CSM: L’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI GIUDIZIARIE REQUISITO PER LA PERMANENZA NELLA CARICA DI CONSIGLIERE TOGATO
di Rinaldo Romanelli[1] e Giorgio Varano[2]
L’esercizio delle funzioni giudiziarie è da considerarsi requisito necessario per la permanenza nella carica del componente togato del Consiglio superiore della magistratura. Non è immaginabile uno statuto autonomo delle ipotesi decadenza, i principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa sono estremamente chiari: il magistrato che nel corso della carica di consigliere togato del CSM cessasse dalle funzioni giudiziarie (anche per raggiunti limiti d’età) non potrà, in caso di mancate dimissioni volontarie, che essere dichiarato decaduto dalla predetta carica.
L’esercizio delle funzioni giudiziarie è da considerarsi requisito necessario per la permanenza nella carica del componente togato del Consiglio superiore della magistratura.
L’indispensabilità di tale requisito è ricavabile dalla lettura combinata delle norme in tema di elettorato passivo, di decadenza dalla carica e sostituzione nella stessa, oltre che dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
La capacità di elettorato passivo dei componenti togati del CSM è disciplinata dall’art. 24 della Legge n. 195 del 24 marzo 1958[3] istitutiva dell’organo di governo della magistratura.
Tale capacità è ricavata, a contrario, dalle elencate cause di non eleggibilità.
Ai sensi dell’art. 24 comma 2 della suddetta Legge, non sono eleggibili:
a) i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime ai sensi degli articoli 30 e 31 del citato regio decreto legislativo n. 511 del 1946, e successive modificazioni;
b) gli uditori giudiziari e i magistrati di tribunale che al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica;
c) i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni abbiano subìto sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare;
d) i magistrati che abbiano prestato servizio presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni;
e) i magistrati che abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni.
Da una lettura formalistica della norma non appare con chiarezza se il requisito dell’esercizio delle funzioni giudiziarie debba essere presente solo al momento dell’elezione, e quindi quale requisito per la sola capacità di elettorato passivo, o se sia requisito per la permanenza nella carica di consigliere togato.
Da un esame delle norme in tema di decadenza, e dalla giurisprudenza sul punto, appare invece evidente che tale requisito sia richiesto non solo per l’elettorato passivo, ma anche per la permanenza nella carica.
La disciplina della decadenza dalla carica di componente del Consiglio superiore della magistratura trova la sua definizione nell’art. 37 della legge n. 195 del 24 marzo 1958.
La richiamata disposizione (che prevede anche i casi di sospensione dalla carica di componente del Consiglio) elenca espressamente alcune ipotesi.
La prima regola di decadenza è dettata dal quarto comma ed è riferita indistintamente a tutti i componenti del CSM i quali “decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo”.
La seconda regola è dettata dal comma successivo e si riferisce esclusivamente ai “magistrati componenti il Consiglio Superiore”, i quali “incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento”.
L’eventuale decadenza (così come la sospensione) è deliberata dal Consiglio superiore.
L’ultimo comma disciplina l’ipotesi, riferita esclusivamente ai componenti eletti dal Parlamento, in cui il procedimento penale sia stato definito con il proscioglimento determinato da una causa estintiva del reato, o “per impromuovibilità o improseguibilità dell’azione penale”, evenienze nelle quali il Presidente del Consiglio superiore dà comunicazione “ai Presidenti delle due Camere, le quali decidono se debba farsi luogo a sostituzione”.
La sostituzione dei componenti togati è, invece, regolata dall’art. 39, secondo il quale: “Il componente eletto dai magistrati che cessa dalla carica per qualsiasi ragione prima della scadenza del Consiglio superiore della magistratura è sostituito dal magistrato che lo segue per numero di preferenze nell’ambito dello stesso collegio”; qualora tale meccanismo non possa operare, si procede a nuove elezioni.
Nessun esplicito riferimento è fatto al caso in cui il componente togato eletto al Consiglio superiore cessi dalla sua funzione di magistrato, per qualsiasi causa, sia essa determinata dalle dimissioni volontarie, o per raggiunti limiti di età, con il conseguente collocamento in stato di quiescenza.
Questa eventualità, lungi dal non essere elencata dall’art. 37 nelle cause di decadenza perché improduttiva di tali effetti, pare piuttosto non espressamente nominata perché l’appartenenza al corpo della magistratura costituisce il presupposto indefettibile, o se si preferisce una precondizione, per continuare ad esercitare le proprie funzioni di rappresentanza in seno al Consiglio superiore.
Della questione ha avuto modo di occuparsi dapprima il Tribunale Amministrativo Regionale della Regione Lazio e poi, in sede di impugnazione, il Consiglio di Stato ed in entrambi i casi è stata, appunto, risolta nel senso sopra indicato.
L’occasione di “ingaggio” è stata offerta dall’applicazione dell’art. 16 del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 e delle conseguenti circolari del Consiglio superiore del 4 novembre 2008 e del 20 gennaio 2010.
La vicenda in breve.
Un magistrato ordinario, eletto alle elezioni del luglio 2010 per il rinnovo dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura nel collegio unico nazionale di cui alla lettera b) del comma 2 dell’art. 23 della legge 24 marzo 1958, n. 195, ha chiesto e ottenuto di essere trattenuto in servizio fino al settantacinquesimo anno di età, ai sensi del già menzionato art. 16 del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503[4].
La disposizione normativa sopra richiamata prevedeva che la domanda di trattenimento in servizio dovesse essere presentata dall’interessato dai 24 ai 12 mesi antecedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo.
Nel caso in questione il magistrato aveva formulato la propria richiesta di trattenimento in ritardo rispetto ai termini di legge.
Il Consiglio superiore aveva accolto la richiesta di trattenimento in servizio, pur se presentata successivamente allo spirare del termine, ritenendo il predetto termine non perentorio, bensì ordinatorio.
La relativa delibera di trattenimento del Consiglio superiore, nonché le circolari già ricordate del 4 novembre 2008 e del 20 gennaio 2010, disciplinanti le modalità di trattenimento in servizio, sono state impugnate, da altro magistrato risultato primo dei non eletti, perché ritenute illegittime proprio a cagione della non corretta qualificazione del termine di legge che, secondo la prospettazione del ricorrente, avrebbe avuto natura perentoria.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Regione Lazio ha accolto il ricorso, annullando sia la delibera di trattenimento in servizio, che le circolari impugnate[5].
Il controinteressato ha interposto appello avverso la menzionata sentenza, articolando vari motivi, con i quali ha sostenuto numerose argomentazioni, tra le quali, per quanto rileva ai presenti fini:
“- che, peraltro, il ricordato art. 39 fa riferimento, nel prevedere il subentro del primo dei non eletti, alle ipotesi di cessazione “dalla carica” dei componenti eletti, e non a quelle di cessazione dal servizio di essi;
– che, conseguentemente, occorrerebbe far riferimento ai casi espressamente previsti di decadenza o cessazione dalla carica (artt. 37 e 39 della stessa legge nr. 195 del 1958), fra i quali non è ricompreso il collocamento in quiescenza del magistrato eletto;
– che, per converso, dall’art. 24 della medesima legge si ricaverebbe che la qualità di magistrato in servizio costituisce presupposto per l’eleggibilità del magistrato al C.S.M., ma non anche che tale qualità debba sussistere per tutta la durata del mandato, che è stabilita in quattro anni da espresse disposizioni anche di rango costituzionale”[6].
Il Consiglio di Stato[7] ha disatteso frontalmente le tesi dell’appellante affermando che:
“è opinione della Sezione che la questione non coinvolga il diritto di elettorato passivo e sue eventuali limitazioni, ma attenga piuttosto al presupposto stesso che la legge contempla per il conseguimento della qualità di componente elettivo togato del C.S.M.; infatti, una lettura formalistica del già citato art. 24 della legge nr. 195 del 1958 o di altre disposizioni in materia appare decisamente insufficiente a illuminare sui principi e sulla ratio sottesi alla disciplina tutta in materia di autogoverno della magistratura.
Se, infatti, per “autogoverno” deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione di una determinata istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base ad un principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano.
In altri termini, il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare.
Di conseguenza, del tutto legittima è una lettura dell’art. 39, l. nr. 195/1958 laddove prevede il subentro del primo dei non eletti in caso di cessazione dalla carica “per qualsiasi ragione”, ben potendo ricomprendersi in tale ampia formula anche l’ipotesi suindicata senza alcuna indebita estensione analogica di norme eccezionali e senza alcuna violazione de principi di rango costituzionale”[8].
Chiarito in termini inequivoci tale aspetto, il Consiglio di Stato ha poi accolto l’appello, ritenendo legittima la delibera di trattenimento in servizio pronunciata dal C.S.M., in ragione della natura ordinatoria del termine di legge entro il quale avrebbe dovuto essere formalizzata la richiesta da parte del magistrato interessato al trattenimento[9].
Non si rinvengono altri precedenti specifici in materia, ma in relazione alla collocazione a riposo del Presidente del Collegio dei revisori dell’istituto nazionale per il commercio estero si è espressa la Corte dei Conti, statuendo che: “Non è conforme a legge la permanenza in carica del Presidente del collegio dei revisori dell’istituto nazionale per il commercio estero, nominato nella qualità di Magistrato della Corte dei Conti, successivamente al suo collocamento a riposo, sia perché la cessazione dal servizio comporta la perdita dello “status” magistratuale (per cui suol dirsi che il collocato a riposo diventa estraneo all’amministrazione) sia perché la specifica previsione normativa dell’art. 12 dello statuto dell’ente (“il collegio dei revisori è composto”…) non può postulare interpretazione diversa da quella che ipotizzi il possesso di tutti i requisiti soggettivi prescritti per la nomina dei suoi componenti non solo in quella fase ma durante l’intero periodo di esercizio dell’incarico”[10].
L’affermazione risulta persuasiva ed apparirebbe irrazionale sostenere che il componente togato, pur orfano del proprio “status magistratuale” e divenuto “estraneo all’amministrazione” possa comunque continuare ad esercitare le proprie funzioni all’interno del Consiglio superiore.
Quanto al dato testuale valorizzato dalla pronuncia da ultimo richiamata, l’intera legge istitutiva del Consiglio superiore appare disseminata di riferimenti a “magistrati”, o al “magistrato” che esercita determinate “funzioni”[11].
Anche in questo caso pare debba prendersi atto che si tratta di locuzioni normative che risultano incompatibili con l’ipotesi che colui il quale abbia perso la sua qualifica di magistrato, per essere stato collocato in stato di quiescenza, possa continuare a ricoprire la carica di componente del C.S.M. ed a esercitare le relative funzioni.
Un altro aspetto da considerare è quello disciplinare.
La cessazione dal servizio per collocamento a riposo (anche per limiti d’età) prima del passaggio in giudicato della pronuncia di condanna, del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare, comporta l’estinzione del procedimento, proprio in ragione del venir meno dell’appartenenza dell’incolpato all’ordinamento giudiziario[12].
Il consigliere togato del CSM cessato dalle funzioni giudiziarie per sopraggiunti limiti d’età, che continuasse a ricoprire la carica di consigliere, si troverebbe in una posizione di immunità dal procedimento disciplinare come magistrato, pur essendo stato eletto in ragione di tale funzione e dunque, non potrebbe più operare nei suoi confronti la previsione di decadenza automatica prevista dal comma dell’art. 39, che scatta necessariamente ogniqualvolta sia comminata, all’esito del procedimento disciplinare, una sanzione più grave dell’ammonimento[13].
Resterebbe, comunque, escluso dalla previsione dettata dall’ultimo comma della menzionata disposizione, poiché riferita esclusivamente all’ipotesi in cui il componente eletto dal parlamento si veda prosciolto dal procedimento penale, per una causa estintiva del reato, ovvero per impromovibilità o improseguibilità dell’azione penale[14].
Si delineerebbe così una sorta di statuto autonomo delle ipotesi decadenza, applicabile esclusivamente al componente togato (non più togato) posto in quiescenza, ricavabile a contrario dalla disciplina dettata in materia da un legislatore che, con tutta evidenza, non ha inteso contemplare tale eccentrica eventualità.
Pertanto, non solo per i condivisibili principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa ricordati nel corpo del presente scritto, ma anche per ragioni di opportunità istituzionale, il magistrato che nel corso della carica di consigliere togato del Consiglio superiore cessasse dalle funzioni giudiziarie (anche per raggiunti limiti d’età) non potrà, in caso di mancate dimissioni volontarie, che essere dichiarato decaduto dalla predetta carica (e quindi sostituito con le modalità stabilite dall’art. 37 della Legge n. 195 del 1958).
[1] Responsabile dell’Osservatorio sull’Ordinamento Giudiziario dell’Unione Camere Penali Italiane.
[2] Responsabile della Comunicazione dell’Unione delle Camere Penali Italiane, segretario di redazione di “Diritto di Difesa”.
[3] Legge 24 marzo 1958, n. 195 “Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura”, integrata e modificata dalla legge 22.12.1975 n. 695 e poi dalla Legge 28.3.2002 n. 44
[4] L’art. 16 del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, prevedeva per tutti i dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici la facoltà di permanere in servizio oltre il limite di età per il collocamento a riposo previsto in via ordinaria. Tale permanenza, prevista nella misura massima di due ulteriori anni, era estesa dal comma 1 bis della menzionata disposizione, per i magistrati ordinari e amministrativi, i magistrati della giustizia militare ed avvocati dello Stato fino al compimento del settantacinquesimo anno di età. L’art. 16 già richiamato è stato abrogato dal D.L. n. 90 del 2014 ed attualmente in forza dell’art. 5 del D.lgs., 31 maggio 1946, n. 511, l’età massima di permanenza in servizio per le categorie sopra indicate è fissata al compimento del settantesimo anno di età.
[5] T.A.R. del Lazio, Sezione Prima, n. 2416/2011, depositata il 21 marzo 2011.
[6] Cfr sintesi dei motivi di impugnazione operata dal Consiglio Stato nella citata sentenza.
[7] Cons. Stato Sez. IV, Sent., (ud. 04-11-2011) 16-11-2011, n. 6051.
[8] Sent. Cit.
[9] Sul punto il Consiglio di Stato ha affermato che la necessità di presentare la domanda entro un determinato termine “viene a configurarsi non già come un onere imposto all’interessato in vista della realizzazione di un suo proprio interesse, ma piuttosto come preordinata a garantire all’amministrazione la possibilità di ponderare adeguatamente le condizioni che possono legittimare l’accoglimento dell’istanza (e, in particolare, le “proprie esigenze organizzative e funzionali”). Trattandosi dunque di termini sostanzialmente ispirati da esigenze di buon andamento riconducibili all’art, 97 Cost., non è ragionevole ritenere che il potere discrezionale così riconosciuto in capo all’amministrazione venga meno, o comunque non sia più esercitabile, per il solo fatto che la richiesta di trattenimento in servizio sia stata depositata al di fuori dei termini medesimi”.
[10] Corte Conti sezione contr. Enti, 26 aprile 1995, n. 25.
[11] A titolo puramente esemplificativo all’art. 4, relativo alla composizione della commissione disciplinare si legge “due magistrati che esercitano le funzioni di cui all’articolo 23, comma 2, lettera c); un magistrato che esercita e funzioni di cui all’articolo 23, comma 2, lettera b)”.
[12] Secondo il costante insegnamento espresso dalla Sezione disciplinare dello stesso CSM, nonché dal consolidato orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite della Suprema Corte, a riguardo e multis si vedano: Cassazione Civile Sez. Un. – 12 febbraio 2010, n. 3245; Cassazione Civile Sez. Un. – 1 dicembre 2010, n. 24304; richiamato anche, pur con differente soluzione determinata dalla peculiarità del caso concreto (nel quale il procedimento disciplinare non poteva ritenersi estinto ispo iure poiché, essendovi stata sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio, permaneva l’interesse dell’Amministrazione all’accertamento definitivo in ordine alle eventuali responsabilità disciplinari dell’incolpato, ai fini della ricostruzione della carriera, anche in prospettiva previdenziale) da Cassazione Civile Sez. Un. 18 – luglio 2019, n. 18264.
[13] Art. 39, settimo comma, Legge n. 195 del 1958: “I magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento”.
[14] Art. 39, settimo comma, Legge n. 195 del 1958: “Nei casi di proscioglimento per una causa estintiva del reato, ovvero per impromovibilità o improseguibilità dell’azione penale, relativi a componenti eletti dal Parlamento, il Presidente del Consiglio superiore ne dà comunicazione ai Presidenti delle due Camere, le quali decidono se debba farsi luogo a sostituzione”.