GIUDIZIO ABBREVIATO E DELITTI PUNITI CON LA PENA DELL’ERGASTOLO: BREVI NOTE A MARGINE DELLA SENTENZA COSTITUZIONALE N. 260 DEL 2020 – DI ELENA VALENTINI
Giudizio abbreviato e delitti puniti con la pena dell’ergastolo: brevi note a margine della sentenza costituzionale n. 260 del 2020.
Summary proceedings (“giudizio abbreviato”) and crimes punished with life imprisonment.
di Elena Valentini
Brevi note di commento alla pronuncia con cui il Giudice delle leggi ha escluso l’incompatibilità costituzionale della preclusione – introdotta con la legge 12 aprile 2019, n. 33 – alla possibilità di celebrare il rito abbreviato ove si proceda per delitti puniti con l’ergastolo. Sebbene tale novità normativa non contrasti con la Carta Fondamentale, la riforma del 2019 resta comunque difficile da condividere, sollecitando una riflessione rispetto a possibili opzioni alternative e più adeguate allo scopo perseguito dal legislatore.
The paper analyzes the decision by means of which the Constitutional Court (n. 260/2020) has excluded that the denial of the possibility to opt for summary proceedings where crimes punished with life imprisonment are prosecuted results in breach of the Constitution. In particular, in the Author’s view, the limitation, even though not unconstitutional, is not convenient. She therefore addresses alternative solutions more adherent to the aim pursued by the Legislator.
Con una pronuncia ampia e articolata, il Giudice delle leggi ha escluso l’incompatibilità costituzionale della disciplina, introdotta con l. 12 aprile 2019, n. 33, che sbarra l’accesso al rito abbreviato agli imputati di delitti puniti con la pena dell’ergastolo[1].
La novella era intervenuta su un terreno oggetto di più d’un ripensamento normativo, nella sostanza reintroducendo un assetto simile a quello vigente nel periodo compreso tra la sentenza costituzionale 23 aprile 1991 n. 176 e l’entrata in vigore della legge Carotti (l. n. 479/1999). Già durante quel periodo, infatti, il regime scaturito dalla declaratoria di illegittimità costituzionale – per eccesso di delega – che aveva investito l’art. 442 comma 2 c.p.p. aveva determinato l’impossibilità di optare per il rito abbreviato ove l’accusa concernesse un delitto punito con l’ergastolo.
Forte delle questioni interpretative e applicative scaturite da quella precedente esperienza, la riforma del 2019 ha costruito una disciplina dettagliata (ancorché comunque non del tutto esaustiva). In particolare, al suo precetto cardine – il comma 1 bis dell’art. 438 c.p.p., al centro delle censure sottoposte alla Corte costituzionale – la riforma ha affiancato altri innesti, che da un lato salvaguardano l’accesso al giudizio speciale ove l’originaria imputazione preclusiva alla sua instaurazione subisca successive rivisitazioni, e che, dall’altro, assicurano il ritorno al rito ordinario qualora l’accusa si riveli ostativa in seconda battuta, per effetto di una modifica dell’imputazione o in conseguenza di una qualificazione giuridica diversa da quella iniziale. È dunque fitto il reticolato delle disposizioni inserite nel 2019: il comma 6 dell’art. 438 c.p.p., che consente la riproposizione della richiesta di giudizio abbreviato fino a quando non siano presentate le conclusioni in seno all’udienza preliminare; il comma 2 bis dell’art. 429 c.p.p., che, per l’ipotesi della riqualificazione giuridica in bonam partem all’esito dell’udienza preliminare, accorda un termine di quindici giorni (decorrente dalla lettura o dalla notifica del decreto che dispone il giudizio) affinché l’imputato possa optare per il rito abbreviato; il comma 6 ter del medesimo art. 438, che assegna al giudice dibattimentale il potere-potere di ridurre la pena ove ritenga che per il fatto accertato fosse ammissibile il procedimento speciale. Nella prospettiva inversa – quella concernente l’uscita (forzata) dal rito – rileva invece il nuovo comma 1 bis dell’art. 441 bis c.p.p., che aggiunge una nuova ipotesi di revoca dell’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, con annesso ritorno all’udienza preliminare[2].
In questo modo, il legislatore ha superato uno dei difetti che avevano marcato la disciplina scaturita dalla sentenza costituzionale n. 176 del 1991 (rimasta in vigore fino al 1999), e che erano stati risolti da un importante intervento con cui le Sezioni unite, pur ritenendo vincolante la prospettazione accusatoria (escludendo dunque il sindacato del giudice dell’udienza preliminare sulla relativa correttezza), avevano accordato al giudice del giudizio ordinario il potere-dovere di ridurre la pena secondo l’effetto premiale caratteristico del rito speciale[3].
Anche il regime transitorio sembra far tesoro delle esperienze passate (e in particolare di quelle sfociate nella nota vicenda Scoppola): a norma dell’art. 5 l. n. 33/2015, infatti, la nuova disciplina si applica soltanto ai processi per fatti commessi dopo la sua entrata in vigore. In questo modo, il legislatore ha evidentemente inteso evitare possibili contrasti con il principio di irretroattività di disposizioni che, sebbene formalmente processuali, incidono direttamente sulla determinazione del trattamento sanzionatorio.
Le questioni di legittimità costituzionale concernenti la disciplina introdotta nell’aprile del 2019 – oggetto di ben tre ordinanze di rimessione alla Corte – si concentravano su due diversi precetti: l’art. 438 comma 1 bis c.p.p. e l’art. 5 l. n. 33/2019.
Se l’ordinanza apripista – quella del Giudice dell’udienza preliminare della Spezia[4] – coinvolgeva entrambe le disposizioni, gli atti di promovimento della Corte d’assise di Napoli e del Giudice dell’udienza preliminare di Piacenza si concentravano invece sul solo comma 1 bis dell’art. 438 c.p.p., che, come già premesso, identifica il fulcro della riforma[5]. Non si tratta delle uniche pronunce di merito che si sono confrontate con la compatibilità costituzionale della novella: se questi tre giudici hanno sollecitato l’intervento della Corte costituzionale, almeno altri due hanno invece escluso la necessità di rivolgersi al Giudice delle leggi, optando per la manifesta infondatezza della questione (e di fatto anticipando la soluzione poi fatta propria dalla sentenza costituzionale n. 260 del 2020)[6].
La questione di diritto transitorio nasceva dalle peculiarità della vicenda a monte del processo spezzino, riguardante un uomo accusato di aver ucciso la moglie per futili motivi e contrassegnata da una dinamica cronologica alquanto singolare: nel caso specifico, infatti, la condotta causativa della morte era precedente all’entrata in vigore della legge n. 33/2019, mentre il decesso della vittima (temporalmente distanziato di più di due mesi dall’aggressione) avveniva solo dopo l’intervenuta vigenza della riforma.
Nella prospettiva del giudice a quo, la specificità di questa vicenda assumeva un doppio significato: oltre a dimostrare la rilevanza della questione, essa fondava altresì una delle due questioni di legittimità costituzionale contestualmente prospettate, ossia quella concernente il contrasto dell’art. 5 l. n. 33/2019 – che racchiude la disciplina transitoria della novella – e l’art. 117 Cost., da leggersi alla luce dell’art. 7 C.E.D.U. Come già premesso, il citato art. 5 dispone infatti l’applicazione della novella ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge n. 33/2019; se riferita all’omicidio, la commissione dovrebbe quindi realizzarsi con l’evento morte. Da qui il preteso contrasto con l’art. 7 C.E.D.U., e dunque con il principio di irretroattività della legge penale: principio riferibile non solo alla legge penale sostanziale, ma anche a quella processuale, ove fornita di ricadute così immediate sulla determinazione del trattamento sanzionatorio. A sostegno di questa specifica questione concernente il regime transitorio, il Giudice dell’udienza preliminare della Spezia richiamava la giurisprudenza di legittimità, compatta nel ribadire la cogenza del principio tempus regit actum quale dogma applicabile alla disciplina processuale; una giurisprudenza che l’atto di promovimento riteneva ostativa a un’interpretazione costituzionalmente orientata, e dunque tale da determinare il necessario innesco dell’incidente di costituzionalità.
Su tale questione, la Corte si è discostata dalla prospettazione del giudice a quo. Nel farlo, ha richiamato una recente pronuncia delle Sezioni unite, stando alla quale – nel caso di reati a evento differito – «a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta»[7]. A onor del vero, questa decisione era menzionata anche nell’ordinanza del G.u.p. spezzino; tuttavia, il fatto che il relativo insegnamento avesse ad oggetto norme sostanziali – e non processuali – aveva indotto il giudice rimettente a scartarne l’applicabilità nel processo al suo esame. Ma la Corte costituzionale, di opposto avviso (e in linea con quanto ritenuto dall’Avvocatura dello Stato) ha ritenuto che, nel caso di reati a evento differito, il tempus commissi delicti vada identificato nel momento in cui si realizza la condotta. Nel giungere a tale conclusione, la sentenza costituzionale ha valorizzato lo scopo e la storia a monte dell’art. 5 l. n. 33/2015, che, nello stabilire l’irretroattività del mutato assetto legislativo a fatti commessi prima della relativa entrata in vigore, ha chiaramente tenuto conto delle ricadute di una disciplina che incide in modo così immediato sulla determinazione della pena.
Sulla scorta di ciò, la Corte ha dunque dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata rispetto all’art. 5 l. n. 33/2019; in questo modo, ha però anche evitato di esporsi in un’occasione che avrebbe forse consentito di rimeditare in termini più generali sugli effetti sperequativi suscettibili di scaturire dalla dicotomia tra l’etichetta sostanziale o processuale di una determinata disposizione. Sebbene infatti non siano (anche recentemente) mancate decisioni che hanno valorizzato il contenuto di norme formalmente ascrivibili al diritto processuale[8], la contrapposizione tra diritto sostanziale (soggetto al principio di irretroattività) e diritto processuale (viceversa governato dal dogma del tempus regit actum) resta comunque ben radicata, così com’è ad esempio dimostrato, oltre che dagli interventi della Corte costituzionale nell’ambito della nota saga Taricco[9], anche dalla recentissima sentenza costituzionale n. 278 del 2020, con cui il Giudice delle leggi ha escluso l’incompatibilità con l’art. 25 comma 2 Cost. del regime di sospensione della prescrizione stabilito dall’art. 83, comma 4, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19.
Passando alla questione centrale, sollevata da tutti i giudici rimettenti – e dunque quella concernente il cuore della riforma operata nell’aprile del 2019 – i parametri posti a sostegno delle eccezioni di legittimità costituzionale della preclusione stabilita dall’art. 438 comma 1 bis erano numerosi: accanto all’art. 3 Cost., gli artt. 24, 27 comma 2, 111, commi 1 e 2, 117 comma 1 Cost., in relazione all’art. 6 Cedu. Tuttavia, nonostante la ricchezza delle sollecitazioni – che ha posto le premesse per una pronuncia dal contenuto decisorio complesso (declaratoria in parte di inammissibilità, in parte di infondatezza e in parte di infondatezza manifesta) – il nucleo essenziale delle censure comuni alle tre ordinanze ha fatto leva – com’è facile intuire – sull’art. 3 Cost. E su questo profilo concentreremo la nostra breve sintesi.
Nella prospettiva dei giudici a quo, la fondatezza della questione sarebbe corroborata da numerosi argomenti. Innanzitutto, dalla constatazione che la previsione astratta della pena dell’ergastolo accomuna fatti di gravità diversa, e questo anche ove tali fatti siano riconducibili alla stessa fattispecie criminosa[10].
Un’altra dimostrazione di irragionevole disparità di trattamento riguarderebbe, poi, le numerose ipotesi in cui la punibilità con l’ergastolo discende dalla contestazione di taluni delitti in forma aggravata: rispetto a tali fattispecie, si riscontrerebbe una violazione dell’art. 3 Cost. dovuta alla differenza (in termini di accessibilità al rito) tra la situazione in cui l’aggravante determinante la punibilità con l’ergastolo “cada” (poiché ritenuta non sussistente) rispetto a quella in cui la medesima aggravante venga elisa dalla contestuale presenza di una o più attenuanti coinvolte nel giudizio di comparazione ex art. 69 c.p.
Infine, un distinto fattore determinante l’irragionevolezza della riforma andrebbe ricondotto al fatto che la legge del 2019 ha scelto una risposta eccessiva (ed eccessivamente penalizzante per l’imputato) rispetto allo scopo perseguito, identificabile nella volontà di assicurare un’adeguata risposta sanzionatoria a fatti criminosi particolarmente gravi. Uno scopo che dunque, in quanto tale, ben avrebbe potuto (e dovuto) essere perseguito intervenendo sul diritto penale sostanziale e non su quello processuale.
A fronte di queste censure – comuni, sia pure con accenti vari, a tutti gli atti di promovimento pervenuti a Palazzo della Consulta – la Corte costituzionale ha scelto di richiamarsi ai propri precedenti, identificabili essenzialmente nell’ordinanza n. 163 del 1992 (che si era espressa su una disciplina del giudizio abbreviato analoga a quella introdotta con la legge n. 33/2019) e nell’ordinanza n. 455 del 2006, che ha invece preso in esame i rapporti tra le preclusioni all’accesso al patteggiamento e l’art. 3 Cost.
Stando a queste pronunce – da cui (com’era pronosticabile) la Corte ha scelto di non discostarsi – le eventuali preclusioni ai riti speciali possono essere censurate solo là dove arbitrarie o non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione. Non essendo questo il caso, la Corte ha dunque optato per la declaratoria di infondatezza della questione. Del resto, quella racchiusa nella novella del 2019 non è certo l’unica disciplina che ritaglia un regime processuale differenziato in funzione dell’astratta gravità del reato oggetto del procedimento. Né la circostanza che lo sbarramento al rito abbreviato introdotta nel 2019 dipenda dall’esistenza o meno di una circostanza aggravante identifica un tratto di peculiarità di questa disciplina; tale scelta risponde infatti a quanto prescritto dall’art. 4 c.p.p.: disposizione che, sebbene racchiusa nel corpo di norme dedicate ai criteri attributivi della competenza, detta una regola di carattere generale (che per esempio ritorna in termini molto simili anche nell’art. 278 c.p.p.), là dove appunto assegna rilevanza ad alcune tipologie di circostanze, tra cui quelle ad effetto speciale e quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
Più in generale, a sostegno della propria conclusione, la Corte svolge una considerazione ulteriore: buona parte delle censure mosse dai rimettenti si concentravano sul riflesso processuale del trattamento sanzionatorio già fissato dal diritto penale sostanziale; per tale ragione, tali critiche sono conseguentemente risultate “fuori fuoco”.
Sebbene ciò non individui un argomento decisivo nell’economia della pronuncia, nel difendere la non sindacabilità della recente scelta legislativa la Corte ha preso in esame le ragioni a monte della novella, così come esplicitate nei lavori parlamentari. A tale proposito, il Giudice delle leggi è andato oltre le prospettazioni dei giudici a quo, che hanno valorizzato l’intento – espressamente dichiarato nella relazione di accompagnamento alla legge n. 33 del 2020 – di evitare l’effetto premiale connesso al rito abbreviato ove il processo abbia ad oggetto delitti particolarmente gravi[11]. In particolare, menzionando le ragioni illustrate in un progetto di legge distinto da quello poi approvato dal Parlamento[12], la sentenza rammenta le ulteriori motivazioni che possono fondare tale opzione, individuandole nella volontà di restituire l’accertamento di delitti particolarmente gravi al dibattimento pubblico e – soprattutto – alla competenza riservata alla Corte d’assise.
Ad ogni modo, se anche la novella fosse esclusivamente intesa ad assicurare un trattamento sanzionatorio esemplare rispetto a vicende connotate da particolare gravità (così come dichiarato nella relazione di accompagnamento), ci troveremmo comunque al cospetto di una scelta politica inopportuna – o non condivisibile – ma non per questo in contrasto con la Costituzione.
Fallito il tentativo dell’incidente di costituzionalità, gli effetti della riforma del 2019 restano comunque manifesti, così come segnalati dalla dottrina[13], dal Consiglio Superiore della Magistratura e dall’Unione delle Camere penali (intervenuta quale amicus curiae nel giudizio di costituzionalità[14]).
All’atto pratico, le conseguenze concrete della legge risultano indirettamente attestate dalle statistiche, stando alle quali – come ricordato nel parere espresso dal C.S.M. in vista del varo della novità normativa[15] – prima della novella, circa il 70% dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo veniva trattato nelle forme del rito abbreviato, con una proporzione molto più alta rispetto a quella descritta dai dati generali sui procedimenti definiti con tale procedimento speciale.
È dunque chiaro l’impatto della novella, non a caso tacciata (da tutti e tre gli atti di promovimento dell’incidente di costituzionalità) di cozzare anche contro il principio della ragionevole durata del processo. Sebbene la relativa censura sia stata superata dalla Corte costituzionale[16], la modifica avrà pesanti ricadute sui tempi di celebrazione del processo: sia sul singolo processo (quello non più affrontabile con il rito abbreviato), sia, più in generale, sulla durata dei processi complessivamente considerati, in particolare in conseguenza delle difficoltà organizzative e gestionali che andranno a colpire gli uffici giudiziari di dimensioni più piccole.
Le statistiche appena segnalate ci consegnano infatti questo dato empirico, confermato anche dalle tre vicende processuali all’origine delle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale: il ricorso massiccio al rito abbreviato per imputazioni particolarmente gravi si associa spesso a quadri probatori fortemente indizianti, non di rado accompagnati dalla confessione dell’imputato, e dunque tali da far pronosticare un esito processuale di condanna pressoché certo. In tali contesti, il passaggio necessitato per l’istruzione dibattimentale si rivela del tutto superfluo, e dunque inutilmente defatigante per il sistema (oltre che per le parti processuali).
Nonostante la novella sia molto recente, questa constatazione – forte degli inconvenienti pratici che a breve cominceranno a farsi sentire in concreto – dovrebbe poter indurre un ripensamento normativo, non impensabile ove si accantonasse la logica populistica che ha contraddistinto (in particolare) la politica legislativa del passato Governo, e specie là dove si consideri l’insieme delle proposte de iure condendo racchiuse nel disegno di legge presentato il 13 marzo 2020 dal Ministro della giustizia Bonafede[17]: il testo – chiaramente indotto dal velleitario intento di giustificare il mutato assetto della disciplina della prescrizione (istituto sul quale il medesimo disegno di legge si propone comunque di intervenire per l’ennesima volta) – racchiude infatti numerose proposte intese a potenziare l’efficienza del processo penale. Una delle direttrici più significative punta sul rafforzamento dei riti speciali, da operare mediante una serie di innovazioni tra cui spicca l’idea di estendere l’operatività del patteggiamento fino a consentire l’applicazione di una pena concordata di otto anni di detenzione[18].
È chiaro come un simile disegno di riforma si ponga in totale controtendenza con la legge n. 33 del 2019. Le ragioni di tale disallineamento vanno ricondotte agli scopi perseguiti dal legislatore con quella novella, e che (come già visto) si riconducono alla volontà di scongiurare un ridimensionamento della risposta sanzionatoria avvertito come eccessivo (e come tale spesso rivelatosi indigesto all’opinione pubblica).
Se dunque è vero che lo scopo della legge appena passata indenne al vaglio di legittimità costituzionale guarda al quantum di pena (seguendo una dinamica inversa a quella che, nel 2017, aveva ampliato l’effetto premiale del rito avente ad oggetto un reato contravvenzionale), l’esame del disegno di legge “Bonafede” potrebbe forse costituire l’occasione per una retromarcia intesa ad ampliare nuovamente l’operatività del rito abbreviato, da rendere ancora applicabile a qualsiasi regiudicanda.
In questo modo, si potrebbe scongiurare il difetto di efficienza conseguente alla celebrazione di un dibattimento ritenuto non necessario innanzitutto dalla difesa, schivando altresì gli effetti cui è inevitabilmente destinata a dar luogo la disciplina introdotta nel 2019: una disciplina che, oltre a determinare la possibile duplicazione dei processi nelle ipotesi di imputazioni cumulative concernenti reati solo in parte definibili con rito abbreviato, ove l’imputazione venga rideterminata (in fatto o in diritto) in termini preclusivi al rito speciale impone la revoca dell’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato (con annessa reviviscenza dell’udienza preliminare).
In questa prospettiva, si potrebbero ipotizzare proposte de iure condendo più equilibrate e idonee allo scopo, tali da superare la logica che ha permeato la legge n. 33 del 2019 (rendendo le regole processuali serventi al paradigma sanzionatorio[19]). Varie le soluzioni prospettabili: accanto a una ridefinizione dell’effetto premiale del rito (cui potrebbe essere associato un tetto massimo, o che potrebbe essere predeterrminato per scaglioni, in funzione del quantum di pena concreta cui applicare la riduzione), si potrebbe anche ipotizzare di incidere esclusivamente sul diritto penale sostanziale[20].
Queste idee non sono affatto nuove, essendo state già sostenute in passato: nella prima direzione si era mosso il progetto di riforma elaborato dalla Commissione Canzio, che, al fine di «riequilibrare l’effetto incentivante della diminuente processuale e di limitare la sua incidenza eccessiva in caso di irrogazione di pene superiori […]», aveva prospettato di «modularne l’entità in ragione della gravità del reato per cui si procede»[21]: sebbene quel progetto non si fosse prefisso di intervenire sulla disciplina allora vigente per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo, l’idea espressa in tale occasione ben potrebbe essere ripresa per salvaguardare un pieno accesso al rito al contempo tentando di scongiurarne la dinamica «potenzialmente distorsiva del principio di proporzionalità e foriera di una vera e propria “trappola di deterrenza”»[22].
Nella seconda direzione – un intervento mirato su istituti di diritto sostanziale – si era invece orientata la proposta di legge C. 460 del 3 aprile 2018[23], che, con il proposito di intervenire sull’art. 69 c.p., si riprometteva di escludere la possibilità di giudicare equivalenti o prevalenti le circostanze attenuanti che concorressero con determinate aggravanti (quelle, particolarmente “odiose”, di cui ai numeri 1 e 4 dell’art. 61).
Oltre a lasciare impregiudicato l’ingresso generalizzato al rito abbreviato, un intervento mirato a incidere su istituti di diritto penale sostanziale – limitando i possibili effetti del giudizio di comparazione fra le circostanze, oppure ridefinendo alcune fra le fattispecie incriminatrici – condurrebbe senz’altro a risultati più razionali, ove si consideri che, nella vigenza della legge n. 33 del 2019, «chi a seguito di abbreviato viene condannato a trent’anni continuerà a vedere ridotta la pena a venti anni», con uno sconto di pena non meno iniquo di «quello di cui poteva usufruire chi, avendo scelto il rito abbreviato, si vedeva applicata la pena dell’ergastolo invece della pena dell’ergastolo con isolamento diurno»[24].
Né la circostanza che i reati punibili con l’ergastolo appartengano alla competenza della Corte d’assise identifica uno sbarramento insuperabile all’ennesima “controriforma” qui auspicata: infatti, se da un lato la Corte costituzionale aveva a suo tempo escluso l’incompatibilità con l’art. 101 comma 1 Cost. del regime precedente alla riforma del 2019[25], vanno altresì tenute in conto soluzioni – non così difficili da costruire – idonee a coniugare l’esperibilità del giudizio abbreviato e la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia[26].
*Professore associato di procedura penale Università di Bologna
[1] Per un commento (come sempre lucidissimo) alla sentenza v. G. Leo, L’esclusione del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo: infondate o inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, in Sist. pen., 7 dicembre 2020.
[2] Come già rilevato in dottrina, si tratta una soluzione parziale, poiché rende esplicita la sola reviviscenza dell’udienza preliminare, senza che sia presa in considerazione l’ipotesi in cui il “passaggio” a una contestazione preclusiva dell’accesso al rito si verifichi in un momento successivo. Per un’illustrazione dettagliata della disciplina (e dei numerosi problemi che essa solleva), si vedano, fra gli altri, A. De Caro, Le ambigue linee di politica penale dell’attuale legislatore: giudizio abbreviato e reati puniti con la pena dell’ergastolo, in Dir. pen. proc., 2018, p. 1627 ss.; C. Marinelli, Giudizio abbreviato ed ergastolo: la legge 33/2019 tra aporie esegetiche e ricadute sistemiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p.47 ss.; S. Preziosi, Ergastolo e paradigma punitivo nel fuoco del giudizio abbreviato: linee di intersezione fra diritto e processo penale, in Dir. pen. proc., 2020, p. 245 ss.; G. Spangher, Esclusi dall’abbreviato i reati puniti con l’ergastolo (l. n. 33 del 2019), in Il processo, n. 2, 1° giugno 2019, p. 492 ss.; D. Vigoni, Ancora una riforma del giudizio abbreviato: l’inammissibilità per i delitti puniti con l’ergastolo, in Dir. pen. proc., 2019, p. 918 ss.; F. Zacché, Inammissibile l’abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: osservazioni a margine della l. 12 aprile 2019, n. 33, in Proc. pen. giust., 2019, p. 1204 ss.
[3] Cass. pen., Sez. un., 6 marzo 1992, n. 2977, Piccillo, in Cass. pen., 1992, p. 1776. In tema si veda, fra gli altri, G. Lozzi, La non punibilità con l’ergastolo come presupposto del giudizio abbreviato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 376 s.
[4] La si può leggere in questa rivista, 1° marzo 2020, nonché in Sist. pen., con nota di E. Valentini.
[5] Ad essere precisi, l’ordinanza di rimessione del Giudice dell’udienza preliminare di Piacenza ha sottoposto al vaglio della Corte anche l’art. 3 l. n. 33 del 2019, ossia la disposizione che, abrogando il secondo e il terzo periodo del comma 2 dell’articolo 442 c.p.p., ha eliminato le disposizioni specificamente dedicate alla determinazione della riduzione premiale nel caso di condanna all’ergastolo (rispettivamente senza e con isolamento diurno).
[6] V. G.i.p. Alessandria, 28 maggio 2020, ord., in Sist. pen., 25 giugno 2020, con nota di E. Crippa, Pena perpetua e giudizio abbreviato: manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, e C. Ass. Santa Maria Capua Vetere, Sez. I, ord. 10 giugno 2020, ivi, 24 luglio 2020, con nota di A. Franceschini, Giudizio abbreviato e reati puniti con l’ergastolo: storia di un rapporto tormentato e di ricorrenti dubbi costituzionali.
[7] 4 Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 19 luglio 2018, in C.E.D. Cass., n. 273934, nonché in Dir. pen. cont., 2018, con nota di S. Zirulia, Le Sezioni Unite sul tempus commissi delicti nei reati c.d. ad evento differito (con un obiter dictum sui reati permanenti e abituali).
[8] Tra le decisioni più recenti della Corte costituzionale, ne sono un esempio illuminante la sentenza n. 32 del 2020, che, nel dichiarare (tra l’altro) l’illegittimità costituzionale dell’art. 656 comma 9 c.p.p., ha chiarito che «la collocazione topografica di una disposizione non può essere mai considerata decisiva ai fini dell’individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile», aggiungendo anche che il principio di irretroattività «non può non valere anche rispetto alle norme collocate nel codice di procedura penale, allorché incidano direttamente sulla qualità e sulla quantità della pena in concreto applicabile al condannato».
[9] Ci si riferisce in particolare al contenuto delle pronunce costituzionali n. 24 del 2017 e n. 115 del 2018.
[10] Un esempio fatto proprio tanto dai giudici rimettenti valorizza la differenza intercorrente tra un omicidio d’impeto in un contesto familiare e un omicidio pianificato da un’organizzazione criminale. Un’altra fonte di irragionevole disparità di trattamento – scaturita dal fatto che due dei processi a quo riguardavano omicidi del coniuge – nascerebbe invece dalla diversa risposta sanzionatoria riservata all’omicidio del coniuge anche legalmente separato (l’ergastolo) rispetto alla pena temporanea (compresa tra i ventiquattro e i trenta anni di reclusione) destinata all’imputato di aver ucciso il coniuge divorziato: imputato, quest’ultimo, a cui è dunque precluso l’accesso al rito abbreviato.
[11] Questo, in particolare, il passaggio più “illuminante” della relazione alla proposta di legge “Molteni” (A.C. n. 392-XVIII Legislatura): «se, infatti, consentire la scelta del giudizio abbreviato risulta giustificabile in via generale per motivi legati a esigenze deflative, ciò non sembra accettabile per reati che, in ragione della loro gravità, il codice penale punisce tanto severamente e che creano un grave allarme sociale nell’opinione pubblica. Desta sconcerto l’applicazione, molte volte, di pene notevolmente ridotte rispetto alla pena perpetua inizialmente prevista dal codice penale».
[12] Si tratta della proposta di legge C. 460, del 3 aprile 2018 («Modifiche al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di inapplicabilità e di svolgimento del giudizio abbreviato», di iniziativa della deputata Morani).
[13] Per tutti, v. G. Giostra, Ergastolo, stop all’abbreviato, in www.giustiziapenaleinsieme.it, 5 aprile 2019.
[14] Il relativo atto d’intervento si può leggere in questa rivista, 1° marzo 2020.
[15] C.S.M., Parere su Proposta di legge AC 392/C, abbinata alla proposta di legge AC 460/C, avente ad oggetto: “Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo” (Delibera 6 febbraio 2019), consultabile sul sito istituzionale del C.S.M., p. 6. Il documento
[16] Dopo aver premesso che «il bilanciamento tra gli inconvenienti provocati dalla disciplina censurata e le finalità dalla stessa perseguite spetta, primariamente, al legislatore», ha dichiarato che una violazione del principio della ragionevole durata del processo può essere ravvisato «soltanto allorché l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza, e si riveli invece privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa». Tale logica esigenza in questo caso viene riscontrata nella volontà di salvaguardare « la celebrazione di processi pubblici innanzi alle corti di assise per i reati puniti con l’ergastolo».
[17] Si tratta del d.d.l. (A.C. n. 2435) presentato dal Ministro della giustizia Alfonso Bonafede e rubricato Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposi-zioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello.
[18] La proposta de iure condendo è racchiusa nell’art. 4 del d.dl. A.C. n. 2435, di cui alla nota precedente. A tale prospettiva se ne affiancano altre, parimenti intese a potenziare la concreta operatività dei procedimenti speciali. Tra queste, si può segnalare la prospettata trasformazione del criterio di ammissione nella richiesta condizionata di giudizio abbreviato, e stando alla quale l’integrazione probatoria richiesta dovrebbe risultare, oltre che necessaria ai fini della decisione, idonea a produrre un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale. Nella stessa direzione si colloca, poi, la scelta di incidere sulla disciplina del procedimento per decreto, con il riconoscimento della possibilità di presentare la richiesta entro un anno dall’iscrizione del nome dell’indagato nel registro ex art. 335 c.p.p., con l’idea di subordinare l’effettiva estinzione del rito all’intervenuto pagamento della pena pecuniaria e con l’introduzione della possibilità di fruire di una riduzione di un quinto della somma dovuta a titolo di pena pecuniaria ove il pagamento intervenga entro dieci giorni dalla notificazione del decreto penale.
[19] V. in tal senso G. Di chiara, Giudizio abbreviato, reati “da ergastolo”, populismo penale e Stato di diritto, in Proc. pen. giust., 2019, n. 5, p. 1041.
[20] V. in tal senso le osservazioni già racchiuse dal C.S.M., Parere su Proposta di legge AC 392/C, cit., p. 12.
[21] Di seguito si riporta l’idea di modifica dell’art. 442 comma 2 racchiusa nella Relazione della Commissione per elaborare proposte di interventi in tema di processo penale, reperibile sul sito del Ministero della Giustizia, 10 giugno 2013): «in caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita: 1) della metà se si procede per una contravvenzione o per un delitto per il quale è prevista la reclusione non superiore nel massimo a cinque anni o la multa; 2) di un terzo se si procede per un delitto per cui è prevista la reclusione non superiore nel massimo a quindici anni; 3) di un quarto se si procede per un delitto per cui è prevista la reclusione superiore nel massimo a quindici anni. Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta. Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
[22] Il virgolettato è tratto sempre dalla relazione della “Commissione Canzio”.
[23] Proposta di legge poi “assorbita” nell’iter parlamentare della proposta poi sfociata nella legge n. 33/2019.
[24] Il doppio virgolettato è tratto da G. Giostra, op. cit.
[25] Si allude in particolare a Corte cost., ord. 2 aprile 2009, n. 102, che ha escluso l’incompatibilità costituzionale (per il prospettato contrasto con gli artt. 1, 24, 25, 101, 102 e 111 Cost.) dell’art. 438 c.p.p. «nella parte in cui demanda al giudice dell’udienza preliminare lo svolgimento del giudizio abbreviato anche nei procedimenti di competenza della corte di assise». V. anche Cass., 21 maggio 2008, Franzoni, in C.E.D. Cass., n. 240762, che ha ritenuto manifestamente infondata la medesima questione. Non così drastica la dottrina: v. ad esempio S. Lorusso, Limiti oggettivi al giudizio abbreviato, giudice naturale e pubblicità dei giudizi: considerazioni in margine alla sentenza costituzionale n. 176 del 1991, in Cass. pen., 1992, p. 533 ss., e G. Lozzi, Indagini preliminari, incidenti probatori, udienza preliminare, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, p. 1298 s. In generale, sul tema della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, si veda il recente lavoro di K. Natali, La partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia, Quest. giust., 2020, 6 novembre 2020.
[26] In questo senso v. già F. Zacché, Inammissibile l’abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: osservazioni a margine della l. 12 aprile 2019, n. 33, in Proc. pen. giust., 2019, p. 1203 s.: «si sarebbe così potuto affiancare, nei reati di competenza dell’assise, al giudice dell’udienza preliminare la componente laica, sulla falsariga di quanto avviene, mutatis mutandis, nei processi a carico dei minorenni. I giudici popolari avrebbero per tale via veicolato nel processo le diverse istanze della società nella ricostruzione del fatto e nell’irrogazione dell’eventuale sanzione, garantendo una pena sì “scontata”, ma “pronta”, perché all’esito di un processo “breve”».