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IL LAMENTO FUNEBRE, LE PREFICHE E  L’ABROGAZIONE DEL DELITTO DI ABUSO DI UFFICIO – DI ROBERTO RAMPIONI

IL LAMENTO FUNEBRE, LE PREFICHE E L’ABROGAZIONE DEL DELITTO DI ABUSO DI UFFICIO – DI ROBERTO RAMPIONI

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IL LAMENTO FUNEBRE, LE PREFICHE E L’ABROGAZIONE DEL DELITTO DI ABUSO DI UFFICIO

di Roberto Rampioni*

In materia penale al cittadino più del «vuoto di tutela» fa paura l’assunzione da parte del pubblico ministero dell’improprio ruolo di «custode della moralità pubblica».

In criminal matter the citizen is more afraid of the public prosecutor who plays the incorrect role of «guardian of the public morals» than «Legal vacuum».

 

1. Una nuova sciagura -si titola- sta per abbattersi sul mondo penalistico: l’abrogazione del delitto    di      abuso     di    ufficio! Sciagura dalla portata -si ritiene- devastante, in quanto foriera di sciagurati «vuoti di tutela», per giunta, avversati dal fronte euro-comunitario [ma il modo di essere del diritto penale non è più la «frammentarietà»?].

Scelta legislativa -si soggiunge- suscettiva di depotenziare sensibilmente il «micro-sistema» dei delitti di corruzione, individuando tale fattispecie incriminatrice il «delitto-spia», l’«avamposto» delle figure di corruzione in senso stretto.

Che il «sistema» normativo attualmente approntato -soprattutto nella sua interpretazione-applicazione giurisprudenziale- per il contrasto alla corruzione sia «micro» è ampiamente discutibile; come è ampiamente discutibile che la figura di reato in esame debba (rectius, possa) essere letta quale necessario «avamposto» di un rapporto corruttivo, così che la elisione di essa comporterebbe un insopportabile arretramento nella «lotta alla corruzione» [per il venir meno del «grimaldello» spesso utilizzato a fini investigativi?! E poi: la norma penale è ora uno strumento di «lotta»?!].

In realtà, sul piano delle scelte di politica criminale -che, giova ricordare, «spettano», «sono riservate» al legislatore- tutto può essere messo in discussione e, in particolare, la ratio legis che le supporta e la formulazione descrittiva offerta alla fattispecie tipica: come, del resto, fa chi ora censura il disegno di legge di iniziativa governativa e, ancor prima, ha sottoposto a severa critica l’ultima, ennesima riforma dell’art. 323 cp[1].

Di ciò, tuttavia, qui non si intende minimamente discutere; ci si domanda, invece, come si sia pervenuti, dalla riforma dei delitti dei p.u. contro la P.A. del’90 ad oggi, alla paventata «sciagura», nonostante i ripetuti, tormentati interventi modificativi della formulazione descrittiva del fatto-reato a fronte delle degenerazioni interpretative-applicative offerte dalla giurisprudenza (ma non solo).

In realtà, la sciagura ad un pur sommario esame si rivela ampiamente «annunciata», una sorta di conseguenza inevitabile per una disposizione davvero tribolata, che nell’impianto originario del codice era chiamata ad una ben diversa, non strumentalizzabile, funzione puramente sussidiaria.

Se mai «sciagura», comunque emendabile, e non pari ai non pochi ormai riconosciuti effetti disastrosi -almeno sul piano processuale- della inizialmente acclamata «riforma Cartabia»; come non pari, sullo stesso piano costituzional-ordinamentale, all’idea che alle affermazioni giurisprudenziali della Corte di Cassazione, spesso frutto di acrobatici «bilanciamenti» fra supposti «principi», vada riconosciuto il carattere di diritto «vivente»[2] (attributo questo utilizzato, verosimilmente, per edulcorare la portata propriamente «creativa» di tali statuizioni).

2. È risaputo che la tormentata evoluzione normativa (con le riforme del’90, del ’97 e del 2020, a parte l’inasprimento sanzionatorio del 2012) è frutto del tentativo, mai riuscito, di circoscrivere in modo più netto l’area del penalmente rilevante nello schema tipico dell’art 323 cp; ciò al fine di contenere il cd. sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, non infrequentemente causa di interferenze sul piano delle valutazioni politico-amministrative riservate alla P.A. Fattispecie che cessa di essere sin dal 1990, con la diversa formulazione della clausola di riserva, norma di carattere sussidiario (denominata, infatti, in origine «Abuso innominato di ufficio») per divenire fattispecie «base» nella repressione delle condotte «abusive» dei pubblici agenti.

Chiara, dunque, la persistente intenzione del legislatore di progressivamente contrarre l’area della tipicità a fronte di interpretazioni-applicazioni giurisprudenziali «allargate», sempre protese a favorire, a volte in termini allarmanti, il controllo del giudice penale sulla discrezionalità, anche politica, della P.A.

Assunto che ha trovato pieno riscontro nella recente pronuncia della Corte costituzionale sull’ultima formulazione della fattispecie, che nel rilevare che “le intenzioni del legislatore hanno dovuto, però, fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza”, largamente estensive dell’area del «controllo» sull’attività amministrativa discrezionale; soluzioni contra jus non prive di ricadute, quale, in particolare, “la diffusione del fenomeno comunemente definito «amministrazione difensiva»”. In tal senso, prosegue il Giudice delle leggi, “la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare “margini di discrezionalità, si vuole negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere”[3].

Ed i «numeri», i dati statistici riportati nella Relazione al disegno di legge (c. 1718) confermano l’allarmante squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e le decisioni di merito, ma soprattutto segnalano che la forbice resta nel tempo costante a dispetto dei ripetuti interventi modificativi tesi, appunto, a contenere l’intervento penalistico.

Si è davvero al cospetto di un serio e grave problema.

3. Si osserva criticamente, tuttavia, che, posti di fronte a questo serio e grave problema -per le sue innumerevoli ricadute che, appunto, vanno dalla «amministrazione difensiva» alla privazione della libertà personale del pubblico agente- è pur sempre utile e necessario mirare alla cura della «malattia» e non pretendere di eliminare il problema con la abrogazione di una fattispecie incriminatrice «presidio di garanzia per il consociato».

Ed il farmaco appropriato -non potendo essere l’abuso d’ufficio la malattia- consisterebbe nel «sensibilizzare», invitare al self restraint i pubblici ministeri, “i quali -si assume- dimostrano talvolta una scarsa attenzione nella gestione delle iscrizioni delle notizie di reato, oltreché nella conduzione delle indagini preliminari”. Ed in tale ottica -ai sensi del novellato art. 335 cpp, che richiede un «fatto» determinato e non inverosimile– si dovrebbe consigliare loro la «non immediata» iscrizione della notizia di reato o, meglio, ritenuto il provvedimento illegittimo un mero «sintomo» della condotta di abuso, le relative notizie di reato dovrebbero essere qualificate come «atti non costituenti notizie di reato» ed iscritte [del tutto impropriamente] nell’«apposito registro», «il cd. modello 45» [dalla triste genesi][4].

Argomentare affetto da evidente zoppia: se la malattia non può (di certo) essere la fattispecie incriminatrice, la malattia necessariamente va individuata nel diffuso modus procedendi dei pubblici ministeri. A fronte, però, della chiara intentio legis, manifestata attraverso ripetuti interventi modificativi (e determinata dai «numeri» sopra indicati), appare davvero «irreale» proporre un’opera di sensibilizzazione [una cura da chi e come realizzata?] nei loro riguardi: magistrati i quali hanno già ampiamente dimostrato di essere refrattari all’idea di rinunciare all’iscrizione di un procedimento che si auspica possa evolvere in un più grave rapporto corruttivo. Opera di sensibilizzazione, peraltro, da estendere quanto meno alla diversa figura del giudice dell’udienza preliminare che, evidentemente affetto dal medesimo morbo, a dispetto di ogni riforma sostanziale e processuale, veicola al dibattimento la stragrande maggioranza delle richieste di rinvio a giudizio a tale titolo di reato.

Ed argomentare che maschera le reali intenzioni di chi lo propone e pretende di nascondere ciò che è avvenuto nella pratica giudiziaria. Del tutto contraddittoriamente, si assume infatti: “Obiettivo dichiarato di ogni progetto o legge di riforma dell’art. 323 c.p. è di eliminare ogni forma di sindacato del giudice penale sull’attività provvedimentale della P.A. Ora, può notarsi come caratteristica fondamentale dell’abuso d’ufficio sia la «resilienza» (nella accezione originaria del termine): a dispetto delle numerose novelle che lo hanno interessato, esso riassume la forma originaria una volta sottoposto a deformazione[5] [e chi stabilisce quale sia la formula «originaria»?] La recentissima giurisprudenza di legittimità ha vanificato (almeno in parte) l’obiettivo perseguito dal legislatore del decreto semplificazioni n. 76 del 2020: sottrarre l’attività discrezionale della pubblica amministrazione al controllo del giudice penale, relegandolo al circoscritto ambito dell’attività vincolata”[6].

Anche al giudice di legittimità si dovrebbe, dunque, estendere l’immaginifica opera di «sensibilizzazione» proposta, dal momento che dà, appunto, prova, travalicandole, di non gradire la portata innovativa delimitativa delle modifiche legislative intervenute[7].

Si dà, comunque, per scontato che, abrogata la disposizione, «al peggio», “almeno una parte dello spazio occupato dall’abuso di ufficio sarà coperto da altre incriminazioni, talvolta maggiormente sanzionate, le quali vedranno così espandere [8]il loro campo d’azione: si pensi alla concussione, all’omissione di atti di ufficio, al peculato per distrazione…”. Dunque, si riconosce, “i fatti che erano sanzionati attraverso la figura di reato dell’abuso di ufficio più idonea, appropriata e calzante, saranno a breve penalmente rilevanti sulla base di altre fattispecie incriminatrici meno calzanti e idonee e talvolta sanzionate in modo sproporzionato”[9]

Ciò, chiaramente, in omaggio ai principi di legalità, di riserva di legge e di proporzione oggi annientati dal «diritto vivente» (rectius, «libero»). Comunque sia, a parte lo stravolgimento dei fondamenti penalistici, meglio così: -ipotizzare il ricorso allo schema del 317 cp (concussione per «costrizione») individua una mera inappropriata boutade, considerato il tipo legale [se ancora lo si ritenga esistente]; -il richiamo al «Peculato per distrazione» cozza con l’eliminazione di tale condotta costitutiva dallo schema tipico dell’art. 314 cp (per ragioni del tutto analoghe a quelle qui in discussione[10]) e l’evocazione del futuribile art. 314-bis, «Indebita  destinazione di denaro o cose mobili», non coglie nel segno in quanto la norma in gestazione mira a regolare una ben diversa e definita realtà fenomenica [se, appunto, il tipo legale ha ancora un significato][11]; -la «libera» interpretazione-applicazione dell’art. 328 c.p. (primo o secondo comma?) varrebbe in ogni caso a contenere gli agognati livelli sanzionatori del tutto sproporzionati.

4. Venendo alle ragioni di fondo che giustificherebbero la permanenza in vita di una fattispecie incriminatrice così «travagliata» nella sua formulazione (per le persistenti, rinnovate scorrerie interpretativo-applicative della giurisprudenza), esse andrebbero ravvisate nel fatto (o, meglio, nella considerazione di stampo circolare) che “al giudice non può essere sottratto il controllo sulla legalità dell’azione della P.A., pena l’inutilità o l’impossibilità logica di prevedere nel nostro sistema penale una tale figura di reato”. L’abuso di ufficio individuerebbe un’ipotesi di reato indissolubilmente legata al principio di legalità dell’azione amministrativa e, necessariamente, per tale via legata al sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa, sindacato operato sulla scorta di tale parametro di legalità. “Il binomio -si afferma in tal senso- è indissolubile: abuso d’ufficio e sindacato sul cattivo uso della discrezionalità amministrativa stanno e cadono insieme”.

Ora, nessun dubbio che condotta abusiva e sindacato del giudice penale possano dare vita ad un «binomio indissolubile», ma è altrettanto indubbio -come già da tempo rilevato- che il sindacato presupponga l’esistenza di una fattispecie incriminatrice caratterizzata da elementi costitutivi il cui accertamento implichi una simile verifica. Tale binomio, indissolubile già sul piano della logica, non può circolarmente «imporre» la sopravvivenza di una fattispecie incriminatrice né, come si è proposto, una totale «rimodulazione» del testo normativo novellato a fine di «sopravvivenza» di un sindacato non più consentito [per la resilienza del testo «originario» ?!]. Le condotte (abusive) di omissione-ritardo di atti di ufficio della vecchia formulazione dell’art. 328 c.p. sul piano normativo non esistono più e, appunto, non possono tornare in vita in forza della avvertita esigenza da parte dell’interprete di un controllo sull’attività -sebbene atipica- realizzata dal pubblico funzionario.

Anche a voler trascurare il tema del rispetto del principio di riserva di legge «stretta» in materia penale, «la sfiducia nella capacità della giurisprudenza di selezionare gli abusi penalmente rilevanti, compresi gli eccessi di potere» lungi «dall’essere eccessiva e nel complesso infondata»[12] trova fondamento reale nell’utilizzazione “abusiva” della fattispecie di abuso di ufficio: davvero una sorta di “apriscatole” per avviare procedimenti e indagini volti a controllare l’operato dei pubblici amministratori, in vista della contestazione di reati più gravi (ad es., la corruzione). E le “statistiche giudiziarie”, meglio, la pratica giudiziaria illustra ampiamente la frequente strumentalizzazione della norma [anche in ragione delle possibili conseguenze processuali: adottabilità di misure coercitive personali ed intercettazioni in ragione degli inaspriti livelli sanzionatori]; strumentalizzazione che non può essere ricondotta -in modo bonario e riduttivo- a «scarsa attenzione nella gestione delle iscrizioni delle notizie di reato oltreché delle indagini preliminari»[13]; fenomeno, se mai tale, comunque, di eccezionale gravità e meritevole di attento sindacato.

5. A sostegno di simile assunto si giunge a scomodare il principio illuministico della separazione dei poteri da cui quel «sindacato» sulla legalità, a garanzia dei diritti del cittadino, originerebbe [ma qui, al contrario, il nodo problematico non sta nello «sconfinamento» dell’autorità giudiziaria nell’area riservata all’agire discrezionale della P.A.?]. Si invoca, infatti, nella visione liberale dello Stato, la protezione dei diritti del cittadino contro le prevaricazioni del pubblico funzionario ed in tal senso si conclude col sostenere che “alla cognizione del giudice penale non può essere sottratto nulla che possa servire a tutelare il diritto fondamentale della libertà del cittadino”.

Ora, in realtà, il contratto sociale di ispirazione liberale e che si inquadra nella teorica della separazione dei poteri guarda, innanzitutto, al (singolo) cittadino che viene a contatto con la «macchina giudiziaria» del mondo penalistico; a colui che, in particolare, nel principio di legalità ravvisa(va) il baluardo della libertà personale in senso proprio contro l’«abuso» legislativo (la norma non chiara, né precisa ed indeterminata) come quello giudiziario (le «scorribande» interpretativo-applicative, l’«usa e getta» del tipo legale, l’analogia). La «storia» dell’art. 323 cp e quei «numeri» dicono qualcosa (di grave) al riguardo. A tutela del cittadino persona offesa -se mai tale alla luce del corretto oggetto di tutela dei delitti contro la P.A. in senso stretto- vigilano altre fattispecie incriminatrici a dispetto del vero «pastrocchio» normativo -per dirne uno- cui si è dato vita (per via essenzialmente giurisprudenzial-comunitaria) con l’introduzione del delitto di induzione indebita.

A tutela del cittadino che interloquisce con la P.A. e che, dunque, non è neppure «indotto», ma agisce ben al di fuori del «mini-sistema» dei fatti corruttivi -come, erroneamente, si finisce per collocarlo- deve essere sufficiente la garanzia di legalità dell’azione amministrativa proveniente dalla stessa P.A. Ciò che, come ben noto, va fatto, è finalmente fissare quei modelli «preventivi» di organizzazione, di funzionamento e di controllo «interni» alla pubblica amministrazione, rimasti da tempo lettera morta; introdurre, in altri termini, codici di comportamento e la responsabilità disciplinare del pubblico agente.

Il diritto penale ha bisogno di un contesto in cui operino altre forme di responsabilità. L’espansione del penale, il ruolo di supplenza a lui affidato, a fronte di una «questione morale» ingigantita dall’assenza di specie diverse di responsabilità, conducono a risultati paradossali, fra i quali il sovraccarico della giustizia penale che, assumendo l’improprio ruolo di custode della moralità pubblica, dà vita a forme inaccettabili di autoritarismo, quale appunto il sindacato sul merito della scelta discrezionale del pubblico agente sotto le mentite spoglie del vizio di eccesso-sviamento del potere.

Come ha inteso fondatamente rilevare Tullio Padovani “per quanto si possa (e si debba) assicurare alla fattispecie incriminatrice [di abuso di ufficio] un contenuto rigorosamente determinato, la garanzia così attuata resterà fatalmente incompleta, se non si provvederà nel contempo a definire modi, finalità e limiti delle diverse funzioni amministrative in forma meno contorta, confusa e slabbrata di quanto non sia sinora accaduto … La prima e più efficace difesa dell’amministratore e del politico deve quindi potersi rinvenire nelle norme ch’essi applicano: nitide e precise. Solo a queste condizioni le indagini troveranno un argine naturale e un percorso meno ondivago e periclitante. L’«invadenza» attribuita alle procure scaturisce invero dalla facilità con cui ogni scelta amministrativa di qualche rilievo può essere attaccata, censurata e investita dal sospetto di favoritismo, prevaricazione o indebito profitto”.

Il fenomeno -si assume, dunque, conclusivamente, ma non senza qualche profilo di contraddittorietà- trova la propria origine «nel sommo disordine che caratterizza il nostro sistema amministrativo, nel tumultuoso accavallarsi delle competenze, nel viluppo inestricabile delle procedure, nell’aleatorietà degli strumenti normativi, della formidabile carenza di efficaci controlli interni»[14].

6. Nulla di nuovo, in definitiva, pur all’esito della «tormentata parabola storica» della figura di reato in esame; il progressivo potenziamento della tipizzazione legislativa non è stato in grado, né avrebbe potuto esserlo, di scongiurare il sindacato, meglio, la «sete» di controllo del giudice penale in materie riservate alla discrezionalità politica e, più genericamente, sulla scelta di merito della P.A.

Ed ora avviene quanto già accaduto nel 1990 per la certo evanescente fattispecie di interesse privato in atti di ufficio, ma che ben altra sorte sarebbe potuto-dovuto avere, se interpretata-applicata «in modo ragionevole» e non giurisprudenzialmente ridotta a norma puramente sanzionatoria della violazione di un obbligo, esplicito od implicito, di astensione.

*Professore ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata

 

[1] In argomento si consenta il rinvio a R. Rampioni, La tormentata parabola storica della fattispecie di abuso di ufficio. Le interpretazioni-applicazioni demolitive del nuovo tipo legale. Il nodo gordiano del cd. sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa, in questa Rivista.

[2] Sul primo aspetto cfr., ad es., O. Mazza, Tornare al processo accusatorio: anfibiologia della controriforma, in Dir. pen. proc., 2024, 434, che reputa la riforma Cartabia “un testo che meriterebbe l’abrogazione integrale per i danni che continua a causare al sistema giudiziario”; M. Vaira, Cronaca di un disastro annunciato. Le udienze «filtro» post Cartabia, in Dir. pen. proc., 2024, 571 s.; sul secondo G. Lattanzi, La Corte di Cassazione nell’era del mutamento, in Cass. pen., 2024, 803 s.

[3] Corte cost., sent. 25 luglio 2021-29 gennaio 2022, n. 8, in questa Rivista, 2022.

[4] M. Gambardella, Abrogazione dell’abuso d’ufficio e rimodulazione del traffico d’influenze illecite nel d.d.l. «Nordio» (la versione approvata dal Senato nel febbraio 2021), in Sistema penale.

[5] Corsivo di chi scrive.

[6] M. Gambardella, op. cit..

[7] Per la giurisprudenza evocata cfr. Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2022, n. 36001, in Cass. pen., 2023, 818; Cass. pen. Sez. III, 8 giugno 2022, n. 30586, in Cass. pen., 2023, 142.

[8] Corsivo di chi scrive.

[9] M. Gambardella, op. cit.

[10] Il legislatore della riforma del ’90 ha inteso espungere dallo schema descrittivo del delitto di peculato la condotta di distrazione, che indubbiamente in passato ha costituito il nodo problematico della fattispecie incriminatrice. La disposizione nella sua formulazione originaria, in realtà, se ben applicata, non avrebbe meritato tutte le censure che sono state rivolte alla sua formulazione, ma la giurisprudenza, già allora, era venuta creando una norma «reale» individuante un «altro reato» rispetto ad una lettura costituzionalmente orientata della disposizione in esame. Si assisteva, infatti, a vere e proprie distorsioni interpretative nell’ottica di una funzione «vicaria» del giudice penale, la quale conduceva a scorgere il delitto di peculato in ogni erogazione di pubblico denaro effettuata in violazione di regole, per lo più, di carattere essenzialmente formale. In sintesi, un’interpretazione «allargata» dell’art. 314 c.p. che muoveva dall’individuazione di un generico oggetto di tutela (dovere di fedeltà connesso alla corretta cura e gestione dei beni mobili appartenenti alla P.A.) e dalla descrizione dei concetti di «distrazione» e «profitto» in termini vaghi e sostanzialmente onnicomprensivi: dare al danaro ed alle cose mobili una destinazione difforme rispetto a quella fissata, deviare tali beni dallo scopo che l’amministrazione intende raggiungere.

[11] La norma «in gestazione» così recita: «Articolo 314-bis (Indebita destinazione di denaro o cose mobili). “Fuori dei casi previsti dall’articolo 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.»

[12] G. L. Gatta, Da «spazza corrotti» a «basta paura»: il decreto semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso di ufficio, approvata dal Governo “salvo intese” (e la riserva di legge?), in Sistema penale, 17 luglio 2020.

[13] M. Gambardella, La modifica dell’abuso di ufficio al vaglio della prima giurisprudenza di legittimità: tra parziale abolitio criminis e sindacato sulla discrezionalità amministrativa, in Cass. pen., 2021, 493 s.

[14] T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso di ufficio, in Giurispr. pen.,