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PROCESSO DA REMOTO:  UN “VULNUS” TEMPORANEO O CON POSTUMI PERMANENTI? – DI ALESSANDRO TRAVERSI

PROCESSO DA REMOTO: UN “VULNUS” TEMPORANEO O CON POSTUMI PERMANENTI? – DI ALESSANDRO TRAVERSI

TRAVERSI – PROCESSO DA REMOTO – UN “VULNUS” TEMPORANEO O CON POSTUMI PERMANENTI?.PDF

di Alessandro Traversi*

Le modifiche processuali introdotte a seguito dell’evento pandemico si pongono su una direttrice che già ha visto la erosione dei principi del codice del 1988: oralità, immediatezza, pubblicità, concentrazione sono connotati da tempo nel mirino di una prassi che, nel nome dell’efficienza, prova a cambiare il volto del codice processuale, la cui “ritualità” è il necessario contrappunto della violenza del giudizio.

È proprio vero – come si legge nel Vangelo secondo Matteo[1] – che <<quando la sera il cielo rosseggia>> e diciamo <<sarà bel tempo>> o <<al mattino, oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo>>, sappiamo interpretare l’aspetto del cielo, ma non siamo invece capaci di cogliere i <<segni dei tempi>>.

Prova ne sia lo sconcerto e allarme generati nel mondo forense allorché, a seguito della pandemia, sono state introdotte nel nostro ordinamento norme emergenziali in materia di giustizia, con la previsione – da parte dell’art. 83, commi 12-bis, 12-ter, 12-quater e 12-quinquies, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, ma ulteriormente modificato dal d.l. 30 aprile 2020 n. 28, non ancora convertito in legge – dello svolgimento delle udienze penali mediante “collegamento da remoto”. Tanto che la Giunta dell’Unione delle Camere Penali, con specifico riferimento alla disposizione che consente ai giudici, anche per i processi più gravi, di svolgere udienze da remoto, ha parlato di un <<intollerabile vulnus>> ai principi costituzionali del giusto processo, mentre l’Osservatorio sull’errore giudiziario dell’Unione Camere Penali Italiane, è stato ancor più esplicito, affermando che <<stupisce e indigna assistere a questi tentativi di scardinare le più basilari regole del contraddittorio e dell’immediatezza, utilizzando la situazione emergenziale come pretesto>>.

Senz’altro condivisibile è la preoccupazione che l’emergenza sanitaria possa essere usata come pretesto per giustificare il mantenimento di misure eccezionali limitative del diritto di difesa, magari anche dopo che la situazione di emergenza sia cessata. Tant’è che anche Magistratura Democratica, in un comunicato sui “rischi dell’udienza telematica”, ha tenuto a ribadire che <<una volta cessata la situazione di emergenza (…), occorrerà tornare alla “normalità” e, con essa, alla pienezza di tutte quelle regole processuali che non sono affatto neutre, perché previste dal legislatore in funzione dell’effettività del diritto di difesa e del ruolo di garanzia della giurisdizione>>.

Meno condivisibile, invece, è lo stupore per questa iniziativa legislativa volta ad introdurre, seppure in via transitoria, fino al 31 luglio 2020, la possibilità di celebrare processi penali “da remoto”, essendo questo nient’altro che l’ultimo atto di un ormai lungo iter, sia normativo che giurisprudenziale, di progressivo smantellamento del processo accusatorio teorizzato dal legislatore del 1989, di cui vi erano già stati “segni” premonitori, forse non sufficientemente avvertiti.

Pensiamo, ad esempio, al principio di oralità, che caratterizza il processo penale, diversificandolo dagli altri procedimenti (civile, amministrativo, tributario, contabile). Esso consiste nell’uso di forme verbali di comunicazione del pensiero e attiene sia alle modalità con cui devono essere interrogate le persone che rendono dichiarazioni, sia alla trattazione delle varie questioni processuali, che alla fase finale della discussione. Senonché, è un dato di fatto che molti processi vengono definiti attraverso riti alternativi nei quali – segnatamente nel giudizio abbreviato – non vi è, di regola, l’assunzione di prove dichiarative ed anche la discussione tende ad essere sempre più sintetica. A ciò si aggiunga che, anche in sede di giudizio ordinario, sono alquanto numerosi i processi di natura tecnica (pensiamo a quelli per reati di bancarotta, societari, tributari, urbanistici, ambientali) nei quali si ricorre piuttosto a memorie scritte per meglio illustrare problematiche complesse. Se poi guardiamo ai successivi gradi di giudizio, l’oralità è ancor più emarginata, essendo sempre più frequente (soprattutto dinanzi alla Corte di Cassazione) che l’avvocato venga sollecitato a limitare il più possibile il proprio intervento o anche a riportarsi semplicemente ai motivi scritti.

Ben più critica è la situazione riguardo al principio di immediatezza, in virtù del quale dovrebbe essere lo stesso giudice che ha svolto l’istruttoria dibattimentale a pronunciare la sentenza. Ciò per effetto della decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite del 30 maggio 2019, n. 41736, la quale ha sostanzialmente vanificato la regola della immutabilità del giudice di cui all’art. 525, comma 2, c.p.p., ammettendo che, in caso di mutamento, totale o parziale, dell’organo giudicante, le dichiarazioni assunte dinanzi a giudice diverso sono utilizzabili per la decisione mediante lettura a prescindere dal consenso o dal dissenso delle parti.

Quanto poi al requisito della pubblicità, finalizzato alla trasparenza e, quindi, al controllo da parte dell’opinione pubblica sul funzionamento della giustizia, fin dall’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, ci siamo chiesti come possa esso conciliarsi con la possibilità di celebrare in camera di consiglio, in sede di giudizio abbreviato, processi per reati anche gravissimi, che destano allarme sociale.

Anche per quanto riguarda il principio di concentrazione, vi sono indici significativi di affievolimento. Basti pensare al dilatarsi della durata dei processi, ai lunghi rinvii tra un’udienza e l’altra, nonché alla prassi ormai frequente di posticipare la decisione, una volta terminata la discussione, ad altra data successiva, con il “pretesto” di eventuali repliche, laddove, a rigore, ex art. 525, comma 1, c.p.p., la sentenza dovrebbe invece essere deliberata <<subito dopo la chiusura del dibattimento>>.

E, dunque, ancor prima dell’adozione delle misure legislative per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, il modello di processo accusatorio teorizzato dal legislatore del 1989 mostrava già vistose incrinature.

In questo quadro, ecco che irrompe sulla scena giudiziaria il c.d. “processo da remoto”.

L’art. 83 della citata legge n. 27/2020 prevede infatti, nel comma 12-bis, che <<le udienze penali che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti o periti possono essere tenute mediante collegamenti da remoto>> e che, con il consenso delle parti, la suddetta disposizione si applica anche <<alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti>>[2]. Il comma 12-quinquies del medesimo art. 83 prevede inoltre che <<le deliberazioni collegiali in camera di consiglio>> possano essere assunte mediante analoga modalità, precisando che <<il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge>>.

Orbene, pur tenendo conto delle ragioni eccezionali che hanno dato luogo all’emanazione di questo provvedimento legislativo, appare di tutta evidenza che la modalità di svolgimento “da remoto”, scardinando il fondamentale principio del contraddittorio, è in palese contrasto con l’essenza stessa del “giusto processo”.

Ciò per tre ordini di ragioni.

Innanzitutto, è imprescindibile, secondo il dettato costituzionale, che la persona accusata di un reato <<abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico>> (art. 111, terzo comma, Cost.). Laddove l’avverbio <<davanti>> sta evidentemente a significare “in presenza” del giudice e, dunque, non davanti ad un video!

In secondo luogo, non c’è dubbio che, nel rispetto dei principi di oralità e immediatezza, l’instaurazione della dialettica processuale attraverso l’esame diretto ed il controesame di testimoni, periti e consulenti tecnici, eventuali opposizioni a domande nocive o suggestive e contestazioni ex art. 500 c.p.p., presupponga necessariamente la compresenza delle parti, dei difensori e delle persone da esaminare in uno stesso luogo fisico. Anche delle persone da esaminare? Certo che sì! Non foss’altro perché, per valutare la “credibilità” di un teste, è talora indispensabile porre attenzione non soltanto a ciò che egli dice, ma anche al “modo” con il quale riferisce determinate circostanze e, cioè, a tutti quegli elementi comunicativi del c.d. “linguaggio non verbale” che ben difficilmente sarebbero percepibili attraverso il “medium” di uno schermo di computer[3].

Infine, <<Dal dì che nozze e tribunali ed are / Dier alle umane belve esser pietose / Di sé stesse e d’altrui>>, il processo penale è sempre stato strutturato in forma rituale. E, infatti, le norme che lo regolano sono raccolte in un codice detto, appunto, “di rito”. Rituale, peraltro, è anche il luogo nel quale il processo viene “celebrato” e così pure l’uso della toga. Tutte forme, queste, coessenziali alla sacralità del giudicare. Lo stesso Codice di procedura penale prescrive, del resto, l’uso di determinate “forme” a pena di nullità, inammissibilità o inutilizzabilità di atti.

Il processo, dunque, è essenzialmente “forma”. Ma talora, nell’essenza delle cose, <<la forma>> – secondo la felice intuizione di Aristotele – <<è anteriore ed è più della sostanza[4]>>. Per cui, tolta la forma e la solennità del rito, con la “smaterializzazione” dell’aula di udienza e con i collegamenti “da remoto”, verrebbe indubitabilmente meno, nel processo penale, quel che, peraltro un magistrato, con una bella espressione, ha definito <<la drammatica sacralità del giudicare[5]>>.

Vero è che le disposizioni in tema di “processo da remoto” sono di natura temporanea, essendo destinate ad operare soltanto fino al 31 luglio 2020. Però, già all’indomani dell’entrata in vigore del d.l. n. 18/2020, è stato auspicato un “ritorno alla normalità” in considerazione dei profili di frizione di questa normativa emergenziale con il dettato costituzionale[6]. E, in particolare, da più parti, è stato manifestato il timore che un’eventuale proroga delle misure emergenziali possa avere <<effetti dirompenti  finanche sulla fisionomia del processo penale[7]>>; che <<l’attività ‘da remoto’ possa, di regola, protrarsi anche oltre il periodo di emergenza[8]>>; o anche che la pandemia possa rappresentare una <<straordinaria occasione per fare definitivamente i conti con il processo accusatorio[9]>>; che <<la smaterializzazione del processo penale ed il correlativo massiccio ricorso alle semplificazioni tecnologiche>> possa costituire <<lo strumento per realizzare interventi di riforma della giustizia, evitando di affrontare tutti quei nodi che le disposizioni in materia di prescrizione avevano disvelato[10]>>; infine, che <<questa faccenda del processo smart prefiguri l’anticipo di un orribile futuro in cui alcune delle regole ‘eccezionali e temporanee’ di oggi siano destinate a divenire la normalità di domani[11]>>.

Preoccupazioni queste senz’altro condivisibili. Anche perché – come è stato acutamente osservato – <<le soluzioni ad un’emergenza sono spesso diventate regole>> e, spesso, <<in Italia, non c’è nulla di più definitivo delle norme transitorie[12]>> .

Prova ne sia, fra i molteplici esempi che potrebbero essere citati, l’art. 146-bis delle norme di attuazione del Codice di procedura penale, introdotto nel 1998 per consentire la partecipazione a distanza solo di imputati di reati di mafia, sequestro di persona a scopo di estorsione e associazione per traffico di sostanze stupefacenti, esteso poi a tutti i casi previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), n. 4, c.p.p., nonché ad una cospicua serie di delitti di cui al richiamato art. 51, comma 3-bis, c.p.p.

Ma la preoccupazione maggiore – ad avviso dello scrivente – è che, nel lodevole intento di far sì che il processo possa concludersi “entro un tempo ragionevole” (in attuazione del “Diritto ad un equo processo” sancito dall’art. 6 della Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali), facendo leva sul fatto che l’evoluzione tecnologica consente la trasmissione di immagini di elevata qualità, si ritenga, in nome dell’efficienza, di estendere ulteriormente i casi di “partecipazione al dibattimento a distanza”, se non addirittura di introdurre in via definitiva il c.d. “processo da remoto”.

A questo proposito, si è, infatti, recentemente affermato: <<La rivoluzione digitale è un dato di fatto. Non la si può ignorare. E l’emergenza pandemica (…) rappresenta l’occasione non cercata né voluta per far emergere tendenze latenti che non possono essere ignorate da sterili approcci vintage. Il punto non è se debba o meno ‘contagiare’ il processo penale – toccandolo fino alle sue fondamenta – ma come debba farlo[13]>>.

Orbene, ben venga la tecnologia, se può essere utile a snellire l’attività dei giudici e delle parti, ad esempio, con la digitalizzazione degli atti processuali e la trasmissione a mezzo PEC non solo di avvisi e citazioni da parte degli uffici giudiziari, ma anche di istanze, memorie o ricorsi da parte dei difensori, anziché mediante deposito cartaceo in cancelleria. Ma no all’introduzione, a regime, del “processo da remoto”. E un no ancor più deciso a che deliberazioni collegiali in camera di consiglio possano essere assunte “mediante collegamento da remoto” (come previsto dall’art. 83, comma 12-quinquies, della legge n. 27/2020), poiché questo, davvero, si traduce in un grave vulnus per la giustizia[14].

Auspichiamo, quindi, che si tratti di un vulnus soltanto temporaneo, senza … “postumi” permanenti!

 

 

* Avvocato del Foro di Firenze

[1] Matteo (Evangelista), 16, vv. 1-3.

[2] Questo periodo è stato introdotto dall’art. 3, co. 1, lett. d) del d.l. 30 aprile 2020 n. 28, non ancora convertito in legge.

[3] E. Mancuso, La dematerializzazione del processo al tempo del COVID-19, in Giurisprudenza penale web, 2020, 5, p. 8, ove, a tale riguardo, osserva giustamente che <<l’assenza di contiguità vanifica un frammento essenziale dell’oralità processuale, fatta di sfumature, reazioni istintive, comportamenti, linguaggi corporei, tutti aspetti non percepibili al di là dello schermo, dovendo, per intervenire, ogni parte chiedere la parola e attivare un microfono usualmente disattivato dal moderatore della videoconferenza>>.

[4] Aristotele, Metafisica, Libro Z (VII), 1029 a.

[5] P. Borgna, 25 Aprile e stato di eccitazione, in Questione Giustizia, 25 aprile 2020, p. 4.

[6] L. Fidelio-A. Natale, Emergenza COVID-19 e giudizio penale di merito: un catalogo (incompleto) dei problemi, in Questione Giustizia, 16 aprile 2020, p. 31.

[7] G. Picaro, Il virus nel processo penale. Tutela della salute, garanzie processuali ed efficienza dell’attività giudiziaria nei D.L. n. 18 e n. 23 del 2020, in Sistema Penale sp, pag. 9.

[8] A. Di Florio-M. Leone, Il processo di carta: dal telematico all’‘udienza da remoto’, in Questione Giustizia, 24 aprile 2020, p. 3.

[9] E. Rosso, Processo penale da remoto: viene violato il giusto processo? in Quotidiano Giuridico, 14 maggio 2020, p. 5.

[10] M. Vecchio, Il processo penale nel dopo emergenza: riflessioni dopo la conversione in legge del decreto cura Italia, in Diritto.it, p. 5.

[11] V. Spigarelli, Fuori dai denti: sul processo da remoto. Il bivio della giustizia penale alla prova della pandemia, in Questione Giustizia, 28 aprile 2020, p. 2.

[12] P. Borgna, 25 Aprile e stato di eccitazione, cit., p. 4.

[13] S. Lorusso, Un patto tra magistrati e avvocati per sveltire il processo penale, in Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2020, p. 27.

[14] Sulla importanza della “collegialità” in camera di consiglio, meritano di essere ricordate le parole di un magistrato di lunga esperienza in ambito penale: <<Se ‘decidere’ (dall’etimo latino ‘decaedere’) significa ‘tagliare’, ‘troncare’, ‘definire’, altro è lavorare in tale opera da soli, altro è operare con la presenza, il conforto, il dissenso costruttivo, o demolitorio, di altri>>, laddove, invece, <<il giudice monocratico, per il suo necessario isolamento, non ha alcuna possibilità di misurare con altri, non solo le sue percezioni, ma anche le sue emozioni, indispensabili per vivere, ma rischiose per giudicare>> (L. Lanza, Tra accusa e difesa: come si persuade il giudice, in Arte della persuasione e processo, in A. Traversi (a cura di), Giuffrè, Milano, 1998, p. 115).