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LA “RIFORMA CARTABIA” E LA RAZIONALIZZAZIONE  DEI TEMPI PROCESSUALI NELLA FASE DIBATTIMENTALE – DI PASQUALE BRONZO

LA “RIFORMA CARTABIA” E LA RAZIONALIZZAZIONE DEI TEMPI PROCESSUALI NELLA FASE DIBATTIMENTALE – DI PASQUALE BRONZO

BRONZO – LA RIFORMA CARTABIA E LA RAZIONALIZZAZIONE DEI TEMPI PROCESSUALI NELLA FASE DIBATTIMENTALE.pdf

LA “RIFORMA CARTABIA” E LA RAZIONALIZZAZIONE DEI TEMPI PROCESSUALI NELLA FASE DIBATTIMENTALE

THE “CARTABIA REFORM” AND THE PROCEEDING’S TIME RATIONALIZATION IN THE TRIAL PHASE

di Pasquale Bronzo* 

Una analisi della razionalizzazione della fase del dibattimento e di conseguenza anche del contenimento dei suoi tempi, contenuta nelle indicazioni della legge delega di riforma “Cartabia” al comma 11 lett. da a) a d)). Il contributo è la trasposizione, in forma testuale, della relazione tenuta dall’autore al Convegno annuale dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale G.D. Pisapia, «Alla ricerca di un processo penale efficiente», Pisa, 21-22 gennaio 2022. Il lavoro, del quale si anticipa la pubblicazione, è destinato al fascicolo numero 4 2021 della rivista Cassazione Penale.

  1. Premessa

La legge delega non si occupa molto del dibattimento, e questa circostanza trova una facile spiegazione: in una riforma che punta a velocizzare il processo, il dibattimento è la fase meno adatta a realizzare economie, perché è allo stesso tempo la fase più laboriosa e quella che è più difficile semplificare senza che ciò comporti una diminuzione di garanzie. E tuttavia, non manca di alcune indicazioni (comma 11 lett. da a) a d)) che puntano alla razionalizzazione e di conseguenza anche al contenimento dei tempi dibattimentali.

  1. Il calendario del dibattimento

Andando per ordine, la prima delle innovazioni richieste (lett. a)) consiste in una disciplina secondo la quale, «quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, dopo la lettura dell’ordinanza di ammissione delle prove il giudice comunichi alle parti il calendario delle udienze per l’istruzione dibattimentale e per lo svolgimento della discussione». Un potenziamento dei compiti di “direzione formale” del giudice dibattimentale in chiave di razionalizzazione e riduzione dei tempi.

La fissazione di un calendario delle udienze, infatti, di per sé non velocizza il dibattimento ma, rendendone prevedibile lo svolgimento, consente una migliore programmazione delle attività e un più efficace adempimento dei diversi incombenti, e una riduzione degli intervalli tra le udienze rispetto alla fissazione di volta in volta: il giudice può calibrare meglio il suo ruolo in base al carico dell’udienza, le parti possono prepararsi più facilmente alle udienze conoscendo in anticipo le attività che dovranno svolgersi in ciascuna di esse; dovrebbe essere più facile gestire la partecipazione di testimoni e consulenti, che oggi vengono spesso citati inutilmente; dovrebbe ridursi il rischio di intervalli causati da segnalazioni incrociate di impedimenti da parte dei difensori[1]; si potrebbero insomma ottimizzare le tempistiche dei dibattimenti in ossequio al principio di concentrazione che, nella procedura penale vivente, viene completamente obliterato[2], ben oltre la mera inosservanza della disciplina dei rinvii (art. 477 comma 2 c.p.p.[3]).

La pianificazione punta insomma a dibattimenti più concentrati, propiziando la riduzione degli intervalli tra un’udienza e l’altra, oggi lunghissimi, e più brevi rispetto alla durata media attuale. L’attuazione di questa indicazione della delega non è priva di insidie. È lecito supporre che l’innovazione proposta – se da un lato mostra di valorizzare prassi virtuose non abbastanza diffuse – sia stata in qualche o modo influenzata dalla recente introduzione della regola della calendarizzazione delle udienze nel processo civile, istituto che però presenta rilevanti criticità, dalle quali la disciplina richiesta al nostro legislatore delegato andrebbe tenuta indenne[4].

L’art. 81-bis disp att. c.p.c., introdotto da una novella del 2009, dispone che «il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, sentite le parti e tenuto conto della natura, dell’urgenza e della complessità della causa, fissa, nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo, il calendario delle udienze successive, indicando gli incombenti che verranno in ciascuna di esse espletati». La previsione si richiama al calendario delle udienze introdotto qualche anno prima nel codice di rito civile in Francia, ma al di là del nome e delle formule testuali, quasi ricalcate, diverge notevolmente dall’istituto francese, sia per natura che per funzione[5].

Il calendrier è stato concepito, in un sistema i cui termini sono tutti determinati dal giudice, come elemento di contrattualizzazione del rito: il giudice può (e non deve) chiamare le parti a concordare un calendario così condividendo la responsabilità dell’andamento della lite, tanto che può far valere l’accordo processuale attraverso severe sanzioni decadenziali. Esso è previsto per le attività di trattazione e decisione, ma non per le udienze istruttorie,[6] e solo per le cause trattate secondo un rito particolarmente lungo e articolato (quelle di competenza del tribunale si grande istanza)[7].

La disciplina italiana, invece, in primo luogo prevede la calendarizzazione proprio per le udienze dedicate alla acquisizione delle prove, in considerazione del fatto che nel nostro processo civile i tempi per l’introduzione, trattazione e decisione della causa sono scanditi legislativamente, mentre l’unica fase di durata imprevedibile è quella propriamente istruttoria[8].

In secondo luogo, e soprattutto, a differenza del legislatore francese, quello italiano – assillato dal problema della durata irragionevole dei processi – sembra richiedere la fissazione di un calendario per ogni procedimento (nel quale vi siano istanze istruttorie)[9], senza che rilevino né il tipo di procedura né le condizioni concrete di contesto: queste due caratteristiche, combinate tra loro, hanno reso assai problematica l’operatività della previsione.

A parte la difficoltà di stilare un numero imprecisato di calendari, l’istituto rischia infatti di sortire, specie in sedi con ruoli sovraccarichi e carenze strutturali, effetti contra rationem legis: la calendarizzazione “necessaria” di ogni procedimento appesantisce i ruoli, a scapito degli altri procedimenti già pendenti e di quelli sopravvenuti, cui rischia di togliere spazio, allungandone i tempi. Questi effetti avversi potrebbero, peraltro, non essere compensati da alcun vantaggio, data l’alta probabilità che i calendari non vengano, comunque, concretamente rispettati: essendo la calendarizzazione prevista per le attività istruttorie, giocano negativamente gli imprevisti di ogni istruttoria, che possono imporre continue ri-programmazioni. Può trattarsi di eventi patologici, come l’assenza del teste o di un consulente, l’impedimento del giudice, l’astensione dalle udienze degli avvocati, lo sciopero dei cancellieri e tutta una serie di inciampi; ma anche di accadimenti che rientrano nella fisiologia dell’istruzione dibattimentale. Questo tipo di difficoltà sarebbero ancora più acute nel processo penale, in cui le preclusioni istruttorie sono meno rigide, e più ampi e frequenti gli interventi istruttori officiosi. Si pensi ad una perizia, all’esame di un teste di riferimento, al supplemento istruttorio che, terminata l’acquisizione delle prove, appaia necessario al giudice, o che a quest’ultimo venga sollecitato dalle parti.

In tutti questi casi difficilmente il giudice disporrà, a tal fine, di spazi liberi nel proprio calendario, perché nel frattempo essi saranno stati destinati agli incombenti di altri processi, cosicché questi potrebbe trovarsi di fronte alla necessità di scegliere tra due alternative entrambe disfunzionali: differire, nei giudizi in cui si siano verificati gli imprevisti, le udienze necessarie a farvi fronte in coda all’ultima di quelle fissate, così scompaginando l’articolazione dell’istruttoria, oppure rinviare una parte delle udienze relative agli altri processi del ruolo, così stravolgendo il programma di questi ultimi, e gravando le cancellerie delle relative comunicazioni.

Nel rito civile l’apparente obbligatorietà del calendario è stata oggetto di serie perplessità da parte di interpreti ed operatori, che hanno rilevato come essa rischierebbe di rendere impossibile la gestione dei ruoli[10]. Oggi la calendarizzazione delle udienze civili avviene, nella pratica, in una percentuale minima dei procedimenti, il che può trovare due spiegazioni: una disinvolta disapplicazione dell’art. 81-bis disp. att. c.p.c., oppure un’interpretazione dell’istituto nel senso della discrezionalità, della quale – potremmo dire – il «rispetto del principio della ragionevole durata del processo» richiamato nel testo, riferito al complesso dei procedimenti del ruolo, funge da criterio-guida e limite operativo dell’istituto[11]. Insomma, la regola del calendario – e ciò vale anche nel processo penale – per essere utile, non può essere rigida, non solo per il quomodo ma anche per l’an della programmazione.

L’obiettivo al quale il legislatore sembra tendere è quello di un sistema di trattazione non più “in simultanea”, nel quale ogni giudice fa progredire contemporaneamente i suoi processi, ma “in sequenza”, nel quale cioè innanzi a ciascun giudice pende un numero contenuto di processi contemporaneamente aperti, con relativa chiusura dei casi, volta per volta[12]. Questo sistema garantirebbe un dibattimento concentrato, con intervalli brevi tra le udienze, e decisioni assunte a distanza non eccessiva dalla chiusura dell’istruzione. Calendarizzare non basta, evidentemente (è vero semmai che una trattazione sequenziale agevolerebbe la regola della calendarizzazione). L’obiettivo della trattazione sequenziale richiede uno sforzo organizzativo più articolato e intreccia il tema delle priorità e del triage dei processi, ma sicuramente merita di essere perseguito.

  1. L’illustrazione delle richieste di prova

La lettera b) delega il Governo a prevedere «che le parti illustrino le rispettive richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell’ammissibilità delle prove».

Conosciamo la funzione della sotto-fase in cui – nel testo originario del codice vigente – ogni parte, nel chiedere l’ammissione delle prove, presentava i propri assunti istruttori. Per le parti questo preambolo faceva da “innesco” alla dialettica probatoria: l’imputato veniva a conoscenza, in dettaglio, degli assunti istruttori dell’accusa, rispetto ai quali avrebbe potuto da subito contromuovere, il pm. prendeva atto delle prospettazioni difensive tese ad elidere l’addebito (esimenti, cause estintive). La maggior portata informativa era tuttavia per il giudice, il quale vedeva in tal modo integrate le scarne informazioni presenti nel fascicolo, in vista del sindacato di ammissibilità delle prove richieste.

Quel richiamo del delegante alla stretta necessità vuole scongiurare il ritorno alle diffuse esposizioni con le quali nei primi anni di applicazione del codice vigente i pubblici ministeri importavano nel nostro processo l’opening statement d’oltreoceano (ove però il preambolo era pensato per introdurre al giudizio una giuria di laici). Favoriti da una certa preminenza che il testo originario dell’art. 493 sembrava assegnare alla pubblica accusa, che in quel testo «espone concisamente» fatti (comma 1) mentre tutte le altre parti li «indicano» soltanto (comma 2), e probabilmente influenzati ancora dal vecchio rito, i pubblici ministeri trasmettevano al giudice informazioni sugli esiti delle indagini preliminari, prima e al di fuori di ogni contraddittorio, finanche giungendo a riportare stralci di “sommarie informazioni”. Ciò che aveva suggerito al legislatore della Legge Carotti del 1999 la riscrittura della disciplina, di quell’incombente, un retaggio del vecchio rito, nel quale la sua ampiezza non dava alcuno scandalo, perché tutte le carte dell’istruzione formale erano già conoscenza comune di giudice e parti.[13]

Il richiamo alla verifica della ammissibilità delle prove sembra puntare, almeno nelle intenzioni del legislatore, ad affinare il vaglio ammissivo, stringendo le maglie del filtro, in particolare per quanto riguardo il controllo di non superfluità.

L’innovazione sembra anche rimedio (obliquo) alla disapplicazione – da parte del pm quanto delle difese – della norma che vuole precisate in lista le circostanze su cui verteranno gli esami orali.

Insomma: se la giurisprudenza di legittimità è indulgente, e benedice liste in cui il p.m. si limita a fare rinvio “ai capi di imputazione” e i difensori confidano – io credo – nella stessa indulgenza, la legge delega vuole che si evitino almeno richieste di prova in cui “ci si riporta alla lista testi”.

E, tuttavia, in un processo di parti il sindacato giudiziale delle richieste di prova andrebbe contenuto il più possibile. E sappiamo che il giudizio di non superfluità delle prove, in particolare, è assai delicato: occorre confrontare tra la richiesta e le conoscenze già conseguite o altrimenti conseguibili, eppure in limine litis conoscenze conseguite però non ve ne sono ancora, e per quelle conseguibili occorrerebbe attendere che le altre prove siano espletate. Non a caso, per questo tipo di “economie” il codice prevede già, come norma di razionalizzazione delle attività, la revoca dell’ordinanza ammissiva per sopravvenuta superfluità (art. 495 comma 4 c.p.p.)  Verrebbe da dire: non basta questa possibilità? Non basta perché si punta al massimo risparmio temporale, cioè ad un immediato sfoltimento delle prove da ammettere: la revoca ad istruzione probatoria già iniziata, infatti, fa risparmiare sì lavoro dibattimentale, ma a prezzo di una riprogrammazione delle attività, incidendo sull’organizzazione del dibattimento, che oggi si vorrebbe migliorare rendendo obbligatoria la calendarizzazione delle udienze.

Può sembrare, questa della illustrazione delle richieste, solo una manovra economica, che rischia di aggravare le condizioni l’esercizio del diritto alla prova, ma forse una congrua informazione iniziale del giudice sulle prove da ammettere consente di conseguire effetti vantaggiosi anche nell’ottica di un processo di parti.

Va infatti considerato che la completa ignoranza del giudicante sul contenuto delle prove richieste dalle parti – che oggi di fatto deriva dalla burocratizzazione dell’incombente delle liste, e da telegrafiche «richieste di prova» – può, da un lato, favorire un eccesso di selezione, all’inizio e in itinere (art. 495 comma 4),  specie nei processi particolarmente affollati o complessi, in cui il cruccio dei tempi lunghi è più presente, e, dall’altro, può condurre ad atteggiamenti invadenti e poco rispettosi delle prerogative delle parti in sede di escussione: draconiani contingentamenti di tempi degli esami, esercizio intempestivo o comunque maldestro del potere di interlocuzione presidenziale, che a volte finisce per tradurisi addirittura nella sostanziale replica dell’esame appena concluso dalle parti.

Queste violazioni al corretto esplicarsi del contraddittorio probatorio, fatalmente perpetrate a scapito della difesa più spesso che a danno dell’accusa, di fatto sfornite di sanzione, e per questo ancora più insidiose, non più attribuibili alle incrostazioni del vecchio modo di interpretare il ruolo del giudice nel codice Rocco, possono essere agevolate piuttosto dalla scarsa possibilità comprensione delle iniziative istruttoria da parte del giudice.

Insomma: una maggiore informazione iniziale del giudicante sulle strategie probatorie può smorzare certe sue diffidenze rispetto all’operato dei contendenti, rendendolo meno invadente e più propenso all’ascolto.

La modifica richiesta dalla delega ha suscitato alcuni timori che il delegato farà bene a tenere presenti ma che sembrano in parte da ridimensionare.

Non credo che sia granché temibile il rischio – denunciato dalle Unione Camere Penali Italiane – che, sebbene il compito di illustrazione delle richieste sia assegnato a tutti i contraddittori, l’innovazione ricrei comunque una posizione di subalternità della difesa rispetto al PM: si dice infatti che «la difesa si muove spesso in una funzione negatrice dell’accusa e non necessariamente alla proposizione di una ricostruzione alternativa». Io credo però che anche le controdeduzioni o le contro-allegazioni difensive si giovino di una attività di chiarificazione, che infatti oggi non è affatto rara, nella prassi.

Il fatto che il pm possa essere “agevolato” in questo preambolo illustrativo non legittima il timore di una riedizione della vecchia “esposizione introduttiva del pubblico ministero”, che resta non consentita (in tal caso sì che avremmo un doppio danno: un regresso inquisitorio e una dilatazione dei tempi). Farei affidamento, in proposito, sul ruolo di governo del giudice al quale spetta sorvegliare sugli equilibri tra le parti.

Assai più fondato è un altro diverso timore: che la previsione imponga una riorganizzazione dell’ufficio del pm. Nella prassi le prime udienze, udienze di smistamento o comunque occupate da incombenti preliminari, sono solitamente gestite da un unico pubblico ministero, chiamato a trattare tutti i procedimenti iscritti in una certa giornata, compresi fascicoli dei quali non è titolare, e per i quali dunque non ha svolto indagini; difficile che riesca nel compito che oggi si vuole richiedere alle parti. La nuova disciplina – applicata sul serio – richiederebbe di accorpare in una unica udienza tutti i procedimenti dei quali un certo p.m. sia titolare. Quindi l’innovazione esige in effetti uno serio adeguamento organizzativo, in mancanza del quale la riforma richiesta rischierebbe di essere inefficace, se non addirittura controproducente.

  1. Il deposito anticipato della relazione scritta di periti e consulenti

La lettera c) richiede di prevedere che, ai fini dell’esame del consulente o del perito, il deposito delle consulenze tecniche e della perizia entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame dell’esperto.

Si tratta di una misura volta a potenziare un contraddittorio «informato» sulla prova tecnica, la cui utilità è stata da tempo segnalata dalla dottrina. Oreste Dominioni rilevava, già molti anni fa, nel suo volume sulla prova penale scientifica, l’utilità di questa «discovery speciale», con una funzione diversa e ben più ampia da quella ordinariamente prevista per le prove che ogni parte intende schierare. Una discovery che fino ad ora è stata rimessa alla prudenza applicativa del giudice nel suo stabilire le modalità di assunzione della prova ai sensi dell’ultima parte dell’art. 189 come formalità prodromica alla assunzione, cioè l’esame dell’esperto[14]. Ora il deposito anticipato diventa una misura prevista dalla legge, che potrebbe – e probabilmente dovrebbe – prevedere anche l’obbligatorietà del deposito di una relazione scritta, che attualmente non è affatto indefettibile; tanto che il perito deve chiedere al giudice di essere autorizzato a presentare una relazione scritta (art. 227 comma 5 c.p.p.) e il consulente tecnico extraperitale espone il proprio parere (art. 233 comma 1 c.p.p.) «anche presentando memorie ai sensi dell’art. 121»[15].

Si tratta – è vero – di un incombente in più, ma che promette semplificazione e razionalizzazione dell’attività istruttoria. In questo modo non solo alle parti ma anche al giudice possono essere illustrati i principi scientifici in gioco, le metodologie impiegate, le competenze possedute dall’esperto e spese nella risoluzione dei quesiti, impratichirsi col linguaggio utilizzato, spesso da iniziati[16].

«Ferma restando la disciplina delle letture e dell’indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione» precisa la delega, per chiarire che la lettura pubblica della relazione non può mai sostituire l’esame dell’esperto, proprio perché si tratta della modalità attraverso la quale la prova tecnica viene “assunta” nel dibattimento[17]. L’esame orale in contraddittorio dell’esperto è infatti lo strumento di verifica della sua attendibilità, della affidabilità del metodo scientifico da questi impiegato e della sua corretta applicazione alla fattispecie processuale; e consente di verificare anche gli esiti riversati nelle relazioni scritte (ecco perché appare opinabile – sia detto per inciso – l’assunto delle Sezioni unite che, nel risolvere la questione della possibilità di riformare in appello una decisione fondata su una prova tecnica senza procedere ad una nuova escussione dell’esperto, hanno distinto tra l’ipotesi in cui l’esperto sia stato esaminato nel giudizio di primo grado o se sia stata data soltanto lettura della relazione scritta[18]).

La lettura dell’elaborato scritto dovrà sempre seguire l’esame orale, salvo che questo non abbia luogo perché non richiesto, a pena di nullità a regime intermedio[19].

  1. La rinnovazione dibattimentale per mutamento del giudice

Il compito più difficile assegnato al legislatore delegato, tra quelli riguardanti la disciplina dibattimentale, è senz’altro quello relativo alla disciplina della rinnovazione istruttoria nelle ipotesi di mutamento del giudice.

Conosciamo tutti la storia di questa norma. Il legislatore dell’88 detta una tutela forte dell’immutabilità del giudice prevedendo l’unica – allora – nullità assoluta speciale; in sede applicativa la disfunzione del mutamento del giudice viene allora contrastata attraverso l’escamotage del regresso processuale con la “rinnovazione” extra ordinem (non è un caso previsto) delle sequenze dibattimentali, istruttoria inclusa.

Ma, apparendo inconcepibile non conservare in qualche misura il lavoro dibattimentale già fatto, si è presto posto il problema del suo recupero, e dei rapporti rispetto alla nuova istruzione, e soprattutto il problema del diritto delle parti a riavere l’immediatezza perduta[20].

La materia diventa teatro di una “guerra interpretativa” ([21]) tra diversi modi di intendere l’oralità dibattimentale; una guerra nel corso delle quale anche la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi numerose volte dal 1994 ad oggi.

Il tema sembrava aver trovato un suo assetto con la sentenza delle Sezioni unite “Iannasso” del 99, che aveva chiarito come il verbale della testimonianza formata davanti al primo giudice non è affetto da alcuna patologia che ne precluda l’utilizzabilità e fa parte legittimamente del fascicolo dibattimentale, ma non è non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti.

Ora, anzitutto la ricostruzione della Inannasso è stato un po’ a me pare “reinterpretata” dalla giurisprudenza successiva, che ha incentrato la questione sulla alternativa tra  “richiesta di nuova assunzione della prova” e “consenso all’utilizzazione, previa lettura del verbale precedente”: come se l’uso in decisione del verbale dell’escussione svoltasi davanti al giudice poi sostituito presupponesse un “consenso” degli interessati (eventualmente implicito nell’omessa richiesta di rinnovazione)[22].

In realtà, non mi pare che qui rilevi giuridicamente un consenso, ma la richiesta di nuova assunzione della prova: nel dibattimento che riprende daccapo ogni parte è chiamata a fare, di nuovo, le proprie richieste di prova e, ove chieda l’esame di un teste già sentito davanti al vecchio giudice, rispetto alla prima escussione vale l’art. 511 comma 2 c.p.p. che consente la lettura di verbali di dichiarazioni «solo dopo l’esame della persona che le ha rese a meno che l’esame non abbia luogo».

Quello che è più importante però, è che la giurisprudenza successiva si è mostrata insofferente rispetto a questa impostazione, per il timore di allungamenti eccessivi dei tempi dibattimentali. Sappiamo della frequenza con cui, specie nelle sedi disagiate, caratterizzate da un elevato tasso di scopertura degli organici, o in genere nei tribunali medio piccoli, accade che il giudice, o uno dei componenti del collegio, muti a dibattimento avviato; sappiamo che non di rado il mutamento avviene non una volta sola nell’arco del giudizio ma più volte (pensiamo, in particolare ai dibattimenti monocratici, porzione così rilevante del nostro contenzioso penale). Alle cause tradizionali di mobilità – infermità, trasferimenti orizzontali (di sezione o tribunale) o verticali (in Corte d’Appello o in Corte di Cassazione), maternità, incarichi direttivi, incarichi fuori ruolo – si è aggiunto il divieto di permanenza ultradecennale nella posizione tabellare, introdotto dalla riforma di ordinamento giudiziario di cui al d.lgs n. 109 del 2006[23].

Si teme che tali allungamenti possano essere poco giustificati, provocati da strategie defatigatorie delle difese, che – disinteressate in realtà alla ripetizione (finanche rinunciando poi a porre domande al teste ricomparso) ritengono di essere finanche deontologicamente tenuti a sfruttare una possibilità consentita dalla legge[24].

Il clima di sfiducia nel meccanismo porta gli stessi giudici a svilirlo, liquidando la rinnovazione del dibattimento in una serie di “confermo” delle dichiarazioni precedenti[25]. Fino alla prassi eversiva del consenso preventivo alla lettura (rectius, la rinuncia anticipata alla ripetizione della prova) richiesto e prestato davanti al giudice che non sia ancora mutato, per l’eventualità – magari già reputata probabile – in cui lo stesso debba lasciare il processo o comunque cambiare nella propria composizione.

Così arriviamo alla sentenza n. 132 della Corte Costituzionale, e alla coeva sentenza delle Sezioni unite Bajrami, i cui contenuti sono arcinoti. La prima ridimensiona il valore concreto dell’immediatezza in un dibattimento ormai mediamente assai lungo e totalmente privo di concentrazione, – con l’inversione logica che molti hanno giustamente criticato – giustificando ragionevoli deroghe legislative[26].

La seconda ridimensiona il principio di immediatezza in via interpretativa, assumendo che il giudice possa rifiutare la rinnovazione reputandola superflua, salvo che la parte indichi nuove circostanze sulle quali esaminare il teste, oppure spieghi una qualche ragione di inattendibilità del teste da cui derivi la necessità di risentirlo nuovamente[27]; e ritiene che, in casi simili, al giudice sia consentito utilizzare comunque i risultati della prima escussione.

Le Sezioni Unite interpretano infatti l’art. 511 comma 2 c.p.p. come se la regola della preferenza dell’escussione orale rispetto alla lettura di dichiarazione già raccolte smetta di valere in qualsiasi ipotesi l’escussione orale non abbia luogo, quale che sia la causa: se non è stata richiesta, se non è stata possibile, ma anche se – richiesta – non sia stata ammessa dal giudice.

  5.1 – La legge Cartabia dedica un criterio di delega al problema della rinnovazione istruttoria nella a lettera d) del comma 11, incaricando il delegato di stabilire che nell’ipotesi di mutamento del giudice, il nuovo disponga, a richiesta di parte, la riassunzione della prova già assunta; e  di stabilire che quando la prova è stata videoregistrata, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni saranno utilizzate, disponga la riassunzione solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze.

Mi pare evidente l’intento di superare, nelle premesse e negli esiti, l’impostazione delle Sezioni unite Bajrami e – a fortiori – la originaria proposta del d.d.l. nato Bonafede che traduceva in norma positiva l’impostazione interpretativa della sentenza delle Sezioni unite, generalizzando il criterio ammissivo speciale previsto dall’art. 190-bis per i procedimenti relativi alla criminalità organizzata.

Il superamento è ravvisabile, prima di tutto, nell’ampiezza del diritto delle parti ad ottenere la rinnovazione della prova quando la prima escussione non sia stata videoregistrata. Sparisce, rispetto alla versione originaria del testo Bonafede il generale condizionamento della rinnovazione a specifiche esigenze che il legislatore aveva stabilito rinviando alla regola dell’art. 190-bis c.p.p. Quando la prova non è stata videoregistrata ma solo verbalizzata in modo tradizionale non occorre palesare alcuna esigenza “speciale”.

Né mi pare possibile alcun vaglio di rilevanza o utilità della rinnovazione, come ipotizzato dalle Sezioni unite.

Questa conclusione mi sembra trovare conforto nella formulazione testuale dell’indicazione normativa, che mi pare si ponga in discontinuità dalle ricostruzione della sentenza Bajrami (il giudice, a richiesta di parte, dispone), ma anche nella stessa articolazione il criterio di delega, che distingue due casi, e li tratta diversamente, a seconda che ci sia stata o no la videoregistrazione del dibattimento: in caso di videoregistrazione della prima escussione, la rinnovazione è consentita solo in presenza di «specifiche esigenze», e nessun particolare bisogno istruttorio dovrebbe condizionare la rinnovazione della prova richiesta quando la prima escussione non è stata videoregistrata. Non dovrebbe essere necessario dunque, per la parte, addurre a sostegno della richiesta che per la corretta valutazione di quella testimonianza sia necessario considerare balbettii o risolini sfuggiti alla verbalizzazione.

5.2. – Si potrebbe ritenere che questa soluzione presenti una seria controindicazione: che cioè essa esponga il processo, nelle frequentissime ipotesi di mutamento del giudice, al rischio di inutili allungamenti, generati da richieste del difensore che spesso, pur senza autentico bisogno istruttorio, sceglie (e si sente anche deontologicamente tenuto a farlo) di richiedere la rinnovazione.

E però va detto, in primo luogo, che i dati empirici consentono di ridimensionare questi timori: emerge un dato interessante da due indagini statistiche commissionate all’Eurispes dall’Unione Camere Penali, prima nel 2008 e poi ancora nel 2019. Ebbene, a fronte della rimarchevole incidenza dei mutamenti di giudice, emerge che la percentuale dei dibattimenti nei quali si procede ad una rinnovazione dell’istruttoria è molto bassa[28]. Questo significa che, in realtà, assai di rado i difensori chiedono la rinnovazione; un po’ per condiscendenza rispetto alle aspettative del giudice, un po’ perché la richiesta motivata di rinnovazione può rappresentare lo show-down di una strategia difensiva, o una mossa comunque tatticamente dannosa.

In secondo luogo, occorre considerare, che – a me sembra – la prova richiesta nel dibattimento rinnovato non configura comunque oggetto di un “diritto potestativo”, diciamo così, del richiedente. Conserviamo l’insegnamento della sentenza Iannasso, che aveva chiarito come le richieste di prova nel dibattimento rinnovato fossero da sottoporre all’ordinario controllo di ammissibilità, ex art 190 c.p.p. Ma un vaglio della prova – si noti – non della sua rinnovazione, come aveva ritenuto la sentenza Bajrami.

Orbene, questo sindacato andrebbe svolto anche alla luce degli atti presenti nel fascicolo processuale, degli esiti dell’istruzione dibattimentale già compiuta, compresi i verbali della prima escussione. Si può dire che si tratti di atti non ancora acquisiti e non ancora utilizzabili per la decisione, perché non letti (se riteniamo che la lettura sia un adempimento acquisitivo necessario anche per i verbali del “primo” dibattimento), ma mi pare che essi possono comunque, per intanto, contribuire a informare il giudice ai fini delle sue decisioni istruttorie, almeno quando queste siano adottate in una fase di integrazione dell’istruzione, quale questa “rinnovazione” del dibattimento in effetti è.

E allora il vaglio di ammissibilità delle nuove richieste potrebbe comunque condurre in qualche caso ad un’ordinanza di rigetto, sebbene si tratti di un’evenienza che dovrebbe essere statisticamente infrequente. In quali casi?  Vediamone qualcuno.

Per quanto sembra una eventualità alquanto remota quella del difensore chiede (ma potrebbe farlo, come detto, solo a fini dilatori) la riacquisizione di un esame il cui esito sia stato – in assoluto – “fallimentare”, in un simile caso alla luce del verbale precedente il giudice potrebbe affermare la manifesta irrilevanza della prova richiesta.

Il vicino di casa della vittima del furto, al quale sono state richieste notizie sullo stato dei luoghi nel momento del reato risulta non essere in grado di dare alcuna informazione utile, visto che nei mesi precedenti e successivi al fatto soggiornava all’estero. In questo caso, il giudice potrà legittimamente negare l’assunzione della testimonianza, risultando ex actis la manifesta irrilevanza della prova. Della prova non della sua rinnovazione.

Salvo che la parte spieghi quali approfondimenti o domande, pur sulle medesime circostanze potrebbero rendere utile una nuova escussione.

Analogamente potrebbe accadere nel caso in cui (non il contenuto della prova “fallita” ma) le conoscenze già acquisite agli atti – inclusi gli esiti della prima istruzione, ma esclusi quelli desumibili dalla testimonianza che si vuole rinnovata – dimostrino la manifesta superfluità della testimonianza stessa. Della prova, non della sua rinnovazione.

Quello che invece il giudice non può fare, se non a prezzo di un marchiano tradimento del principio di immediatezza, è considerare superflua la rinnovazione in ragione della mera presenza agli atti del verbale della prima escussione.

Nei casi in cui però il giudice dichiari inammissibile la prova orale richiesta dalla parte nel dibattimento rinnovato, l’acquisizione tramite lettura del verbale del primo esame non dovrebbe essere consentita. Si tratterebbe di un atto (prima ancora che inutile) vietato dall’art. 511 comma 2 c.p.p.: questa disposizione infatti, quando consente la lettura in luogo dell’esame va riferita alle ipotesi in cui l’esame  non si sia tenuto perché non richiesto o non più possibile; qualora invece l’escussione, pur richiesta, non abbia luogo perché ritenuto dal giudice manifestamente irrilevante o superflua, la previsione normativa in parola preclude la lettura acquisitiva del verbale: il vaglio di pertinenza-rilevanza – valido anche in questa ripresa istruttoria – riguarda infatti non il mezzo di prova ma l’oggetto della prova.

5.3. C’è, per la verità, la possibilità che il legislatore delegato costruisca la disciplina in modo differente, in un senso che la delega non esclude testualmente, ma che ridimensionerebbe di parecchio il valore dell’immediatezza: potrebbe infatti disegnare la disciplina della richiesta di prova già assunta davanti al giudice mutato e non videoregistrata nei medesimi termini in cui è oggi ammesso il nuovo esame di un testimone già escusso, quando la parte ne chieda un nuovo esame ai sensi dell’art. 507 c.p.p. Di quel teste la parte non può limitarsi a richiedere una nuova assunzione, pretendendo sic et simpliciter il contatto diretto tra la fonte e il nuovo giudice, ma deve invocare un bisogno istruttorio sopravvenuto (cioè “nuove circostanze”), o rappresentare l’esigenza di approfondire aspetti della testimonianza già raccolta, che risultano inappaganti alla luce delle informazioni scaturite dal seguito dell’istruzione, oppure ancora spiegare come alcuni elementi, necessari alla valutazione della prova assunta, siano sfuggiti alla verbalizzazione.

In casi del genere, insomma, la richiesta viene considerata in termini analoghi a quelli di una sollecitazione del potere istruttorio integrativo del giudice dibattimentale: il giudice ha uno spazio di discrezionalità assai ampio, anche in conseguenza delle maggiori conoscenze; non vige la “presunzione di ammissibilità” che assiste le richieste istruttorie formulate in limine litis.

Immaginiamo che la disciplina venga costruita così: finché si tratti di invocare un’esigenza istruttoria scaturita dalle conoscenze maturate dopo l’escussione, la parte potrebbe dimostrare abbastanza facilmente l’utilità della riaudizione; fuori però da questo caso, mi pare esoso pretendere dalla parte che spieghi in che modo e perchè un nuovo esame sulle medesime circostanze davanti al nuovo giudice può dare informazioni diverse o ulteriori rispetto a quelle desumibili dalla prima escussione[29].

5.4. – La seconda fattispecie concreta contemplata dalla delega – nella versione risultante dall’elaborazione della Commissione Lattanzi – è rappresentata dal caso in cui nel dibattimento celebrato davanti al giudice originario le escussioni orali siano state videoregistrate (come la stessa legge delega vuole accada sempre, ove possibile,  da oggi in poi)  nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni saranno utilizzate: in questo caso il giudice disporrà la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Dovrebbe diventare l’ipotesi normale nel processo post-riforma, ma questo dipende da quanto troverà concreta applicazione la riserva della indisponibilità delle attrezzature (sappiamo tutti come viene applicata – anzi disapplicata – la disposizione che prevede l’esecuzione delle intercettazioni con gli impianti della Procura).

É evidente che nel regime immaginato dal legislatore delegante i valori sottostanti all’immediatezza vengono salvaguardati – in una misura ritenuta appagante – dalla videoregistrazione, cogliendo un suggerimento della Corte Costituzionale.

Sullo sfondo, la considerazione che – rispetto allo svilimento della resa informativa dell’esame orale che deriva dalla sua ripetizione – la videoripresa conserva prosodia e prossemica della testimonianza.

É scritto nella Relazione della Commissione «laddove non ve ne sia traccia nel verbale di udienza, il giudice difficilmente potrebbe valorizzare in sentenza i tratti non verbali della comunicazione: con la videoregistrazione della dichiarazione assunta si avrebbe, invece, una documentazione affidabile anche di quei tratti prosodici del discorso, di guisa che il giudice potrebbe essere messo nelle condizioni di apprezzare la prova della testimonianza nel suo complesso».

Questa ipotesi è costruita in modo del tutto diverso rispetto alla precedente, anche quanto a rapporto tra parti e giudice: la riassunzione della prova finisce per essere oggetto di un potere istruttorio del giudice, ancorché sollecitabile dalle parti, e l’eventuale richiesta di parte è assoggettata – qui sì – ad un criterio ammissivo “speciale” e stringente.

Quello che – anche nel caso della videoregistrazione – la mancata rinnovazione può far perdere è la interazione tra giudice, parti e fonte di prova: rispetto a questo rischio, il legislatore deve aver considerato – ancora sulla scorta dei rilievi della Corte Costituzionale – un valido correttivo la possibilità che il giudice al quale la prova videoregistrata suggerisca approfondimenti e integrazioni può sempre integrarla, disponendo d’ufficio la riaudizione del dichiarante.

Si può dire che la polarizzazione sul giudicante della scelta di rinnovare o meno tradisca un’idea chiovendiana dell’immediatezza come un valore che serve al giudice, per la formazione del proprio convincimento, per la corretta valutazione della prova, e non – anche e ancor prima – una tecnica di formazione della prova, che favorisce il buon funzionamento del circuito informativo il giudice, le parti e la fonte istruttoria[30].

E tuttavia mi pare una soluzione, tutto sommato, equilibrata.

5.5.  Mi sembra che sia ravvisabile però un’altra ipotesi, oltre a quella della videoregistrazione del dibattimento, in cui la parte risulta onerata della dimostrazione di una necessità specifica di riedizione della prova: un’altra ipotesi di diritto “condizionato” alla rinnovazione potrebbe riguardare tutti i procedimenti per delitti catalogati al 51-bis c.p.p. e per gli altri delitti per i quali ai sensi dell’art. 190-bis c.p.p. l’esame orale è consentito – anche non vi sia alcuna videoregistrazione dell’escussione precedente – solo su «fatti o circostanze» diversi, o quando il giudice o taluna delle parti ravvisino (anche qui) «specifiche esigenze»:

Qui sono astrattamente possibili due interpretazioni: a) si può ritenere che l’art. 190-bis costituisca la legge speciale dei procedimenti di criminalità organizzata in ordine alla ripetizione delle escussioni orali quando agli atti è presente il verbale di un altro esame della stessa fonte  sulle stesse circostanze, che in quanto tale prevarrebbe su ogni altra regolamentazione;  oppure b) si può ritenere che, una volta che il codice disciplini espressamente la rinnovazione dibattimentale necessitata dal mutamento del giudice – fissando il principio per cui in questi casi la rinnovazione sia indefettibile tutte le volte in cui il precedente esame non sia stato videoregistrato – questa disciplina debba trovare applicazione quale anche in quei procedimenti nei quali il “diritto alla prova”, in generale, soffra di particolari limitazioni assenti nei procedimenti comuni.

Potremo dire che più è grave l’imputazione, maggiore è l’esigenza di rispettare gli standard di garanzia dell’accuratezza dell’accertamento, ma a favore della prima ipotesi milita decisamente il fatto che sarebbe strano nei procedimenti per reati di “doppio binario”, un regime in cui le parti che abbiano interesse all’acquisizione di una prova testimoniale possano doversi accontentare del verbale di una prova formata aliunde e invece, in caso di mutamento del giudice, mantengano il diritto incondizionato alla ripetizione pur avendo già escusso nel medesimo dibattimento la fonte.

Qui probabilmente – potrebbe trattarsi di una delle “ragionevoli deroghe” della quali parla la Corte costituzionale – il legislatore delegato ha un certo margine d’azione, potendo optare per una delle due una delle soluzioni, anziché lasciare la scelta agli interpreti: imporrebbe il regime meno sensibile al valore dell’immediatezza se usasse una clausola di riserva del tipo «salva l’applicazione dell’art. 190-bis». Non lascerei però alla giurisprudenza lo scioglimento della questione

5.6. Nella ipotesi, destinata a diventare regola, di videoregistrazioni delle escussioni orali – di “teleimmediatezza” – resta il problema di come consentire il contraddittorio sulla prova videoregistrata. Anche qui il legislatore delegato ha ampi margini di intervento.

In un regime che punti al massimo dell’economia, la videoregistrazione potrebbe essere consultabile dal giudice quando voglia, anche in camera di consiglio, alla pari di qualsiasi documentazione processuale, e però una discussione delle parti su una prova che il giudice non ha ancora visto sarebbe un contraddittorio degenere.

Potrebbe ritenersi applicabile il regime delle letture degli atti appartenenti al fascicolo per il dibattimento ex art. 511 c.p.p. La visione del video in aula non è “lettura”, ma il motivo per cui le parti chiedono che di un atto già presente nel fascicolo sia letto in udienza è assolutamente sovrapponibile al motivo per cui una parte può essere interessata a che in udienza venga trasmessa la videoriproduzione della testimonianza: per chiosare l’esame o più facilmente per sottolineare alcuni passaggi.

La parte può chiedere la visione della videoregistrazione o di un passaggio allo stesso modo in cui può chiedere la lettura, in tutto o in parte, dei protocolli appartenenti al fascicolo processuale: peraltro, quando si tratti di atti dichiarativi il giudice, stando all’art. 511 comma 5, non potrebbe mai “dare per letto”.

Il legislatore potrebbe invece creare un regime ad hoc, prevedendo che la parte selezioni le parti da visionare in aula, come si fa nell’udienza di stralcio delle intercettazioni ed il giudice sia tenuto a dar corso alla richiesta.

Certo, ove una disciplina del genere non fosse prevista o non risultasse ricavabile dal codice, alla parte sarebbe impossibile pretendere la visione in aula della videoregistrazione.

Potrebbe, al più, assicurarsi che, almeno in camera di consiglio, il giudice visioni la registrazione e non si accontenti del verbale cartaceo: dovrebbe segnalare comunque al giudice i passaggi dell’esame che presentano particolari problematicità: a quel punto sul giudice incomberebbe il dovere di dar conto della criticità segnalata, nella motivazione della sentenza, e per fare questo dovrebbe giocoforza visionare la registrazione, almeno nei passaggi indicati dalla parte.

5.7. La verità è che né la rinnovazione né la videoregistrazione sono sempre capaci di rimediare al danno provocato al processo dal mutamento del giudice, che è in una certa misura irrimediabile. Per questo, ci sembra che un obiettivo importante tanto quello di disciplinare l’impatto del mutamento del giudice sulla durata dei dibattimenti, regolando il rimedio successivo della rinnovazione della prova, quanto quello di apprestare ogni misura utile a prevenire il mutamento del giudice[31].

Possiamo sperare il problema sia alleviato dall’abbreviazione dei tempi medi dei dibattimenti? A questo effetto punta il calendario delle udienze che, come detto, se non riduce direttamente la durata del dibattimento la rende prevedibile, e – per esempio – consentirebbe di programmare la chiusura del dibattimento prima che il giudice venga trasferito o cambi funzioni.

Certo, l’abbreviazione dei tempi medi forse può rendere meno frequente che nelle more del giudizio si verifichi un mutamento del giudice, e tuttavia anche questo non basterebbe, perché il mutamento resta sempre possibile in un numero virtualmente illimitato di casi.

Occorre allora ridurre l’incidenza – la patologica incidenza – delle successioni tra giudici a giudizio iniziato. In relazione a certe evenienze è impossibile (malattia, morte, pensionamento), per altre esistono rimedi.

Uno, ancorchè parziale, può consistere nel potenziamento, almeno per i procedimenti più complessi, dell’istituto dei giudici aggiunti, presenti oggi nelle Corti d’Assise, tenuti a seguire a loro volta l’intero dibattimento, possano sostituire i membri “titolari” del collegio, in caso di impedimento che sorga a dibattimento iniziato[32] Un altro possibile rimedio è nella “applicazione”: oggi esiste la possibilità – nell’ambito dell’applicazione dei magistrati per esigenze di servizio «imprescindibili e prevalenti» (art. 110 ord. giudiz.) – di una applicazione ad processum, che punta proprio a ridurre il più possibile le successioni tra giudici in corso di dibattimento, ma essa è consentita dalla legge entro limiti alquanto ristretti. Essa è normativamente prevista senza alcuna causale particolare, solo per i procedimenti di criminalità organizzata e assimilati, e solo per un periodo limitato[33], mentre fuori dai procedimenti di doppio binario è consentita solo se il mutamento deriverebbe dalla scadenza del termine decennale di permanenza tabellare. L’applicazione è poi anche scarsamente applicata dai presidenti dei tribunali (per le mobilità all’interno del distretto) e dal Consiglio superiore della magistratura (per la mobilità extra districtum).

È poco rispettato anche il divieto di assegnare procedimenti «prevedibilmente lunghi» negli ultimi due anni del decennio di permanenza nella funzione previsto dal già citato d.lgs 160/2006: è un peccato, perché questa misura organizzativa rappresenta un valido correttivo ai contraccolpi processuali del mutamento decennale[34]. Essa andrebbe invece non solo applicata attentamente, ma anche largamente implementata, ed estesa a tutti i casi in cui (al di là del turn-over decennale) sia prevedibile un mutamento di funzioni per qualsiasi causa.

Così pure, con maggior cura nella gestione del personale giudiziario, andrebbero evitate le lungaggini nelle sostituzioni dei giudici e le situazioni di prolungata precarietà dei collegi.

Non sarebbe precluso al legislatore che si accinge ad attuare la delega potenziare l’istituto dell’applicazione ad processum, visto che all’art. 1 comma 3 della legge si prevede che il governo possa adottare decreti legislativi attuativi delle disposizioni introdotte in esecuzione della delega, anche intervenendo su «disposizioni contenute in leggi speciali non direttamente investite dai principi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi».

Peraltro, se a trasferimenti, promozioni e cambi di funzione seguissero più spesso (e comunque tutte le volte in cui siano possibili) provvedimenti di applicazione diretti ad evitare mutamenti di giudice in corso di dibattimento, questo – io credo – costituirebbe per i magistrati un potente incentivo ad applicare con la massima diligenza la (nuova) regola della calendarizzazione dei dibattimenti, così da poter programmare il processo anche in relazione a questo tipo di vicende.

*Professore associato di procedura penale Sapienza Università di Roma

[1] Peraltro, ogni difensore, col calendario alla mano, dovrebbe poter programmare meglio, a sua volta, il proprio coinvolgimento nei diversi dibattimenti nei quali sia impegnato in un certo periodo, propiziandosi in tal modo una minor incidenza complessiva dei legittimi impedimenti dei difensori.

[2] Cfr. Cass., Sez. II  26 settembre 2007, n. 39784, in CED Cass., n. 238436: «il rinvio di udienza va modulato in relazione alle singole evenienze processuali ed alle esigenze di ruolo, e la determinazione della sua durata attiene al potere ordinatorio del giudice di merito, che si sottrae al sindacato della Cassazione, a nulla potendo rilevare la durata più o meno breve dei rinvii di udienza precedenti o successivi, poiché sarebbe incongruo pretendere una cadenza fissa delle varie udienze (in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto non ravvisabile alcun eccesso in un rinvio a sessanta giorni, con sospensione dei termini massimi di custodia cautelare, disposto a seguito di adesione del difensore dell’imputato ad astensione collettiva forense dalle udienze)»

[3] «Dibattimenti che si trascinano stancamente per mesi e anche per anni, con le prove che si assumono in udienze intervallate  da settimane o anche da mesi, con giudici che naturalmente negli intervalli hanno altro da fare, altri processi da seguire, altre decisioni da prendere; con la discussione che non sempre avviene nell’udienza in cui è esaurita l’assunzione delle prove e che a sua volta può essere frazionata in udienze distanziate nel tempo» (Lattanzi, Passato presente e futuro dell’oralità dibattimentale, in Cassazione Penale, 2022, p. XXX).

[4] L’art. 81-bis disp att c.p.c. è stato inserito dall’art. 52, comma 2 della l. 18 giugno 2009, n. 69, ed è stato poi ritoccato dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148.

[5] Il d.d.l. Mastella («Disposizioni per la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile», A.S. n. 1524, 24 aprile 2007) dal quale la legge del 2009 mutua l’innovazione, si richiamava espressamente alla riforma processuale francese di cui al decret 28 dicembre 2005 n. 2005-1678 (cd. décret procédure): in argomento, cfr. Torquato, Di alcuni cliches in tema di calendrier du proces e calendario del processo. Qualche puntualizzazione in merito al nuovo art. 81-bis disp. att. c.p.c., in Giusto processo. civ., f. 4, 2010, p. 1233 ss.

[6] Il calendario riguarda lo scambio di difese tra le parti, la discussione, la decisione e il deposito della sentenza  e tra le sue finalità c’è anche quella di propiziare le definizioni della lite alternative alla decisione, rendendo più agevole alle parti valutare se la definizione giudiziaria risponde realmente ai loro interessi (cfr. De Cristofaro, Case management e riforma del processo civile, tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, ivi, 2010, p. 282 ss.).

[7] Torquato, Di alcuni cliches, cit., p. 1233 ss

[8] Cfr. Picozza, Il calendario del processo, in Riv. dir. process., 2009, p. 1651 ss. Il calendrier, invece, non riguarda le udienze dedicate alla formazione delle prove, visto che per queste, data la regolamentazione del rito civile francese la programmazione ex ante sarebbe superflua (lo spiega Torquato, Di alcuni cliches, cit., p. 1233)

[9] L’art. 81-bis disp. att. cp.p.p. usa l’indicativo presente («il giudice […] fissa»); la “natura”, l’“urgenza” e la “complessità” della causa sono criteri rilevanti solo nelle modalità della calendarizzazione (che può avvenire, ad esempio, per fasce mensili anziché per udienza, oppure può limitarsi, oltre alla data del rinvio per l’udienza successiva, all’indicazione di soglie temporali entro le quali saranno fissate le udienze per i diversi incombenti).

[10] Queste perplessità hanno condotto a formulare una questione di costituzionalità, anche se il giudice delle leggi non ha ravvisato, nella configurazione dell’istituto, aspetti di manifesta irragionevolezza rilevanti ex art. 3 Cost. (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 216, in Giur cost. 2013, p. 2587, con nota di Guglielmino, Brevi osservazioni sulla costituzionalità` dell’obbligo di fissazione del calendario del processo)

[11] Del resto, se è vero che lo strumento previsto dall’art. 81-bis citato è espressione del potere direttivo riconosciuto dall’art. 175 c.p.c. che assegna al giudice istruttore il compito di assicurare il «più sollecito e leale svolgimento del procedimento» (come riconosciuto la Corte cost. della citata sent. 216/2013) va notato come una calendarizzazione obbligatoria potrebbe nuocere, anziché giovare, al buon governo dei tempi; non a caso, il legislatore non ha mai modificato il disposto dell’art. 81 disp. att. c.p.c. il quale, tuttora, prevede che «le udienze di istruzione per ogni causa sono fissate di volta in volta dal giudice istruttore». Che il citato art. 81-bis possa, in effetti,  essere letto in questa chiave mi pare trovi una conferma nel disposto del secondo comma, interpolato nel 2011, a mente del quale «il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario di cui al comma precedente da parte del giudice, del difensore o del consulente tecnico d’ufficio può costituire violazione disciplinare, e può essere considerato ai fini della valutazione di professionalità e della nomina o conferma agli uffici direttivi e semidirettivi». A parte la vaghezza, non raccomandabile in una previsione sanzionatoria, e il possibile effetto paradossale di condurre a previsioni temporali più lunghe del necessario per motivi “precauzionali” (cioè per evitare di incorrere troppo facilmente in responsabilità) questa previsione logicamente tiene solo a patto di considerare discrezionale la fissazione del calendario, poiché altrimenti sarebbe irrazionale che dalla tutela sanzionatoria riservata alla violazione delle scansione programmate fosse risparmiata proprio la più grave violazione consistente nella omessa fissazione del calendario (cfr. in senso opposto, Guglielmino,  Brevi osservazioni, cit.,  p. 2588)

[12] Cfr. Coviello-Ichino-Persico, Giudici in affanno, 2009, in www2.dse.unibo.it.: «a parità di casi sopravvenuti, la durata totale media dei processi (dall’iscrizione alla conclusione con sentenza, conciliazione o altra forma) `e inferiore per i magistrati che lavorano su pochi casi contemporaneamente, cercando di chiuderli rapidamente prima di aprirne di nuovi tra quelli in coda nel loro ruolo. Ossia, è minore per i magistrati che lavorano ispirandosi al suggerimento implicito nel detto latino “Age quod agis”».

[13] In questo modo l’attività illustrativa rivolta al giudice in apertura del dibattimento veniva assimilata a quella che la stessa pubblica accusa è chiamata a fare davanti al giudice dell’udienza preliminare, al quale l’art. 421 impone al p.m. di fornire al giudice in maniera sintetica «i risultati delle indagini preliminari e gli elementi di prova che giustificano la richiesta di rinvio a giudizio». 421 comma 2 c.p.p. Anche in questo caso ad esordire nella discussione è il p.m. Qui, però, l’attività narrativo-introduttiva del p.m. risponde ad una specifica finalità, sconosciuta all’esposizione ex art. 493 c.p.p.

[14] Dominioni, La prova penale scientifica, Giuffrè, 2005. p. 259 ss.

[15] Sul rapporto tra esame e relazione scritta e sul ruolo probatorio di quest’ultima cfr. Bazzani, Consulenza tecnica scritta e limiti alla sua utilizzazione nel dibattimento, in Foro it., 2003, II, c. 306 ss., che sottolinea la differenza tra relazioni scritte e note (anche scritte da altri) e documentazioni che l’esperto può liberamente consultare durante l’esame.

[16] Questo tipo di preparazione all’assunzione della prova scientifica giustifica addirittura l’allegazione al fascicolo dibattimentale, concordata tra le parti, della relazione del consulente che ha operato durante le indagini, senza che ciò implichi alcuna rinuncia alla richiesta di prova tecnico-scientifica in dibattimento, ma come informazione preliminare del giudice rispetto alle questioni tecnico scientifiche da sciogliere (in argomento, cfr. Bronzo, Il fascicolo per il dibattimento, Cedam, 2017, p. 101)

[17] G. Illuminati, Ammissione e acquisizione della prova nell’istruzione dibattimentale, in Aa. Vv., La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, 2010, p. 144 ss.

[18] Sez. un., 28 gennaio 2019, n. 14426, Pavan, in Cassazione Penale, 2019, p. 3877, con nota di Galluccio Mezio, Riflessioni a margine delle sezioni unite nel caso Pavan: la rinnovazione della “prova tecnica” in appello tra luci e ombre), secondo cui, ove nel giudizio di primo grado della relazione peritale sia stata lettura senza esame del perito, il giudice di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, condanni l’imputato assolto in primo grado, non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione attraverso l’esame dell’esperto.

[19] Sez. III, 10 maggio 2016, n. 35497, in C.E.D. Cass., n. 26763

[20] Cfr. Renon, Mutamento del giudice penale e rinnovazioen del dibattimento, Giappichelli, 2008.

[21] Così la definiva Renzo Orlandi proprio nel Convegno dell’Associazione del 2020 (Orlandi, Immediatezza ed efficienza nel processo penale, Riv. dir. proc., 2021, 3, p. 807.

[22] Ex plurimis Sez. V,  23 maggio 2016, n. 36813, Renzulli, in C.E.D. Cass., n. 267911 («non sussiste la nullità della sentenza qualora le prove siano valutate da un collegio in composizione diversa da quello davanti al quale le stesse siano state acquisite e le parti presenti non si siano opposte, né abbiano esplicitamente richiesto di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in quanto, in tal caso, si deve intendere che esse abbiano prestato consenso, sia pure implicitamente, alla lettura degli atti suddetti»). Questa ricostruzione della disciplina è anche in Sez un 30 maggio 2019, n.41736, Bajrami, in Cassazioen Penale, 2020, p. 1061 con nota di Galluccio mezio, Sezioni unite e ideale accusatorio: una relazione in crisi, e di Caligaris, Quando l’immediatezza soccombe all’efficienza: un discutibile (ma annunciato) sviluppo giurisprudenziale in tema di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, sia nei quesiti («se, ai fini di ritenere la sussistenza del consenso delle parti alla lettura degli atti assunti dal collegio che sia poi mutato nella sua composizione, sia sufficiente la mancata opposizione delle stesse, ovvero sia invece necessario verificare la presenza di ulteriori circostanze che la rendano univoca») sia nella risposta fornita («il consenso delle parti alla lettura […] non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile»).

[23] L’art. 19 d.lgs 5 aprile 2006, n. 160 prevede che i magistrati giudicanti non possano permanere in servizio presso lo stesso ufficio svolgendo le medesime funzioni o, comunque, nella stessa posizione tabellare per un periodo maggiore di dieci anni (cfr. Aghina, Gli effetti del mutamento dell’organo giudicante tra rigidità processuali e carenze organizzative, in Proc. pen. e giust., 2012, p. 92 ss.).

[24] L’art. 36 del Codice deontologico forense impone all’avvocato di difendere gli interessi dell’assistito «nel migliore modo possibile». Non sarebbe censurabile di abuso dell’istituto processuale il difensore che richieda la rinnovazione della prova senza una particolare utilità – se questa non costituisca un presupposto normativo della richiesta – a fini meramente dilatori «giacché il difensore può far ricorso ad ogni strumento legalmente previsto per assicurare un vantaggio al proprio assistito» (Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, Il Mulino, 2020, p. 78).

[25] Ex plurimis, Sez. V, 26 marzo 2009, n. 21710, in C.E.D. Cass., n. 243894.

[26] Su Corte Cost. n. 132 del 2019 cfr. i commenti di Ferrua Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte Costituzionale al legislatore, MAZZA, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, Negri, La Corte costituzionale mira a squilibrare il “giusto processo” sulla giostra dei bilanciamenti, Zilletti, La linea del Piave e il duca di Mantova, in Arch. pen. web, 2, 2019.

[27] Ricostruzione non necessaria ai fini della soluzione del dubbio sottoposto alle Sezioni unite: in un caso in cui l’intera istruzione si era svolta dinanzi al medesimo collegio giudicante che aveva pronunciato la decisione di primo grado e il collegio al quale quest’ultimo era subentrato si era limitato ad ammettere le prove, il quesito riguardava (non le modalità di riassunzione delle prove dichiarative, ma) la conservazione degli effetti dell’ordinanza ammissiva, ossia la necessità della rinnovazione delle richieste di prova e l’adozione della relativa ordinanza.

[28] Secondo questa indagine si aggirerebbe addirittura tra l’1% rilevato nel 2008 e il 2 % rilevato nel 2019.

[29] «È difficile che dal verbale della precedente deposizione emergano specifici segnali dell’esigenza di riascoltare le domande e le risposte attraverso la viva voce degli interessati, e ciò proprio perché la scrittura e l’oralità sono due mezzi espressivi che viaggiano su binari diversi. La prima decontestualizza il linguaggio, recidendo ogni contatto diretto con l’autore delle dichiarazioni, ed azzerando qualunque apporto cognitivo che non sia il significato delle espressioni utilizzate» (Daniele, Le “ragionevoli deroghe” all’oralità in caso di mutamento del collegio giudicante: l’arduo compito assegnato dalla Corte Costituzionale al legislatore, in Giur. cost., 2019, p. 1551)

[30] Cfr. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Giuffrè, 1997, p.  152 secondo il quale l’oralità-immediatezza «serve a formare la prova, non il convincimento del giudice. Tale tecnica, cioè serve ad estrarre dalla fonte di prova tutte le informazioni rilevanti che la fonte cela in sé. Ma una volta che questi dati siano stati acquisiti come materia di giudizio, finisce il complito dell’oralità: subentra l’elaborazione razionale del giudice».

[31] Qual è, del resto, l’oggetto della tutela apprestata dalla sanzione di nullità dell’art. 525 c.p.p.?  Non certo la rinnovazione del dibattimento in caso di mutamento del giudice (non è l’omessa rinnovazione la condotta vietata; anzi manca una norma che per casi del genere preveda una reiterazione del dibattimento), ma piuttosto la immutabilità del giudice dibattimentale: «il codice con la disposizione in esame non si limita a richiedere che in caso di mutamento del giudice si proceda alla rinnovazione del dibattimento. Ci pare che il legislatore voglia qualcosa di più, e cioè miri ad impedire ex ante che tale mutamento vi sia […] Probabilmente i redattori del codice hanno tenuto presente un dato di elementare evidenza. La prova è un atto peculiare che non si può rinnovare con la certezza di ottenere i medesimi risultati» (Conti C., Mutamento del giudice e rinnovazione del dibattimento: variazioni in tema di diritto alla prova, in Dir. pen e proc. 200., p. 747).

[32] Cfr. M.L. Di Bitonto- P.P. De Albuquerque, In difesa del dibattimento penale, in Dir. pen. proc., 2020, p. 1127.

[33] Ai sensi dell’art. 110 comma 1 ord. giudiz. «Possono essere applicati, ai tribunali ordinari, ai tribunali per i minorenni e di sorveglianza, alle corti di appello, indipendentemente dalla integrale copertura del relativo organico, quando le esigenze di servizio in tali uffici sono imprescindibili e prevalenti, uno o più magistrati in servizio presso gli organi giudicanti del medesimo o di altro distretto». La durata massima è un anno, ma al successivo comma 5 si prevede tuttavia che «nei casi di necessità dell’ufficio al quale il magistrato è applicato può essere rinnovata per un periodo non superiore ad un anno. In ogni caso una ulteriore applicazione non può essere disposta se non siano decorsi due anni dalla fine del periodo precedente. In casi di eccezionale rilevanza da valutarsi da parte del Consiglio superiore della magistratura, la applicazione può essere disposta, limitatamente ai soli procedimenti di cui all’ultima parte del comma 7, per un ulteriore periodo massimo di un anno». Inoltre, «alla scadenza del periodo di applicazione al di fuori del distretto di appartenenza, il magistrato che abbia in corso la celebrazione di uno o più dibattimenti, relativi ai procedimenti per uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, […] è prorogato nell’esercizio delle funzioni limitatamente a tali procedimenti». E il comma 7 precisa che se le esigenze di servizio sono determinate dalla pendenza di un procedimento che si prevede particolarmente lungo, il magistrato applicato non può svolgere attività in tali procedimenti, «salvo che si tratti di procedimenti per uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis».

[34] Aghina, Gli effetti del mutamento, cit. p. 98.