ha abdicato al proprio ruolo politico concentrandosi solo su quello sindacale, è stata infatti incapace sia di esprimere una dirigenza forte, arrivando ad esprimere cinque presidenti in meno di quattro anni, sia di avere quella capacità di sintesi delle varie culture dei diritti (o subculture, in alcuni casi) che animano la magistratura.
 
E allora assistiamo alla “magistratura dei leader”, che non sono sempre tali perché riconosciuti sotto il profilo della rappresentatività formale, ma perché incarnano idee facili sotto il profilo comunicativo. È diventato un mondo tutto scollegato, in cui alcuni capi degli uffici giudiziari o alcuni componenti del CSM assumono posizioni diverse e distanti dalla propria rappresentanza politica e istituzionale, e vengono considerati dall’opinione pubblica e dai media come riferimenti, spesso come gli unici interlocutori pubblici.

Questo è un danno per tutti, perché limita l’interlocuzione necessaria sui temi della giustizia con un attore, la magistratura, dal quale non si può prescindere per un dialogo realmente costruttivo.
 
La politica non è più tale, vive dietro una linea che la divide dal contatto con la società, nel magazzino del retrobottega, e si affida di volta in volta a nuovi personaggi, a dei banconisti che si limitano a consegnare un prodotto che nemmeno conoscono passatogli dal retrobottega. Figure ibride che però hanno approfittato per coalizzarsi, per fare lobby, e prendere sempre più potere arrivando ad aumentare i propri consensi attraverso delle vere e proprie televendite. Possono così raggiungere tutti, non solo gli avventori dei negozi della politica, che ormai stanno tutti chiudendo, ma anche chi dal proprio smartphone si illude di partecipare alla vita politica, con quella volubilità tipica dello spettatore svogliato delle televendite che non è interessato al prodotto, ma alle emozioni suscitate dal vanitoso e estroso banconista di turno.
 
L’avvocatura generalista negli ultimi tempi, a sua volta, si è molto distratta. Ha incentrato infatti il proprio dibattito sulla durata dei mandati delle proprie cariche istituzionali, sulla legittimità degli stessi, su una narrazione della propria attività mirata più al riconoscimento al proprio interno che nella società attraverso una attività politica e culturale di lungo respiro.
 
Anche noi penalisti, in alcuni casi, abbiamo iniziato a sottovalutare l’importanza della attività politica puramente intesa sui territori, facendoci distrarre da quella associazionistica spesso declinata solo come attività convegnistica finalizzata non tanto al confronto, ma alla propria esposizione e alla ricerca, alle volte ossessiva, del reciproco riconoscimento – in alcuni casi con toni di stucchevole bon ton – con la magistratura locale ma senza quella antinomia, senza quel sale della politica che è la ricerca della sintesi dopo il contrasto, anche forte, tra tesi e antitesi.
 
Anime troppo diverse compongono tutta l’avvocatura, unite spesso solo dalla ricerca di un nemico interno comune.  La peste del mutamento genetico del minimo comune denominatore già si era diffusa da tempo. Quel denominatore tra le varie anime di tutta l’avvocatura rappresentato dall’intendimento del proprio ruolo sociale si è ormai perso da tempo.
 
L’avvocato non è più visto da tutti gli avvocati come un risolutore dei conflitti, come un ponte tra la società e lo Stato, come la voce ferma a tutela dei diritti, ma da alcuni solo come un lavoratore.
 
Il tema economico è molto importante, in questo momento anche decisivo per il futuro dell’avvocatura, e deve essere declinato politicamente, non solo economicamente, dunque da avvocati e non da lavoratori.
 
In questo senso è un tema fondamentale, perché il grave rischio di questa devastante crisi economica è che l’avvocatura veda compromesso il proprio ruolo nel futuro.
 
C’è una intera generazione di avvocati, in questo senso, che rischia di essere spazzata via.
 
È la generazione che ora vive in una specie di mondo di mezzo, perché considerata ancora troppo giovane da quella successiva – fonte della maggior parte delle dirigenze dell’avvocatura nazionale e locale – e già non più giovane da quella precedente, quella formata dai colleghi veramente giovani, veri e propri eroi che hanno da poco intrapreso la professione.
 
Una generazione particolare, un Giano bifronte di collegamento tra le due generazioni, che ascolta sia le ansie e le idee di quella più giovane sia quella che dirige.
 
Una generazione che tenta di declinare le idee e i principi fondanti l’idea del diritto penale liberale e del giusto processo in una chiave di modernità e con un linguaggio più universale, in modo che possano essere compresi e fatti propri dagli avvocati più giovani ma anche dai cittadini.
 
Una generazione che rischia ora di trasformarsi nella “Setta dei poeti estinti”, come nel film L’Attimo fuggente, rifugiandosi all’interno di una caverna per leggere in pochi alla luce di una torcia dei principi in versi, senza più declamarli ma soprattutto declinarli nelle aule.
 
Una generazione che deve fondare ogni proprio ragionamento sul quel proverbio indiano che ci ricorda che non ereditiamo la terra dai nostri padri, ma la prendiamo in prestito dai nostri figli.
 
Un principio non sempre seguito in passato, ma che ora più che mai occorre tenere ben presente, affinché le difficoltà economiche non abbiano le stesse conseguenze delle epidemie che nel corso della storia hanno fiaccato e decimato intere generazioni, facendo perdere ad una intera generazione di avvocati la voglia (e la possibilità) di impegnarsi nelle aule per dare battaglia e di partecipare attivamente alla rifondazione dei valori che ci aspetta e che sarà necessaria dopo che il mondo in cui viviamo ha dimostrato tutta la sua debolezza strutturale.
 
L’avvocatura istituzionale ha il dovere di affermare con forza “whatever it takes”, tutto quello che occorre per preservare il ruolo e la funzione dell’avvocatura. Ai penalisti il compito di ragionare su idee e soluzioni in tal senso, per l’avvocatura penale.
 
Altrimenti nel futuro il nostro esercito civile sarà composto solo da anziani generali e giovanissimi soldati semplici, poco liberi come avvocati perché economicamente depressi, in un cortocircuito politico e comunicativo in cui la catena delle idee, delle passioni, dell’impegno, sarà spezzata dall’assenza dei sottoufficiali e degli ufficiali di collegamento, formatisi in questi anni nella più alta scuola politica in tal senso (e non solo): l’Unione delle Camere Penali Italiane.