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GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 1/2022

GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 1/2022

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GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 1/2022

A cura di Anna Onore e Giovanni Sodano, dottorandi di ricerca presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, con il coordinamento di Andreana Esposito, Professore Associato di Diritto Penale presso la medesima Università e componente dell’Osservatorio Europa UCPI

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE, “ASSOCIAZIONE POLITICA NAZIONALE LISTA MARCO PANNELLA E RADICALI ITALIANI C. ITALIA”, 31 AGOSTO 2021, RIC. N. 20002/13

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha escluso, all’unanimità, la presenza di una violazione dell’articolo 10 (diritto alla libertà di espressione) e ritenuto sussistente una violazione dell’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo).

Il caso riguarda la sospensione di alcuni programmi elettorali nell’ambito delle apposite “piattaforme” previste nella televisione di Stato. I ricorrenti, due associazioni politiche, denunciano una violazione del loro diritto di comunicare le loro idee e opinioni.

La Corte rileva che, nella specie, i programmi erano stati interrotti a causa dell’inerzia da parte della “commissione di vigilanza” – organo politico che esprime la volontà del Parlamento italiano in ordine all’organizzazione e allo svolgimento del servizio pubblico radiotelevisivo – che aveva cessato di fornire alle reti RAI le istruzioni necessarie per organizzare le trasmissioni politiche in questione.

Il formato dei programmi risaliva ai primi anni ’70, quando il contesto sociale era molto diverso da quello di oggi. Tutti i gruppi politici e i partiti che vi hanno preso parte, senza distinzione, avevano risentito delle conseguenze della cessazione. La sostituzione graduale di queste “piattaforme politiche” con dibattiti politici caratterizzati da un livello maggiore di approfondimento aveva consentito alla RAI di beneficiare di maggiore libertà editoriale. La cessazione della “piattaforma politica” è, dunque, da inquadrarsi nel contesto dell’evoluzione generale della radiotelevisione statale in Italia.

La Corte ha osservato, tuttavia, che l’associazione ricorrente non aveva avuto un effettivo rimedio legale al fine di contestare la cessazione dei programmi in oggetto. Costituendo la decisione assunta ai sensi della legge n. 103 del 1975 dalla Commissione di vigilanza secondo il diritto nazionale un atto politico e, quindi, insindacabile, all’associazione ricorrente non era stato concesso un ricorso interno effettivo, determinandosi, pertanto, una violazione dell’articolo 13 della Convenzione.

Violazione dell’art. 13 della Convenzione

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, VOLODINA C. RUSSIA, 14 SETTEMBRE 2021, RIC. N. 40419/19

La ricorrente censura il comportamento delle autorità russe, non essendo quest’ultime rivelatesi in grado di proteggerla dai reiterati atti di cyberviolenza del suo partner, il quale aveva creato profili falsi a suo nome, pubblicato le sue foto intime, seguito i suoi movimenti e inviatole minacce di morte attraverso i social media. La Corte ha accertato una violazione dell’art. 8 della Convenzione, osservando come, pur disponendo degli strumenti giuridici per perseguire il partner della ricorrente, le autorità non hanno svolto un’indagine efficace e adottato misure adeguate ed effettive per proteggere il richiedente dalle molestie online subite dalla vittima. La Corte ha riconosciuto che, sebbene privo di una disciplina puntuale del fenomeno della violenza domestica, il diritto russo contiene sia istituti civilistici sia disposizioni penali poste a presidio della vita privata del singolo, cui nella specie non è stata, nondimeno, data corretta attuazione.

In proposito, la Corte ribadisce che gli Stati aderenti sono tenuti a istituire e applicare in modo efficace un sistema di sanzione per tutte le forme di violenza domestica, sia che si verifichino offline che online, e a fornire garanzie sufficienti per le vittime.

Tali constatazioni rispecchiano quelle di una precedente sentenza riguardante la stessa ricorrente, “Volodina v. Russia” (n. 41261/17), in cui la Corte europea ha ritenuto che la risposta delle autorità russe ai ripetuti atti di violenza domestica fosse manifestamente inadeguata.

Violazione dell’art. 8 della Convenzione

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, HISSEL C. BELGIO, 21 SETTEMBRE 2021, RIC. N. 8638/2021

Nel caso Hissel c. Belgio la Terza Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non ha riscontrato la violazione dell’art. 7 CEDU, quanto alla corretta interpretazione della normativa interna che persegue penalmente la detenzione di materiale pedopornografico (art. 338 bis codice penale). Il ricorrente, condannato in primo grado a dieci mesi di reclusione e alla confisca del materiale rinvenuto sui suoi supporti informatici, ricorreva in appello contestando l’errata interpretazione della norma incriminatrice. Nello specifico, riteneva che il fatto commesso non fosse sussumibile nella norma incriminatrice, consistente nella detenzione di materiale pedopornografico, in quanto non avrebbe scaricato il predetto materiale se non essersi limitato a visionarlo in rete, accedendo a specifici siti web. In altre parole, la difesa lamentava la violazione del principio di legalità, nelle forme del divieto di analogia in malam partem. Rigettate le doglianze anche in ultimo grado di giudizio, la difesa invocava l’intervento dei giudici di Strasburgo, per la violazione dell’art. 7 della Convenzione ove proibisce di estendere la normativa penale a fatti che in precedenza non costituivano reato ovvero di non applicare in maniera estensiva la legge penale a danno dell’imputato. Questi, dopo un’attenta valutazione della normativa in parola, affermano che il giudice nazionale ha correttamente interpretato l’art. 338 bis c.p., in coerenza con la ratio legis a tutela del minore e della sua immagine. La Corte ritiene non irragionevole l’interpretazione estensiva fornita dai tribunali nazionali circa il concetto di “possesso” come “facoltà di disporre o godere di un bene” e, quindi, di ricomprendervi anche la condotta di mera consultazione sullo schermo di un computer delle immagini incriminate.

No violazione dell’art. 7 della Convenzione

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, CARTER C. RUSSIA, 21 SETTEMBRE 2021, RIC.N. 20914/07

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto, all’unanimità, la sussistenza di un inadempimento da parte del Governo degli obblighi di cui all’articolo 38 della Convenzione (obbligo di fornire le strutture necessarie per l’esame di una causa) e, con 6 voti contro 1, della violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) nei suoi aspetti sostanziali e procedurali. Il caso riguarda l’avvelenamento e la morte del marito del ricorrente, Aleksandr Litvinenko, verificatasi nel Regno Unito nel 2006. Il sig. Litvinenko aveva lavorato per i servizi di sicurezza russi prima di disertare nel Regno Unito dove gli era stato concesso l’asilo. Nel 2006 è stato avvelenato con polonio 210 (una sostanza radioattiva) a Londra ed è deceduto. Un’inchiesta pubblica nel Regno Unito ha appurato l’identità degli autori dell’assassinio, membri del servizio di sicurezza russo, ma non anche il mandante, rimasto ignoto.

La Corte, in via preliminare, rileva che le autorità russe non hanno svolto un’efficace indagine interna in grado di portare all’accertamento dei fatti e, se del caso, all’identificazione e alla punizione dei responsabili dell’omicidio, integrando di tal guisa una violazione dell’articolo 38 della Convenzione.

La Corte ritiene accertata sotto il profilo sia processuale sia sostanziale la giurisdizione della Russa in relazione alla morte Litvinenko, stante la nazionalità degli esecutori dell’omicidio e la loro appartenenza degli stessi ai servizi segreti russi. Quanto alla circostanza che costoro abbiano agito in qualità di agenti dello Stato convenuto, il collegio osserva come non vi fossero prove che entrambi gli uomini abbiano avuto motivi personali per uccidere il sig. Litvinenko e che, laddove avessero agito per proprio conto, non avrebbero hanno avuto accesso al raro isotopo radioattivo usato per avvelenarlo.

Valorizzando questi dati, unitamente alla evidente reticenza del governo russo nel collaborare alle indagini, la Corte, in definitiva, reputa accertato il coinvolgimento dello Stato nell’omicidio del Litvinenko e la relativa violazione dell’art. 2 CEDU, non sussistendo alcuna delle esimenti previste dalla disposizione in questione.

Violazione dell’art. 38 della Convenzione

Violazione dell’art. 2 della Convenzione

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, QUARTA SEZIONE, R.D. E I.M.D. C. ROMANIA, 12 OTTBRE 2021, RIC. N. 35402/14

I ricorrenti censurano la liceità del provvedimento con il quale i giudici nazionali hanno applicato loro, a seguito di condanna ricevuta in sede penale, la misura di sicurezza del confinamento in un ospedale psichiatrico al fine di sottoporsi a cure mediche.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, nella composizione del comitato di tre giudici, ha riscontrato, all’unanimità, una violazione dell’articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata) della Convenzione.

Il collegio ha preliminarmente osservato che i rapporti medici forensi relativi ai richiedenti erano stati redatti il 4 ottobre 2011, ossia più di tre anni prima della misura che ne ordinava il collocamento in un ospedale psichiatrico. Secondo la Corte, la mancanza di una valutazione medica recente è sufficiente per dubitare della liceità del confinamento dei ricorrenti ai sensi della Convenzione. Inoltre, l’assenza di una motivazione dettagliata nelle decisioni del giudice nazionale che ne ordinavano il confino non consente in egual modo di stabilire a sufficienza se i ricorrenti rappresentassero al tempo un rischio per se stessi o per altri, in particolare a causa della loro condizione psichiatrica.

La Corte ha, altresì, ribadito che la somministrazione forzata di trattamenti farmacologici rappresenta una grave interferenza con l’integrità fisica di una persona, ragion per cui deve quindi basarsi su una “legge” che assicuri adeguate garanzie contro l’arbitrarietà degli stessi. In tal senso, sebbene la misura controversa avesse effettivamente una base giuridica nel diritto rumeno, l’assenza di garanzie sufficienti contro i medicinali forzati ha privato i ricorrenti del livello minimo di protezione cui avevano diritto in una società democratica.

A ciò si aggiunge il mancato riconoscimento di un mezzo di ricorso attraverso cui richiedere a un tribunale nazionale di pronunciarsi sulla liceità, la proporzionalità, l’opportunità del mantenimento della misura adottata.

Ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, infine, ritenendo che la mancanza di una base legale adeguata possa dar luogo a future violazioni, i giudici europei hanno indicato alla autorità nazionali la necessità di adottare delle misure generali in grado di garantire che i trattamenti medici dei ristretti in ospedali psichiatrici sia tutelati contro l’arbitrio.

Violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione

Violazione dell’art. 8 della Convenzione

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, J.C. E ALTRI C. BELGIO, 12 OTTOBRE 2021, RIC. N.  11625/17

Il caso concerneva la portata dell’immunità della Santa Sede dalla giurisdizione dei tribunali nazionali. La vicenda processuale trae l’abbrivio da un’azione di risarcimento promossa da 24 ricorrenti contro la Santa Sede e, in particolare, alcuni dirigenti della Chiesa cattolica del Belgio e associazioni cattoliche, avente ad oggetto i pregiudizi cagionati dalle misure, strutturalmente carenti, con le quali lo Stato aveva inteso affrontare il problema degli abusi sessuali perpetrati da alcuni prelati. Poiché i tribunali belgi hanno ritenuto di non avere giurisdizione nei confronti della Santa Sede, i ricorrenti hanno sostenuto di essere stati privati dell’accesso a un tribunale e hanno invocato l’articolo 6 § 1 dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha ritenuto, a maggioranza (sei voti contro uno), che non vi sia stata nessuna violazione dell’articolo 6 § 1 (diritto di accesso a un tribunale) della Convenzione. Il Collegio ha ritenuto che il rigetto del ricorso da parte dei tribunali belgi, nel declinare la competenza a conoscere del caso di illecito civile proposto dai ricorrenti contro la Santa Sede, non si fosse discostato dai principi generalmente riconosciuti del diritto internazionale in materia di immunità dello Stato, e la restrizione il diritto di adire un giudice non poteva quindi essere considerata sproporzionata rispetto agli scopi legittimi perseguiti.

Non violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE, VEDAT ŞORLI C. TURCHIA, 19 OTTOBRE 2021, RIC. N. 42048/19

Nel caso Vedat Şorli c. Turchia la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riscontrato la violazione dell’art. 10 (libertà di espressione) della CEDU. La vicenda riguardava la condanna di un cittadino turco per i reati di oltraggio al Presidente della Repubblica e propaganda in favore di un’organizzazione terroristica attraverso i contenuti pubblicati sul suo account Facebook. Nello specifico, la condotta illecita consisteva nella pubblicazione di due post diffamatori: il primo ritraeva una vignetta che mostrava l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, mentre baciava il presidente della Repubblica di Turchia, vestito con abiti femminili. Il secondo contenuto, invece, conteneva le foto del Presidente della Repubblica e dell’ex Primo Ministro della Turchia seguito da commenti di critica all’operato politico. Il ricorrente, dichiarato colpevole nei diversi gradi di giudizio veniva condannato alla reclusione di circa dodici mesi, dopo essere stato colpito da misura cautelare. La difesa decideva, così, di adire la Corte Costituzionale invocando un’adeguata tutela dei suoi diritti. Non ricevendo riscontro positivo, il ricorrente rivolgeva le sue istanze alla Corte EDU: nell’occasione invocava la violazione del diritto a manifestare liberamente e criticamente il proprio pensiero (art. 10 CEDU), specie se oggetto di satira o critica, e contestava la mancata proporzionalità tra pena irrogata e fatto contestato, in palese violazione dello spirito che alimenta la stessa Convenzione. La Corte, nel richiamare il delicato bilanciamento tra diritto di critica e satira e tutela dell’onere alla reputazione personale, afferma che neanche la previsione di una tutela rafforzata per la persona che riveste importatati cariche istituzionali (specie il Capo dello Stato) vale a giustificare la compressione ovvero l’azzeramento dei diritti fondamentali. Pertanto, la previsione di una sanzione penale eccessivamente afflittiva collide con la funzione ad essa riconosciuta e lo spirito che alimenta il diritto convenzionale; nel caso di specie, il giudice nazionale avrebbe potuto fare ricorso ad altro strumento sanzionatorio, come quello civile, e relegare l’applicazione del diritto penale come extrema ratio. In definitiva, il giudice europeo considera inappropriata l’ingerenza nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione e accerta la violazione dell’art. 10 della Convenzione.

Violazione dell’art. 10 della Convenzione

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, W.A. C. SVIZZERA, 2 NOVEMBRE 2021, RIC. N. 38958/16

La Corte Europea dei diritti dell’uomo, nel caso W.A. c. Switzerland accerta la violazione degli artt. 5 § 1, 7 § 1 e art. 4 Protocollo n. 7 della Convenzione, che rispettivamente enunciano i diritti di libertà e sicurezza, il diritto a non essere punito se non in forza di legge e il divieto del bis in idem. Il caso riguardava un cittadino svizzero condannato, negli anni 90’, a vent’anni di reclusione per aver commesso due omicidi in condizioni di ridotta capacità, a causa di un disturbo della personalità e psicopatia poi diagnosticati. Il P.M., in tale occasione, richiedeva l’irrogazione di una pena detentiva (art. 34 ss. c.p.). Nel 2010, scontata la pena in carcere, il P.M. presentava nuova istanza al Tribunale per applicazione della misura di carcerazione preventiva per trattamenti sanitari (art. 65 § 2 ss. c.p.) della durata pari a cinque anni a causa della pericolosità del reo, misura di sicurezza entrata in vigore nel 2007 e disposta in assenza di nuovi fatti; veniva, così, ricondotto in carcere. La difesa dell’imputato presentava ricorso prima alla Corte d’appello e, poi, alla Cassazione che rigettavano l’istanza di scarcerazione per applicazione retroattiva di una misura di sicurezza per fatti antecedenti alla sua entrata in vigore, in violazione del principio di legalità ex art. 1 c.p.. Esperiti i rimedi interni, il ricorrente decideva di adire la Corte EDU invocando la violazione delle norme sopra indicate. In particolare, lamentava la lesione del suo diritto alla libertà in conseguenza alla successiva detenzione preventiva; altresì, riteneva violato l’art. 7 della Convenzione in quanto la misura ivi applicata era entrata in vigore dopo i fatti commessi e l’art. 4 Prot. 7 per essere stato sottoposto a duplice procedimento penale (il primo con irrogazione di pena detentiva, il secondo con misura di carcerazione preventiva) per gli stessi fatti di reato. I giudici di Strasburgo accolgono le censure mosse e affermano quanto segue: la Corte sostiene che sia stata perpetrata un’irragionevole limitazione della libertà personale in quanto il ricorrente, malato di mente, doveva essere collocato presso un idoneo istituto di cura e non ricondotto in carcere; inoltre, la misura in parola è equiparata a una “pena” ancor più invasiva di quella in precedenza irrogata, perché applicabile sine die, con proroga quinquennale fino a che il soggetto possa dirsi non più pericoloso. Per tale assorbente ragione, la misura in parola deve essere ricondotta nel concetto di sanzione di cui all’art. 7 CEDU. Infine, considera violato anche il principio del ne bis in idem, posto che l’applicazione della misura di carcerazione preventiva non era sorretta da alcun fatto nuovo che potesse giustificare la riapertura delle indagini. Per i motivi anzidetti, lo Stato svizzero è stato condannato a disporre un risarcimento pecuniario a favore del ricorrente leso.

Violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione

Violazione dell’art. 7 § 1 della Convenzione

Violazione dell’art. 4, Prot. 7 della Convenzione

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, QUARTA QEZIONE, VASIL VASILEV C. BULGARIA, 16 NOVEMBRE 2021, RIC. N. 7610/15

Nel caso Vasil Vasilev c. Bulgaria, la Corte europea affronta una tematica di particolare Interesse: l’illegittimità della divulgazione delle intercettazioni tra avvocato-cliente coperte da segreto professionale, per violazione dell’art. 8 della Convenzione a tutela del diritto al rispetto della vita personale, sub specie della corrispondenza. Nello specifico, la questione riguardava un avvocato, di origini bulgare, che nel corso di un procedimento penale vedeva trascritte le conversazioni avute con il proprio cliente-imputato, senza ottenerne lo stralcio e la distruzione. Secondo il diritto nazionale, ai sensi dell’art. 33(3) del Bar Act 2004, una conversazione intercettata di un avvocato può essere registrata e trascritta solo se ci sono ragioni per sospettare che quell’avvocato abbia commesso un reato e, quindi, solo se necessaria. Non era questo il caso, infatti la comunicazione avvocato-cliente avrebbe dovuto godere della segretezza in quanto consisteva in una consulenza legale. La doglianza mossa dinanzi al Tribunale riguardava non tanto il fatto che la linea telefonica dell’avvocato era stata sottoposta a sorveglianza occulta quanto, piuttosto, la mancata distruzione delle registrazioni delle conversazioni tra i due da parte delle autorità. Aditi gli organi giurisdizionali nazionali, questo non otteneva alcuna tutela giuridica né ristoro economico per il danno patito, né tantomeno la pubblicazione delle sentenze pronunciate all’esito dei già menzionati ricorsi. Il ricorrente, così, si rivolgeva alla Corte EDU e invocava la violazione degli artt. 6 §1 e 8 della Convenzione; rispetto alla prima norma, l’istante riteneva violato il diritto a un equo processo, a mente del quale “nella determinazione dei suoi diritti e doveri civili …, ognuno ha diritto a un’udienza equa e pubblica… La sentenza deve essere pronunciata pubblicamente ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia”. La Corte, ripercorsi gli arresti giurisprudenziali passati, accoglie le doglianze del ricorrente e condanna lo stato al risarcimento pecuniario pari a 3000 euro per i danni arrecati.

Violazione dell’art. 6 §1 della Convenzione

Violazione dell’art. 8 della Convenzione

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, BRAGI GUÐMUNDUR KRISTJÁNSSON C. ISLANDA, 30 NOVEMBRE 2021, RIC. N. 12951/18

Il ricorrente lamenta di essere stato processato due volte per lo stesso fatto, in violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione.

Dopo aver patito l’irrogazione delle sanzioni amministrative legate all’accertamento di una serie di violazioni del codice tributario islandese, successivamente, a seguito di procedimento penale, l’interessato è stato condannato per reati tributari aggravati alla pena di tre mesi di reclusione e a una multa di circa 84.000 euro (EUR).

Muovendo dalle statuizioni già rese in passato in argomento (“A e B c. Norvegia” [GC], n.24130/11 e 29758/11, 15 novembre 2016, e “Jón Ásgeir Jóhannesson e altri”), la Corte ritiene, sulla base dei “criteri Engel” (“Engel e altri c. Paesi Bassi”, 8 giugno 1976), che i procedimenti in questione abbiano entrambi natura “penale”, non solo ai fini dell’articolo 6 della Convenzione, ma anche ai fini dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione.

A tal proposito, il collegio osserva come la nozione convenzionale di “stesso reato” ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 è da intendersi come un secondo “reato” derivante da fatti identici o sostanzialmente sovrapponibili (Sergey Zolotukhin c. Russia [GC], n. 14939/03, 2009).

In relazione alla presente causa, il requisito dell’idem factum può ritenersi sussistente, il procedimento tributario e il procedimento penale avendo avuto a oggetto lo stesso periodo di tempo e lo stesso importo di imposte evase.

Nella sentenza della Grande Camera nel caso A e B c. Norvegia (cit.), la Corte ha precisato che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 non esclude la duplicazione dei procedimenti relativi al medesimo fatto, ma a condizione che alcune condizioni erano soddisfatte. Lo Stato convenuto è tenuto a dimostrare in modo convincente che i procedimenti in questione siano stati “sufficientemente strettamente connessi nella sostanza e nel tempo” per essere combinati in modo integrato in modo da formare un insieme coerente. Ciò implica non solo che le finalità perseguite e i mezzi utilizzati per raggiungerle debbano essere funzionalmente complementari e temporalmente collegati, ma anche che le possibili conseguenze di una siffatta organizzazione del trattamento giuridico della condotta in questione dovessero essere proporzionate e prevedibili per le persone colpite.

La Corte rileva quindi che, malgrado la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie e la complementarità degli scopi perseguiti, nella specie, il duplice procedimento contro il ricorrente non risulta sufficientemente connesso né nella sostanza né nel tempo. Di conseguenza, il ricorrente è stato giudicato e punito per lo stesso comportamento da autorità diverse in due diversi procedimenti privi del necessario collegamento, inverandosi una manifesta violazione dell’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU.

Violazione dell’art. 4, Protocollo n. 7 della Convenzione

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