L’AVVOCATO COME MEGAFONO DI LIBERTÀ: LE SPINOSE PENDICI DELLA CONQUISTA DELL’OVVIO E L’IMPORTANZA DELLA SUA DIFESA. CONSIDERAZIONI A MARGINE DELLA SENT. N. 18 DEL 2022 DELLA CORTE COSTITUZIONALE – DI DAVIDE STECCANELLA
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L’AVVOCATO COME MEGAFONO DI LIBERTÀ: LE SPINOSE PENDICI DELLA CONQUISTA DELL’OVVIO E L’IMPORTANZA DELLA SUA DIFESA. CONSIDERAZIONI A MARGINE DELLA SENT. N. 18 DEL 2022 DELLA CORTE COSTITUZIONALE
di Davide Steccanella*
Il presente contributo analizza la sent. n. 18 del 2022 della Corte costituzionale, in tema di visto di censura sulla corrispondenza del detenuto in “regime di 41-bis” con i propri difensori. L’autore pone in evidenza la valorizzazione, operata dalla Corte, del ruolo del difensore. Pur esprimendo apprezzamento per l’iter motivazionale, viene stigmatizzato il contesto di arretratezza normativa e culturale in cui sono collocati ancora oggi i diritti del detenuto nel nostro paese.
“Chiunque voglia togliere la libertà di una Nazione deve iniziare a proibire la libertà di parola”, ha detto molti anni fa Benjiamin Franklin, il noto scienziato americano che contribuì alla stesura della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione degli Stati Uniti, negoziando il trattato di Parigi del 1783.
Il 26 gennaio 2022 è stata pubblicata la Sentenza numero 18 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’articolo 24, dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), contenuto nella Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori”.
L’incidente di costituzionalità era stato promosso dalla Prima sezione penale della Corte di Cassazione nel procedimento a carico di G. J. con ordinanza del 21 maggio 2021, in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
La decisione era stata deliberata nella camera di consiglio del 2 dicembre 2021 a seguito dell’audizione, si legge in sentenza, della relazione del Giudice redattore Dr. Francesco Viganò.
Il giorno stesso sul profilo Instagram del Fatto Quotidiano si leggeva: “Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera”, e sempre il giornale diretto da Marco Travaglio ne dava notizia all’interno di una rubrica titolata “Giustizia e impunità”, dove si leggeva altresì: “Cade un altro pezzo del carcere duro per detenuti mafiosi”.
Eppure, il ragionamento giuridico e sistematico sviluppato dai giudici delle leggi appare, anche ad una prima lettura, a tal punto chiaro e condivisibile da risultare quasi al limite, sia consentito, dell’ovvio.
Premesso, si legge in motivazione, che già in precedenza (Sentenza n. 143 del 2013) la medesima Corte si era pronunciata negativamente sui rigidi limiti quantitativi settimanali ai colloqui con il difensore da parte di detenuti in regime differenziato ex art. 41-bis, osservando che: «tale disciplina realizzava un irragionevole decremento di tutela di un diritto fondamentale (quello alla difesa tecnica), cui non faceva riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango (quello alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza)», la censura alla corrispondenza, si legge in Sentenza, si appalesa del tutto inidonea allo scopo per cui era stata prevista: «dal momento che il temuto scambio di informazioni tra difensori e detenuti o internati potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato, e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo».
Aggiunge sul punto la Corte costituzionale, che la censura alla corrispondenza: «incide sul diritto fondamentale del detenuto in misura ancora più gravosa rispetto a quella giudicata costituzionalmente illegittima dalla menzionata sentenza n. 143 del 2013, non ponendo meri limiti quantitativi ma potendo addirittura impedire che talune comunicazioni giungano al proprio destinatario, in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte di quest’ultimo».
Ma se tali rilievi, d’ordine meramente logico prima ancora che giuridico, rendevano evidente l’assoluta inattaccabilità della decisione in oggetto, più interessante è leggere tre ulteriori passaggi della Sentenza annotata.
Il primo statuisce la necessità di garantire, da parte dello Stato, la salvaguardia dei diritti al detenuto privo di risorse economiche, laddove si legge a pagina 10 che: «Qualora il detenuto sia stato trasferito in una struttura penitenziaria distante dalla città in cui ha sede il proprio difensore di fiducia, la corrispondenza epistolare potrebbe divenire il principale mezzo a disposizione per comunicare con lo stesso difensore; mentre i detenuti provvisti – anche in ragione della propria posizione apicale nell’organizzazione criminale – di maggiori disponibilità economiche potrebbero assai più agevolmente sostenere i costi e gli onorari connessi ai viaggi del proprio avvocato finalizzati allo svolgimento dei colloqui».
Il secondo restituisce dignità e importanza alla funzione dell’avvocato, posto che, richiamando la precedente Sentenza del 2013, si legge a pagina 9 che: «l’eventualità che persone appartenenti ad un ordine professionale (quello degli avvocati), tenute al rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la giustizia e sottoposte alla vigilanza disciplinare dell’ordine di appartenenza, si prestino a fungere da tramite fra il detenuto e i membri dell’organizzazione criminale, se non può essere certamente esclusa a priori, neppure può essere assunta ad una regola di esperienza, tradotta in enunciato normativo: apparendo, sotto questo profilo, la situazione significativamente diversa da quella riscontrabile in rapporto ai colloqui con persone legate al detenuto da vincoli parentali o affettivi, ovvero con terzi non qualificati».
Sotto questo profilo, sottolinea espressamente la Corte a pagina 10 che: «come osserva anche l’amicus curiae, la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso».
Il terzo punto interessante della Sentenza è quello che richiama, sempre a pagina 10, la necessità di una diuturna verifica, da parte del difensore di un detenuto in regime speciale, della legittimità delle condizioni carcerarie effettive imposte dall’amministrazione penitenziaria, ricordando espressamente: «il ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate».
Ora, di fronte a quanto si legge nella sentenza in oggetto, qualsiasi cittadino democratico che avesse a cuore la salvaguardia di uno Stato di diritto dovrebbe limitarsi a prendere atto che la Corte costituzionale ha finalmente posto rimedio a una legge palesemente ingiusta e indegna di un paese civile, e invece, e come purtroppo negli ultimi tempi sembra accadere sempre più spesso, si sono sprecati commenti a dir poco inquietanti sui vari media.
E proprio i commenti critici che sono stati rivolti alla presente sentenza ci consentono alcune considerazioni di carattere più generale e che attengono all’attuale situazione italiana in punto di pena.
Molti anni fa proprio la Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi sull’eventuale contrasto della pena dell’ergastolo con l’art. 27 della Costituzione, che impone la duplice funzione della pena, remuneratoria per il male compiuto e recuperatoria per il reinserimento del reo nella società civile, si espresse dicendo che l’ordinamento italiano prevede un trattamento recuperatorio anche in caso di “fine pena mai” con l’istituto sostanziale della liberazione condizionale, e successivamente l’importante riforma carceraria degli anni Settanta introdusse la Legge 26 luglio 1975, n. 354, finalizzata a recepire ancor meglio detto principio.
Ma da allora, e soprattutto dagli anni Novanta in poi, e in nome delle tante “emergenze”, di cui il nostro Paese sembra destinato a non liberarsi mai, sono state introdotte numerose norme restrittive, fino al citato articolo 41 bis che preclude al detenuto per taluni reati ogni percorso riabilitativo.
In Italia i numeri ci dicono che attualmente ci sono circa 1600 ergastolani in regime ostativo e per i quali è dunque operante ed effettivo il “fine pena mai”, una privazione di libertà permanente che oggi risulta da tempo abolita nella maggior parte degli Stati, non solo europei.
Si tratta di persone destinate morire in carcere senza alcuna diversa prospettiva, e questo, oltre che barbaro, è del tutto anacronistico: considerando l’attuale durata media della vita, è incredibile pensare che non si possa verificare un cambiamento significativo in un essere umano nell’arco della sua, si suppone abbastanza lunga, esistenza, fosse anche responsabile del delitto più efferato.
Come ha detto qualcuno: “Se con la pena di morte lo Stato ti toglie la vita, con l’ergastolo se la prende”, e ritenere che a questa privazione definitiva della libertà debba aggiungersi anche l’impossibilità di liberamente comunicare con il proprio avvocato, è semplicemente tortura, perché un altro termine non mi sovviene.
E che detta tortura sia finalizzata, nelle intenzioni del legislatore, a indurre il condannato per taluni reati alla collaborazione obtorto collo con l’Autorità Giudiziaria per sottrarsi alla stessa, non la fa diventare una cosa diversa, perché il caposaldo che distingue il diritto dalla giustizia privata del “fai da te” è proprio quello secondo il quale “il fine non giustifica i mezzi”.
A conclusione di questo commento, l’unica considerazione che mi viene da fare leggendo la sentenza annotata è l’amarezza che ci siano voluti degli anni e l’intervento della Corte costituzionale per ovviare a una palese ingiustizia.
Chi invece ritiene che questa sentenza “consenta ai boss di commissionare omicidi per lettera” appartiene a una cultura giuridica profondamente diversa dalla mia.
*Avvocato del Foro di Milano