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LA PREVENZIONE NELLE GARANZIE COSTITUZIONALI – DI MARCELLO FATTORE

LA PREVENZIONE NELLE GARANZIE COSTITUZIONALI – DI MARCELLO FATTORE

di Marcello Fattore


Il sotto-sistema delle misure di prevenzione ha superato i 150 anni di età ma non li dimostra, verrebbe da dire parafrasando un vecchio slogan, tant’è che oggi è assurto alla dignità di una codificazione, laddove neanche il codice di diritto sostanziale è riuscito, alla sua veneranda età, a rinnovarsi. Il varo della legge fondamentale del 1956 sulle misure di prevenzione ingenerò al tempo la presunzione di conformità costituzionale di un testo che era nato proprio in seguito alle censure della Consulta in punto di riserva di giurisdizione, così creando un clima favorevole all’affermazione di capisaldi che, in realtà, non trovavano riscontro nella Carta del 1947-48.

    Oggetto di questo intervento è il tentativo di rinvenire nella trama della Costituzione una indicazione a favore del riconoscimento di misure limitative della libertà personale o espropriative di beni che non trovano causa nell’accertamento di un fatto di reato o cosiddetto quasi-reato secondo le regole del giusto processo, ovvero in esigenze educative o inerenti alla salute, di cui agli articoli 30 e 32.
            Come noto, al momento dell’entrata in vigore della Costituzione la sorveglianza di polizia apparteneva già all’ordinamento giuridico italiano, essendo sorta prima dell’unificazione sotto l’egida del Regno di Sardegna, ed era costituita da un catalogo di misure orientate alla neutralizzazione di disagiati, irregolari, anarchici: il codice dei birbanti opposto a quello dei galantuomini, corredato quest’ultimo – a differenza dell’altro – di tutti i principi e le garanzie che la cultura illuminista aveva portato in dote.
            Tale arsenale proto-normativo si accrebbe di una serie di fatti che, già costituenti reato nei codici preunitari, vennero espunti dal testo del 1889, entrando nella clandestinità delle misure di polizia e così salvaguardando la virtù del codice liberale.
            Qualche decennio dopo, il regime autoritario si impadronì della materia, irrobustendola attraverso il varo del testo unico di pubblica sicurezza ed impiegandola con voluttà, particolarmente contro i suoi oppositori politici.
            Tuttavia, il destino riservato agli avversari si riverberò – per contrappasso – a scapito degli stessi esponenti fascisti quando le sorti del conflitto ruotarono, a conferma di una tale versatilità del sottosistema alla conservazione del potere politico da essere funzionale a (nonché indipendente da) qualunque segno ideologico.
Invero, i decreti legislativi luogotenenziali 419/44 e 149/45 e il decreto presidenziale 194/46, utilizzarono i sinistri istituti dell’ammonizione e del confino di polizia avverso chi … “nel passato periodo politico [ha] tenuto una condotta ispirata ai metodi e al malcostume del fascismo o che continuino in tale condotta in modo da risultare nell’uno e nell’altro caso pericolose all’esercizio delle libertà democratiche”.
Il varo della Carta entrata in vigore il primo gennaio 1948 poteva essere la migliore occasione per espungere definitivamente dal sistemaquesta materia ibrida – anche per il suo recente, immorale utilizzo – ma la storia ha agito in modo diverso.
            Come noto, la Costituzione non fa menzione delle misure di prevenzione, pur dedicando particolare attenzione alla pena e alle vicende dell’afflittività in generale, ma questa “omissione” non venne ritenuta dalla giurisprudenza successiva – e da parte della dottrina – argomento sufficiente per rinunciare a uno strumento la cui proprietà riproduttiva si era già manifestata in circa ottant’anni anni di vigenza, proprietà che sin d’allora poggiava su alcune, particolari circostanze.
Innanzitutto, la ritenuta incapacità del sistema penale – calibrato sul principio di necessaria lesività e sul ripudio della criminalizzazione di meri stati soggettivi – di diffondere sicurezza attraverso l’anticipazione delle aggressioni ai valori ordinamentali, ciò che aveva già al tempo accreditato l’idea della prevenzione come irrinunciabile avamposto della difesa sociale.
Tale matrice era stata colta dal potere politico, che ne aveva sin da subito sfruttato la natura esorcizzante al fine di propagandare riforme improntate all’efficienza.
Questa convergenza si è poi giovata della estrema duttilità del congegno, i cui spazi di manovra non erano ridotti dalle logiche di ponderazione e bilanciamento tipiche dello strumento penalistico, pubblicamente elogiate come il portato di secoli di elaborazione culturale ma giudicate in camera caritatis come eccessivamente condizionanti.
La stagione delle emergenze ha esaltato queste caratteristiche, tant’è che stata la cultura della prevenzione a dotare un legislatore disorientato da inattese forme di aggressione – terrorismo politico e associazioni criminali – di nuovi strumenti di lotta.
All’inizio degli anni ’80 del secolo scorso viene forgiato con il contributo essenziale della giurisprudenza il 416-bis, anticipato però quasi vent’anni prima dalle misure di prevenzione, e si inaugura la feconda stagione delle confische.
La situazione appena descritta subirà poi una rapida evoluzione in virtù dell’ascesa e moltiplicazione dei mezzi di comunicazione di massa, che contribuiranno a trasformare la realtà originaria dei fenomeni criminali in forme connotate da quote di artificialità e di enfasi.
È storia recente quella che vede la fabbrica della paura produrre sempre nuove (parvenze di) aggressioni alla quotidianità, che reclamano risposte solo di tipo preventivo-repressivo, premiando in termini di consenso chi sia capace di fornirle con immediatezza.
I campi di forza in atto nella materia hanno affievolito la caratteristica inclusiva, valoriale e pluralista del progetto costituzionale a tutto vantaggio della forza della legge, rinnovando in certo qual modo l’ideale giuspositivista d’inizio secolo scorso, al quale si è imputato – nella Germania del dopoguerra – di non essere riuscito ad evitare durante il periodo del nazionalsocialismo la torsione degli strumenti legislativi verso logiche di sopraffazione.
Eppure, una visione della tela costituzionale non offuscata dagli schermi meta-normativi in parte appena descritti, conferma il divieto di cittadinanza del sistema preventivo nei rapporti generali Stato-Persona.
            Entrando in argomento, è stato difatti ben evidenziato come l’articolo 25, comma 2 e 3 della Costituzione, copra tutta l’area delle possibili misure afflittive prevedibili, dovendo le eccezioni essere contenute in altre norme costituzionali e riguardando – per gli aspetti concernenti la libertà personale – limitazioni di tipo cautelare in relazione a determinati tipi di procedimento giurisdizionale od anche di carattere definitivo, quando le restrizioni stesse siano collegate a trattamenti educativi, e, soprattutto, sanitari (articoli 13, 30, 32 Costituzione).
            La completezza delle disposizioni costituzionali sugli strumenti punitivi si ricava dalla mera lettura del cosiddetto “emendamento Leone-Bettiol” che aggiunse al testo dell’articolo 25 il necessario, ossia il riferimento alle misure di sicurezza, testo da riportare per esteso per la sua intellegibilità:
            “È noto come la legislazione penale moderna marci su un doppio binario: da un lato le pene che postulano la colpevolezza e hanno carattere repressivo; dall’altro le misure di sicurezza. Per quanto riguarda le pene il progetto si pronunzia, mentre tace per quanto riguarda le misure di sicurezza.
            Il concetto della misura di sicurezza è decisivo: accanto al criterio della repressione del delitto si accetta anche quello della prevenzione, basata sulla pericolosità del delinquente.
La cosa è molto importante.
La misura di sicurezza si presenta con carattere indeterminato e, quindi, incide più marcatamente della pena stessa sulla libertà dell’individuo, tanto è vero che oggi i delinquenti temono molto più le misure di sicurezza che la pena stessa, appunto per questo carattere di indeterminatezza. Sullo sfondo vediamo balenare lo Stato di polizia, quindi non si tratta di misure che siano consone, al cento per cento, ai principi di una Costituzione liberale. Ma siccome lo Stato deve difendersi contro i delinquenti, è necessario che in certi casi possa disporre di provvedimenti difensivi di carattere preventivo. Si tratta sempre di misure di sicurezza che entrano in considerazione nella legge penale, e quindi vengono applicate nei confronti di persone socialmente pericolose, in occasione della perpetrazione di un reato.
            Non sono misure di polizia: questo devo chiarire perché non sorgano equivoci. Si tratta di misure preventive di sicurezza, che devono essere applicate, a norma del Codice penale, nei confronti di individui imputati o imputabili in occasione della perpetrazione di un reato.
            Data la grande importanza di queste misure, dato il loro incidere sulla libertà personale, e dato che sono riconosciute anche dalle altre legislazioni moderne, è bene fissare anche per esse il principio di legalità, onde la discrezionalità sia bloccata, in modo che anche per queste misure si possa avere il presidio della legge scritta sull’arbitrio del giudice o delle altre autorità statali che possano privare il cittadino della libertà individuale.
            (…)
            “Vi è poi la proposta degli onorevoli Bettiol e Leone Giovanni, che la Commissione ha dichiarato di accettare, di aggiungere dopo il secondo, il seguente comma:
            <<Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza al di fuori dei casi previsti dalla legge>>.
            La pongo in votazione.
            (È approvata).
            Il senso del pensiero è molto chiaro, proprio laddove precisa che l’intervento preventivo tout court è incompatibile con i principi liberali, potendo rientrare come opzione di difesa sociale solo per le persone condannate penalmente e dichiarate socialmente pericolose.
Dunque, il “non-detto” costituzionale sulle misure di prevenzione non può interpretarsi nel segno della permanenza di questo aggeggio nell’ordinamento, sia per quanto già appena sostenuto sulla previsione esaustiva e chiusa delle misure afflittive nella Carta; sia per il contrasto evidente della Costituzione materiale con il regime fascista – che aveva utilizzato le misure in modo massivo – regime stesso estromesso dal programma costituzionale.
È d’uopo evidenziare che la esclusione non coincide solo con il divieto di “ricostituzione” del partito fascista, ma si estende alle strutture portanti dello stato autoritario. 
Invero, i principi fondamentali della Costituzione – come quelli riguardanti i diritti di libertà, l’eguaglianza tra i cittadini, l’internazionalismo e il ripudio della guerra, il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di indirizzo politico, la garanzia della Costituzione contro gli abusi politici, la struttura statale basata sulle autonomie – sono tutti speculari a quelli adottati dal fascismo e si ritengono anch’essi sottratti al procedimento di revisione.
Per concludere, le misure di prevenzione sono state ritenute dai costituenti uno strumento espressivo di mera potestà, avulso da logiche di razionalità e bilanciamento; la loro permanenza all’interno di un progetto democratico e pluralista non è deducibile dalla loro omessa menzione nella Carta.
L’imbarazzato silenzio tenuto durante i lavori è stato verosimilmente dovuto al fatto che le stesse misure erano state utilizzate – come già scritto – anche a fini di lotta politica antifascista: questo dato spiega la mancata discussione in sottocommissione del confino di polizia e la mancata presa in considerazione dell’emendamento Bullati-Mortati sulle misure di polizia.
Insomma, sulle misure di prevenzione era meglio tacere, ma, a dispetto di ciò, la trama costituzionale evidenzia in modo chiaro che non c’è spazio per queste forme di inabilitazione all’interno dei rapporti tra autorità e libertà, così come ridisegnati nel 1947.
Continuando con ciò di cui la Carta si prende cura, va segnalato poi come il nesso corrente tra gli articoli 3 e 27 individui il condannato definitivo per un reato – colui il quale ha leso un valore di livello costituzionale – come una persona destinataria di un’offerta (non di reclusione ma) di re-inclusione nel consesso sociale e di recupero della sua dignità.
Dunque, restano fuori dal perimetro costituzionale tutte le misure afflittive che – come quelle di prevenzione personali – non sono corredate da un programma riabilitativo implementato attraverso la rimozione degli ostacoli che hanno impedito il pieno sviluppo della persona e che mirano al recupero della sua dignità sociale (articolo 3, primo e secondo comma).
L’aspetto del mancato sviluppo della persona come (con)causa della commissione di un reato è ciò di cui si fa carico l’ordinamento, presupponendone però a monte la condizione di libertà.
Difatti, il rapporto intercorrente tra gli articoli 2, 3 e 13 sottolinea la libertà come condizione originariadell’uomo e la (pari) dignità dei cittadini come suo riflesso all’interno del consesso sociale.
Invero, il primo verbo utilizzato nella Carta per definire lo statuto dei diritti inviolabili (“La Repubblica riconosce…) rimanda all’esistenza di uno stato – quello di libertà – precedente alla fondazione degli stessi ordinamenti, i quali si costituiscono per garantirlo nel mit-sein.
Come è stato efficacemente sintetizzato, la libertà personale non è un diritto costituzionale ma è un diritto istituzionale, caratterizzante la stessa forma democratica dell’ordinamento: ogni sua limitazione al di fuori dei casi previsti espressamente negli articoli 13, 16, 17, 30, 32 della Carta, è sottratta al procedimento di revisione costituzionale.
            L’estensione e la profondità del concetto di libertà personale sono comprovate dalla tipicità invalicabile delle sue possibili restrizioni.
Invero, il rapporto tra gli articoli 13, 25, 27, 111 Costituzione mostra che la pena è l’unica possibilità di limitazione della libertà personale dell’uomo connessa intimamente a una diminuzione della sua dignità, pena stessa che – per le conseguenze disvaloranti implicate – può applicarsi solo attraverso le forme del giusto processo regolato dalla legge.
Difatti, l’indicazione nel capoverso dell’articolo 13 Costituzione della perquisizione accanto alla detenzione – misura quest’ultima che attua una minima limitazione della autonomia di movimento – fa comprendere come l’inviolabilità assoluta della libertà personale è quella legata all’assoggettamento della persona ai pubblici poteri con conseguenze sulla sua dignità: quest’ultima può essere dunque definita come la degradazione giuridica del cittadino nei confronti della comunità ed è considerata nella Carta come un’entità assiologica unitaria (articoli 3, 13, 14, 27, 32, 41 Costituzione).
Ebbene, le misure personali realizzano gli epiloghi che la Carta ha previsto solo per la pena: limitazione della libertà personale, soggezione ai poteri pubblici, degradazione nei confronti dell’intera platea sociale.
Come è noto, ciò può avvenire esclusivamente attraverso il rispetto delle garanzie di cui agli articoli 3, 13, 14, 24, 25, 27, 111 Costituzione: legalità sostanziale e processuale; principio di determinatezza come dovere dello Stato alla conoscibilità del precetto; principio del contraddittorio e diritto al silenzio; principio di colpevolezza come rifiuto del sospetto, falsificabilità della prova a carico e standard probatorio oltre ogni ragionevole dubbio; diritto alla rieducazione per il condannato consenziente.
Ancora.
La estensione della inviolabilità della persona al domicilio – articoli 13 e 14 Costituzione – rimarca sul piano storico l’alterità radicale del Patto con una tra le violazioni di tipo preventivo più diffuse durante il periodo fascista, prevista dagli articoli 16 e 41 del TULPS 773/1931, che consentivano di perquisire in tutte le ore le attività soggette ad autorizzazioni di polizia (alberghi, tipografie, agenzie) e di ispezionare ogni luogo pubblico o privato, qualora, “anche per sospetto”, vi fosse la presenza di armi.
È dunque indicativo che il domicilio – oltre ad essere espressamente definito “inviolabile” – goda delle stesse garanzie della libertà personale.
Vieppiù, è interessante evidenziare nel capoverso dell’articolo 14 la previsione della riserva di legge rinforzata anche per i “sequestri” accanto alle ispezioni e perquisizioni.
La Costituzione prende dunque già in esame la possibilità di ablazione dei beni della persona nell’ambito di un procedimento penale, apprestando però le stesse garanzie previste per la limitazione della libertà personale.
Dalla relazione tra il secondo e il terzo comma dell’articolo 14 trova poi conferma il fatto che le attività compiute per indagini preliminari – ispezioni, perquisizioni, sequestri – sono connesse a una degradazione di tipo morale, poiché gli accertamenti e le ispezioni finalizzate alla realizzazione di altri scopi (sanità, incolumità pubblica, motivi economici e fiscali), non godono della protezione rinforzata ma della “regolamentazione” di legge speciale.
Dunque, l’ablazione dei beni nell’ambito di un procedimento penale è attività che comporta una lesione della dignità della persona e per la quale sono apprestate le stesse garanzie che tutelano la libertà personale.
Con riferimento alla eventuale legittimazione di un sistema preventivo-repressivo parallelo a quello penale, alcuni Autori – e la giurisprudenza costituzionale – hanno intravisto nell’assetto dei valori della Carta l‘esistenza di un diritto generale ed inviolabile riguardante la sicurezza.
In realtà, questa sembra rappresentare nell’intelaiatura complessiva della Costituzione un limite interno alle sole disposizioni ove viene espressamente richiamata.
Nel caso dell’articolo 16 la sicurezza e la sanità sono motivi che limitano la circolazione “in via generale”.
Quella prevista per l’esercizio della libertà di riunione è la sicurezza derivante dalla compresenza di una moltitudine di persone.
La sicurezza dell’iniziativa economica è quella inerente al rilascio delle licenze per lo svolgimento delle relative attività e quella specifica dei lavoratori.
Discorso in parte analogo è stato promosso con riferimento all’ordine pubblico, che non è tra l’altro mai menzionato nella Carta – significativo in tal senso è l’emendamento Calamandrei-Cianca soppressivo proprio del termine ordine pubblico – e che non esprime un principio di carattere generale.
Il concetto va innanzitutto correttamente inteso come interesse alla tranquillità materiale (cosiddetto ordre dans la rue) e non come insindacabilità di presunti principi ordinamentali, così come ritenuto durante il regime autoritario, ove esso si estendeva alla “vita indisturbata e pacifica dei positivi ordinamenti politici sociali ed economici che costituiscono l’essenza del regime” – così la circolare telegrafica del capo della polizia Arturo Bocchini che interpreta l’articolo 2 TUPS.
Anch’esso, in realtà, limita solo le attività in relazione alle quali è indirettamente richiamato (articolo 17 sulla pacificità delle riunioni; articolo 18 sul divieto di costituzione delle associazioni segrete ovvero aventi scopi politici e assetto militare; articolo 21 riguardante il sequestro della stampa clandestina) e non può individuarsi come presunta “clausola generale”, perché, ad esempio, non limita altre libertà, come quella religiosa e di espressione, diversamente limitate (buon costume) o affatto limitate.
Un cenno finale alle misure patrimoniali, laddove le si voglia mirare dalla parte del diritto di proprietà ex articolo 42 della Carta e non dal versante già esaminato della tutela dei beni prevista all’interno della più ampia protezione costituzionale del domicilio, precisando che questa seconda strada appare a noi preferibile perché offre una risposta in termini di bilanciamento proprio al rapporto tra diritto di proprietà e potestà punitiva, angolo prospettico di nostro specifico interesse.
Come abbiamo visto, apprestando le stesse garanzie previste per la limitazione della libertà personale ai sequestri la Carta ritiene possibile espropriare i beni di una persona all’interno di un procedimento penale solo con le protezioni che sono state già richiamate.
Non è superfluo ribadire che le misure patrimoniali vengono applicate esclusivamente in conseguenza dell’esistenza di un reato, pur se non accertato.
Volendo però guardare alla capacità di resistenza del diritto di proprietà alle istanze punitive pubbliche dal punto di vista dell’articolo 42 Costituzione, è utile premettere che alle misure patrimoniali non spetta più la definizione di “preventive” a far tempo dai decreti-sicurezza del 2008 e 2009, che – separando l’azione personale da quella patrimoniale, legittimando l’avvio del procedimento reale contro gli eredi del proposto ed eliminando l’obbligo di verifica del requisito dell’attualità della pericolosità sociale – hanno reso esclusivamente retrospettivo il giudizio per la loro applicazione.
Come noto, la Corte Costituzionale ha con la recente Sentenza 24/2019 identificato il carattere delle misure patrimoniali come “meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell’illecita acquisizione del bene”, proprio perché la presunzione d’illecito arricchimento segna “un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà … risultando <<sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico …>>”.
La collocazione dell’articolo 42 Costituzione nel titolo riguardante i rapporti economici e, soprattutto, il riferimento espresso nel testo alla sua “funzione sociale” sono i segni di una immagine della proprietà non più legata all’idea di affrancamento dell’uomo dal potere religioso o da quello del sovrano – programma già dato storicamente per realizzato dalla Carta – ma di una visione dinamica del concetto, ora inserito in un reticolo di valori che intercettano, oltre l’idea dell’autoconservazione e realizzazione personale, anche il pluralismo sociale e l’innalzamento delle possibilità economiche collettive.
Il riferimento espresso, poi, alla riserva di legge sui “modi di acquisto, di godimento e i limiti” della proprietà privata rende corretto sul piano teorico-metodologico il discorso promosso dalla Consulta, pur se – a nostro avviso – inquadrato in termini non completi.
Difatti, va parimenti evidenziato come la proprietà privata è considerata come un diritto inviolabile – anche se non espressamente definito come tale – nella misura in cui è “riconosciuta e garantita dalla legge”.
Da questo angolo visuale, un diritto inviolabile non può essere inciso se non con le garanzie proprie, che, nel campo di materia ove ci si muove – quello di misure che si applicano in conseguenza di un reato – non possono che essere quelle di carattere sostanziale e processuale.
 


                                                                                  
 
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[1] Relazione tenuta nel convegno organizzato a Trani il 24 gennaio 2020 dal titolo “Prevenzione ante delictum e Stato di diritto”.