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LA TUTELA CAUTELARE NEI REATI A MATRICE PERSECUTORIA: IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA IL RISPETTO DELLA SOCIALITÀ DELLA PERSONA OFFESA E L’ESIGENZA DI DETERMINATEZZA DEL PROVVEDIMENTO IMPOSITIVO – DI GIANLUCA FILICE

LA TUTELA CAUTELARE NEI REATI A MATRICE PERSECUTORIA: IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA IL RISPETTO DELLA SOCIALITÀ DELLA PERSONA OFFESA E L’ESIGENZA DI DETERMINATEZZA DEL PROVVEDIMENTO IMPOSITIVO – DI GIANLUCA FILICE

FILICE – LA TUTELA CAUTELARE NEI REATI A MATRICE PERSECUTORIA- IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA IL RISPETTO DELLA SOCIALITÀ DELLA PERSONA OFFESA E L’ESIGENZA DI DETERMINATEZZA DEL PROVVEDIMENTO IMPOSITIVO.PDF

LA TUTELA CAUTELARE NEI REATI A MATRICE PERSECUTORIA: IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA IL RISPETTO DELLA SOCIALITÀ DELLA PERSONA OFFESA E L’ESIGENZA DI DETERMINATEZZA DEL PROVVEDIMENTO IMPOSITIVO.

PRECAUTIONARY PROTECTION IN PERSECUTORY CRIMES: THE DIFFICULT BALANCE BETWEEN RESPECT FOR THE SOCIALITY OF THE INJURED PERSON AND THE NEED FOR THE DETERMINATION OF THE TAX MEASURE.

Nota a Cassazione Penale, Sezioni Unite, Sentenza n. 39005/21 del 29.04.2021 (dep. 28.10.2021)

di Gianluca Filice*

Le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, hanno risolto il conflitto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità in relazione all’esatta portata della previsione normativa di cui al comma 1 dell’art. 282 ter c.p.p., relativo alla misura cautelare personale che dispone, nei confronti dell’indagato/imputato, il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, abitualmente frequentati dalla persona offesa dal reato, o di mantenere una certa distanza dai suddetti luoghi o dalla persona offesa, anche mediante l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275 bis c.p.p. Al riguardo, il Supremo Consiglio ha precisato che «il giudice che ritenga adeguata e proporzionata l’unica misura cautelare dell’obbligo di mantenere una certa distanza dalla parte lesa (art. 282 ter comma 1 c.p.p.) può indicare semplicemente tale distanza. Nel caso in cui, al contrario, nel rispetto dei suddetti principi, disponga, anche cumulativamente, i provvedimenti del divieto di avvicinarsi ai luoghi che abitualmente frequentava e/o di mantenere la distanza dagli stessi, deve indicarli espressamente”.

The Joint Sections, with the sentence in question, resolved the interpretative conflict that arose in the jurisprudence of legitimacy in relation to the exact scope of the regulatory provision referred to in paragraph 1 of art. 282 ter c.p.p., pertaining to the personal precautionary measure which orders, against the accused / suspected person, the prohibition of approaching specific places, usually frequented by the injured person, or to maintain a certain distance from the aforementioned places or from the injured person, even if the application of the particular control methods provided for by art. 275-bis c.p.p. In this regard, the Supreme Council stated that “the judge who deems the sole precautionary measure of the obligation to maintain a certain distance from the injured party to be adequate and proportionate (Article 282-ter, paragraph 1, code of criminal procedure) may simply indicate this distance. In the event that, on the contrary, in compliance with the aforementioned principles, it orders, even cumulatively, the measures of the prohibition of approaching the places it habitually frequented and / or maintaining the distance from them, it must specifically indicate them”.

Sommario. 1. Inquadramento della questione di diritto. – 1.2 Il fatto storico. – 2. Il contrasto giurisprudenziale all’origine della ordinanza di rimessione. – 3. Le due tesi contrapposte al vaglio delle Sezioni Unite. – 3.1 Le decisioni che valorizzano il riferimento del divieto a luoghi determinati. – 3.2 Le condotte espressive della ricerca di un morboso e assiduo contatto con la persona offesa. – 4. La disamina degli istituti giuridici coinvolti: la disciplina interna. – 5. La corrispondenza tra la normativa sovranazionale (Direttiva n. 2011 del 13.12.2011) e la disciplina interna in materia di protezione delle vittime di reati violenti. – 6. La compatibilità tra la misura cautelare di cui all’art. 282 ter c.p.p. con il diritto alla libertà di movimento del soggetto attivo. – 7. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

1. Inquadramento della questione di diritto.

La questione di diritto sottoposta allo scrutinio delle Sezioni Unite della Suprema Corte afferisce alla disciplina delle misure cautelari personali; più in particolare, concerne l’interpretazione della lettera della norma di cui all’art. 282 ter c.p.p., rubricata “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”.

Per ciò che qui interessa, il comma 1 dell’art. 282 ter c.p.p. recita «con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento, il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275 bis».

Ebbene, la Sezione Sesta, chiamata a confrontarsi con la tesi sostenuta dal ricorrente avverso il provvedimento di conferma della misura cautelare di cui trattasi, preso atto di un perdurante e risalente contrasto giurisprudenziale, ritenendo che la lettera della legge non offra indicazioni dirimenti circa la correttezza e l’adeguatezza dell’una o dell’altra tesi, ha posto con ordinanza n. 8077/2021 alle Sezioni Unite il seguente quesito di diritto «Se, nel disporre la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa ex art. 282 ter c.p.p., il giudice deve necessariamente determinare specificamente i luoghi oggetto di divieto».

1.2 Il fatto storico.

L’intervento esegetico della Corte, riunita nel suo massimo consesso, è stato invocato dalla Sezione rimettente adita dal ricorrente avverso il provvedimento cautelare di merito emesso dal Tribunale di Palermo in funzione di Giudice del riesame.

Il Giudice per le indagini preliminari, difatti, disponeva nei confronti del soggetto indagato per il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. nei confronti della madre, la misura coercitiva di cui all’art. 282 ter c.p.p. con le prescrizioni di mantenere la distanza di almeno 300 metri dall’abitazione della stessa e dalla stessa persona offesa ovunque si trovi, oltre al divieto di comunicazione con la medesima.

Il Tribunale, confermata l’ordinanza applicativa della misura, rilevava innanzitutto la sussistenza di gravi indizi di abituali condotte vessatorie nei confronti della madre, con reiterate aggressioni verbali e fisiche, tali da mortificare la persona offesa e, poi, un serio rischio di prosecuzione di tali maltrattamenti, considerati i recentissimi accadimenti e l’indole violenta dell’indagato, stimando adeguata la misura disposta alla tutela della vittima in quanto impeditiva del contatto diretto tra le parti, valutando avverso le specifiche e contrarie deduzioni della difesa che, a mente dell’art. 282 ter c.p.p., non vi era necessità di specificazione dei luoghi di operatività del divieto poiché, in situazioni come quella in oggetto, caratterizzate dalla persistente ricerca di avvicinamento della vittima, il contatto ben può avvenire anche al di fuori dei luoghi che potrebbero essere preventivamente individuati.

2. Il contrasto giurisprudenziale all’origine della ordinanza di rimessione.

Il principio di diritto espresso nelle ordinanze cautelari di merito, secondo il quale “se il provvedimento coercitivo si limita a disporre il divieto personale e non anche quello dei luoghi, non è necessario circoscrivere il perimetro di operatività del divieto, il quale segue dinamicamente tutti i movimenti della persona offesa”, risulta affermato in una nutrita serie di pronunce, in grandissima parte emesse dalla Quinta Sezione a partire dal 2012, per lo più in materia di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), rispetto alle quali la specificazione dei luoghi appare sufficiente solo allorquando la condotta potenzialmente invasiva trovi esclusivo ancoraggio ai luoghi frequentati dalla persona offesa e non esuli da essi.

L’imposizione di un obbligo potenzialmente assai ampio, ai limiti della indeterminatezza, trova le sue ragioni nel mutato panorama legislativo; l’introduzione della nuova figura di reato di “atti persecutori” (d.l. n. 11/2009, conv. L. n. 38 del 23.04.2009) ha imposto anche la rivisitazione della disciplina delle misure cautelari al fine di meglio calibrare la protezione dei diritti esistenziali delle vittime che si trovano esposte in contesti anche diversi da quello squisitamente domestico. Tale opzione ermeneutica, riprodotta in estrema sintesi dai Giudici rimettenti, da una parte avrebbe il merito di evitare la compromissione della socialità della persona offesa la quale, in caso contrario, sarebbe costretta a non allontanarsi mai dai luoghi protetti individuati dalla ordinanza cautelare e, dall’altro, è suffragata dalla direttiva n. 2011 del 13.12.2011 emanata da Parlamento e Consiglio U.E. la quale, all’art. 5 lett. c), richiede unicamente che, nell’ottica di un corretto contemperamento delle esigenze delle parti coinvolte, il provvedimento impositivo contempli e definisca il perimetro entro il quale opera la protezione.

Viene precisato, infine, che l’ordine di protezione europeo è stato recepito dallo Stato italiano attraverso il d.lgs. n. 9 dell’11.02.2015 il quale, tra le altre interessanti novità, ha introdotto il comma 1 bis dell’art. 282 quater c.p.p. che stabilisce il diritto della persona offesa di essere informata, oltre che della emissione di un provvedimento tra quelli previsti dagli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p., anche della facoltà di richiedere, appunto, un ordine di protezione europeo.

Accanto alle pronunce contrassegnate dagli enunciati principi di diritto, si è sviluppato, sempre in seno alla Sezione Quinta (salvo sporadiche decisioni assunte in tema di maltrattamenti dalla Sezione Sesta), un altro filone interpretativo che ha valorizzato la sola necessità di individuare i luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa tra quelli inibiti al soggetto attivo.

Secondo tale diverso orientamento, pertanto, l’indicazione specifica dei luoghi vietati all’agente si impone quale garanzia di completezza del provvedimento cautelare in guisa da consentirne l’esecuzione ed il rispetto delle impartite prescrizioni.

Completezza e specificità del provvedimento appaiono, quindi, quali caratteri essenziali di un difficile equilibrio tra le istanze della vittima, rappresentate dalla esigenza di sicurezza, e quelle della persona sottoposta ad indagine o imputata, ossia il minor sacrificio possibile alla libertà di movimento.

3. Le due tesi contrapposte al vaglio delle Sezioni Unite.

3.1 Le decisioni che valorizzano il riferimento del divieto a luoghi determinati.

La Corte esamina in modo analitico le ragioni poste alla base dei due contrapposti orientamenti iniziando l’analisi dalla esegesi che predilige il riferimento ai luoghi determinati, enfatizzando il dato secondo cui, ragionando a contrario, le limitazioni imposte all’indagato risulterebbero eccessivamente gravose rispetto ai diritti di libertà e locomozione[1]. Senza una chiara indicazione dei luoghi a lui inibiti, l’agente risulterebbe assoggettato ad una indeterminata e, pertanto, inammissibile compressione della libertà di autodeterminazione; del resto, la misura de qua risulterebbe contraddistinta da caratteri peculiari che consentono al giudice di stabilirne il contenuto prescrittivo. Un provvedimento che imponga il mantenimento di una data distanza dalla persona offesa, ovunque essa si trovi, non rispetterebbe il contenuto legale della norma e sarebbe contrassegnato da eccessiva gravosità e sostanziale ineseguibilità[2]; una misura cautelare che si limiti a fare generico riferimento a “tutti i luoghi frequentati” dalla vittima o prescriva di mantenere una determinata distanza dai luoghi frequentati dalla persona offesa finirebbe per imporre una condotta di non facere indeterminata rispetto a luoghi la cui individuazione, di fatto, verrebbe rimessa alla scelta della persona offesa[3]; la norma richiede la determinatezza dei luoghi non potendosi, in via interpretativa, ridefinirne il contenuto correlandolo agli spostamenti della persona offesa essendo tre le forme attraverso le quali è inibita l’azione del soggetto attivo ma, ciò che in ogni caso rileva, è il rispetto della connotazione legale del riferimento a “determinati luoghi” che, a pena di censurabile indeterminatezza, è compito del giudice individuare[4]; il provvedimento impositivo è affetto da assoluta carenza di completezza delle prescrizioni, in considerazione della indicazione del solo obbligo di osservare la distanza minima di metri 200 da un minore, senza alcuna indicazione dei luoghi[5]; ed infine, il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa deve necessariamente individuare in maniera specifica e dettagliata i luoghi oggetto del divieto perché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa, che consente esecuzione e controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare[6].

3.2 Le condotte espressive della ricerca di un morboso e assiduo contatto con la persona offesa.

In contrasto con le riportate decisioni si pone, tuttavia, un altrettanto cospicuo numero di pronunce le quali, in omaggio alla finalità che la norma si prefigge di raggiungere, pone l’attenzione su quelle condotte illecite che manifestino una persistente e invasiva ricerca di contatto con la persona offesa, a prescindere dal luogo in cui questa svolge le proprie attività ovvero si trovi.

Diviene, allora, irrilevante la individuazione di specifici luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, anzi, l’obbligo di specificazione di uno o più luoghi, vista la staticità della previsione, imporrebbe alla persona offesa di non allontanarsene, pena l’esposizione di se stessa a pericolo, con evidente sacrificio della socialità e conseguente svuotamento della ratio legis della norma.

Simmetricamente, si ritiene che i diritti e le garanzie del soggetto indagato (o imputato) non vengano affatto compressi, potendosi affermare che non è il particolare luogo fisico ad essere protetto ma sarà ogni luogo frequentato di volta in volta dalla vittima a rivestire tutela; così ragionando, la determinatezza della misura può dirsi preservata dal collegamento che verrà a stabilirsi, in modo fluido, tra la persona offesa ed il soggetto attivo del reato ed il generico dovere di non facere si trasforma in uno specifico obbligo di non entrare in contatto con la persona offesa.

Tale approdo ermeneutico ha trovato una prima e importante espressione in una pronuncia emessa nel 2012 dalla Sezione Quinta attraverso la quale è stato precisato che lo scopo della previsione appare essere, evidentemente, quello di rispondere a specifiche ragioni di cautela special preventiva, riferite non solo alla personalità dell’indagato ed alla proclività dello stesso alla commissione di reati, ma anche al particolare rilievo che, in questa prospettiva, assumono la posizione della persona offesa ed i rapporti fra la stessa ed il soggetto agente; il che ricollega il campo applicativo della norma a reati in cui è particolarmente significativa la componente vittimologica.

La norma prende atto, a questi fini, della possibile insufficienza di una tutela, per così dire, “statica” dell’incolumità della vittima, laddove le circostanze rendano concreto il pericolo di un’aggressione della stessa nel corso dello svolgimento della sua vita di relazione e, d’altra parte, si fa carico dell’eccessività del ricorso a misure custodiali a fronte di un’esigenza cautelare strettamente dipendente dai contatti dell’indagato con la vittima. Da ciò nasce la configurazione di una misura nell’applicazione della quale assume primaria importanza la garanzia della libertà di movimento e di relazioni sociali della persona offesa da possibili intrusioni dell’indagato che, facendo temere la vittima per la propria incolumità, finiscano per condizionare e pregiudicare l’esercizio di dette libertà.

Le modalità commissive dei reati in parola comprendono, quali manifestazioni tipiche, il costante pedinamento della vittima da parte del soggetto agente, anche in luoghi nei quali la prima si trovi occasionalmente, e l’espressione di atteggiamenti minacciosi o intimidatori, anche in assenza di contatto fisico diretto con la persona offesa e, purtuttavia, dalla stessa percepibili.

Alle necessità indotte da quest’ultima tipologia comportamentale soccorre la sostanziale estensione della nozione di “avvicinamento” al superamento di una distanza minima della vittima, stabilita secondo le esigenze di tutela suggerite dal caso concreto. Ma, in termini più generali, il riferimento oggettuale del divieto di avvicinamento non più solo ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ma altresì alla persona offesa in quanto tale, esprime una precisa scelta normativa di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo. La norma, in altre parole, esprime priorità all’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza da aggressioni alla propria incolumità anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria tale da non essere legata a particolari ambiti locali, con la conseguenza che è proprio rispetto a tale esigenza che deve modellarsi il contenuto concreto di una misura la quale, non lo si dimentichi, ha comunque natura inevitabilmente coercitiva rispetto a libertà anche fondamentali dell’indagato.

È del resto significativo che l’art. 282 ter c.p.p., nel richiamare la descrizione del divieto di cui al preesistente art. 282 bis c.p.p., non riproponga i pur non tassativi accenni ivi presenti al luogo di lavoro della vittima ed al domicilio della famiglia di origine della stessa, a conferma che la tutela di un sereno esercizio della libertà di circolazione e di relazione della persona offesa non trova limitazione alla sfera del lavoro e della cura degli affetti familiari della stessa ed agli ambiti alle stesse assimilabili. Pertanto, la misura cautelare in esame ha assunto una dimensione articolata in più fattispecie applicative, graduate in base alle esigenze di cautela del caso concreto[7].

Sul solco del citato arresto giurisprudenziale si sono inserite, nel tempo, molte pronunce, espressione del diverso orientamento sorto in seno alla Quinta Sezione, volto a focalizzare l’attenzione dell’interprete sulla sufficienza del richiamo ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, sulla determinatezza delle prescrizioni che hanno ad oggetto il divieto di avvicinamento alla vittima, mantenendo un contenuto coercitivo apprezzabile e riconoscibile[8].

Proprio per ovviare a questa peculiare forma di “persecuzione” il legislatore ha previsto le particolari misure del divieto di “avvicinamento” alla persona offesa, nonché quello di mantenere una determinata distanza dalla persona suddetta e il divieto di comunicazione. Il contenuto di queste misure è funzionale alla particolare tutela di cui è bisognosa la persona oggetto di attenzioni sgradite e di interferenze abusive nella sua vita privata, in quanto idonee a tenere lontano l’autore delle condotte sopra specificate. La norma, in altre parole, viene incontro all’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita lavorativa e sociale in condizioni di serenità e di sicurezza, anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria slegata da particolari ambiti territoriali.

Peraltro, il divieto di avvicinamento alla persona offesa e il divieto di comunicazione, ovvero quello di tenere una determinata distanza da lei, non hanno affatto (contrariamente al divieto di stare lontano dai “luoghi” frequentati dalla persona offesa, a meno che l’espressione non venga interpretata come puro divieto di stare lontano dalla persona offesa) un contenuto generico o indeterminato, perchè rimandano ad un comportamento specifico, chiaramente individuabile: quello di non ricercare contatti, di qualsiasi natura, con la persona offesa e, quindi, di non avvicinarsi fisicamente alla suddetta, di non rivolgersi a lei con la parola o con lo scritto, di non telefonarle, di non inviarle sms, di non guardarla (quando lo sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d’animo): insomma, di non porre in essere i tipici contegni dello “stalker”. Peraltro, la sfera di libertà del prevenuto non è affatto compressa in maniera indefinita o eccessiva, ma solo nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima, poichè si risolve nel rapporto interpersonale tra due soggetti e rappresenta la misura di minima invadenza, alternativa ad altre, pure previste dall’ordinamento (anche per far fronte alle situazioni contemplate dall’art. 612 bis c.p.), che agiscono direttamente sulla persona e sulla sua libertà di locomozione. Una siffatta modulazione dell’intervento cautelare, del resto, non appare nemmeno idonea a determinare violazioni involontarie delle prescrizioni giudiziali, rimanendo esclusi dall’ambito di rilievo penale gli eventuali, occasionali e non prevedibili incontri che non si traducano in alcun tipo di contatto molesto, dovendosi apprezzare, ai fini della valutazione del rispetto della misura, anche l’elemento soggettivo.

È compito del giudice del merito, pertanto, stabilire, in base alle concrete connotazioni assunte dalla condotta invasiva dell’agente, se questi debba tenersi lontano da luoghi determinati – in questo caso da indicare specificamente – ovvero se debba tenersi lontano, puramente e semplicemente, dalla persona offesa; e se una prescrizione di tal genere debba essere accompagnata dal divieto di comunicare, anche con mezzi tecnici, con quest’ultima[9].

In estrema sintesi, poi, vale la pena di ricordare anche che, sulla scorta delle conclusioni alle quali è giunta la sentenza in ultimo richiamata, il divieto di avvicinamento ai luoghi e l’obbligo di non avvicinarsi alla persona offesa (ovvero di allontanarsi da essa) rappresentano due possibili contenuti della medesima misura che possono essere applicati entrambi senza incorrere nel limite di cumulo precisato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 29907 del 30.05.2006, La Stella ([…] si tratta, infatti, non di due misure diverse ma di un’unica misura con un contenuto flessibile, da declinare a seconda delle esigenze di neutralizzazione del rischio di reiterazione imposte dal caso di specie. Il cumulo dei due divieti, in particolare, potrebbe garantire, in talune occasioni, la possibilità di colmare possibili vuoti di prevenzione che, isolatamente considerate le due prescrizioni, non risultano altrimenti assicurati. Esemplare l’ipotesi legata alla necessità di tenere l’indagato lontano dai luoghi di riscontrata esecuzione della condotta, evitando, al contempo, gli avvicinamenti occasionali resi verosimili dai pregressi contegni dell’autore del reato)[10].

Sostengono le Sezioni Unite che la criticità che emerge nella linea ermeneutica del primo orientamento è rappresentata da quelle decisioni che non considerano dirimente il dato testuale per consentire l’applicazione della misura attraverso un divieto mobile fondato sulla posizione della vittima, ritenendo che tale previsione abbia una connotazione generica e indeterminata, fino a prefigurare il rischio di trasgressione della ordinanza per il solo fatto di essersi l’agente trovato al cospetto della persona offesa, anche soltanto per caso fortuito o casualmente, così finendo per far dipendere il non facere del destinatario della misura dalla volontà della vittima.

Il problema, correttamente posto dalla Sezione rimettente, va risolto attraverso la esatta individuazione dei presupposti e del perimetro della misura, anche sotto il profilo costituzionale, con particolare attenzione ai limiti di applicazione delle prescrizioni, secondo le necessità richieste dalla specificità del caso.

4. La disamina degli istituti giuridici coinvolti: la disciplina interna.

Richiamata la genesi storica della misura cautelare in parola (“perfezionamento” di quella di cui all’art. 282 bis c.p.p. introdotta nel 2001), la Corte precisa che lo spirito della disposizione mira a prevenire sviluppi criminogeni degenerativi attraverso la distanza interposta tra indagato e persona offesa che bene si inquadrano all’interno di un panorama legislativo rivolto alla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (regole di trattazione prioritaria dei processi aventi ad oggetto l’accertamento di fattispecie di reati violenti in ambito familiare o personale; inasprimento delle pene dei reati che si consumano nell’ambito delle relazioni domestiche; introduzione di nuove figure di reato in attuazione della Convenzione del Consiglio di Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e nelle relazioni domestiche, c.d. “Convenzione di Istanbul”; la possibilità di utilizzo delle procedure di controllo dei soggetti sottoposti a misura cautelare mediante mezzi elettronici o strumenti tecnici).

La soluzione adottata dalle Sezioni Unite muove dalla interpretazione letterale della disposizione in questione, passa per una lettura logico-sistematica della norma ed, infine, approda ad una valutazione di compatibilità con i principi fondamentali in tema di diritti costituzionali di libertà e locomozione.

Per giungere alla esegesi dell’istituto giuridico sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite è necessario, a parere del massimo consesso della Corte, esaminare l’introduzione della nuova norma nel panorama delle misure cautelari preesistenti e successive ad essa, unitamente alle altre regole introdotte dalla stessa normativa.

Va, preliminarmente, considerato l’inserimento della misura in parola in rapporto alla preesistente norma di cui all’art. 282 bis c.p.p. “allontanamento dalla casa familiare”; prima del 2001, anno di introduzione della richiamata disposizione, il Giudice poteva avvalersi del solo “obbligo di dimora” quale strumento di protezione dei soggetti vulnerabili.

Il comma 1 dell’art. 282 bis c.p.p., come noto, prevede che il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza autorizzazione mentre il comma 2 ha introdotto una diversa ed ulteriore possibilità di difesa della persona offesa:  “Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti”.

Giova evidenziare che la locuzione “può inoltre” riserva al Giudice la possibilità di emanare un ordine aggiuntivo rispetto all’allontanamento di cui al primo comma e che il comando attiene espressamente ai “luoghi determinati” indipendentemente dalla presenza della persona offesa.

Inoltre, la medesima legge ha introdotto una regola di salvaguardia anche in ambito civile dove l’art. 342 bis c.p.c. “ordini di protezione contro gli abusi familiari” stabilisce che “quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342 ter c.p.c[11]“ la violazione dei quali determina la sanzione penale ai sensi dell’art. 388 c.p. “mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”[12].

A completare il quadro, il comma 3 dell’art. 282 bis c.p.p. prevede che “il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati”.

Orbene, l’art. 282 ter c.p.p., coniato quale strumento di difesa cautelare verso le condotte persecutorie introdotte e disciplinate dalla medesima novella legislativa, ha trovato estesa applicazione anche rispetto al reato di maltrattamenti in famiglia per la maggiore funzionalità assicurata da un contenuto precettivo più ampio della misura di cui all’art. 282 bis c.p.p.

Il contenuto della misura cautelare esaminata è declinato al comma 1: “con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa[13], anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275 bis” mentre il comma 2 estende il divieto, qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, impedendo l’avvicinamento “a luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone”[14].

Il comma 3, infine, facoltizza il giudice a vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con le persone di cui ai commi 1 e 2.[15]

Come si vede, la disposizione prevede due prescrizioni finalizzate a precludere il contatto fisico e una terza, non autonoma ma connessa (può inoltre), riferita ai contatti a distanza.

La prima preclusione, quella fisica, è garantita dal “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” e dall’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla stessa persona offesa”.

In merito a questa seconda ipotesi, oggetto del contrasto giurisprudenziale, è stato precisato che, in base al dato letterale, l’obbligo di mantenersi ad una data distanza è assicurato in due diversi modi: grazie al rispetto della distanza 1) da determinati luoghi frequentati abitualmente dalla vittima ovvero 2) dalla persona offesa in quanto tale.

Appare di palmare evidenza, allora, che la norma prevede la possibilità di applicare la misura cautelare il cui contenuto è quello del divieto di avvicinamento alla persona fisica ovunque si trovi.

Ovviamente, la gradualità delle prescrizioni andrà correlata ex art. 275 commi 1 e 2 c.p.p. a seconda delle esigenze cautelari sottese, con riferimento ai principi generali di adeguatezza e proporzionalità.

5. La corrispondenza tra la normativa sovranazionale (Direttiva n. 2011 del 13.12.2011) e la disciplina interna in materia di protezione delle vittime di reati violenti.

Da un punto di vista sistematico, le Sezioni Unite hanno osservato come tra la norma interna e quella sovranazionale sull’ordine di protezione in ambito europeo vi sia assoluta corrispondenza.

In effetti, all’art. 5 della Direttiva n. 2011 del 13.12.2011 viene riportato alla lett. a) divieto di frequentare determinate località, determinati luoghi o determinate zone definite in cui la persona protetta risiede o che frequenta (indipendentemente dalla presenza in loco della persona protetta); lett. b) divieto o regolamentazione dei contatti, in qualsiasi forma, con la persona protetta, anche per telefono, posta elettronica o ordinaria, fax o altro (nella disciplina interna è una prescrizione sempre secondaria); lett. c) divieto o regolamentazione dell’avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito (la giurisprudenza interna ritiene necessaria l’indicazione di una determinata distanza per dare contenuto precettivo alla prescrizione generica).

Ed allora, la formula letterale della norma ed il raffronto tra la disposizione di cui all’art. 282 bis c.p.p. e la Direttiva europea sopra richiamata dimostrano che l’art. 282 ter c.p.p. introduce prescrizioni autonome che possono trovare applicazione in forma alternativa o congiunta, da stabilirsi in relazione alle singole e concrete situazioni meritevoli di salvaguardia, risultando insussistente alcun profilo di subordinazione tra le stesse (come invece appare profilarsi tra il comma 1 ed il comma 2 dell’art. 282 bis c.p.p.).

Oltre al dato testuale, il criterio di giudizio, sostengono le Sezioni Unite, è rinvenibile nelle posizioni assunte dalla giurisprudenza citata, diverse ma non affatto inconciliabili.

Invero, se si parte dall’assunto che l’istituto mira a preservare l’integrità psico-fisica della persona offesa, quest’ultima dovrà essere posta nella condizione di potersi muovere agevolmente anche al di fuori di un contesto predeterminato.

La fisiologica imprevedibilità degli spostamenti del soggetto passivo se, da un lato, non deve mai risolversi in uno strumento di provocazione utilizzato per la precostituzione di una “occasione di incontro” al punto da rendere eccessivamente gravoso (o addirittura ineseguibile) il provvedimento coercitivo, dall’altro, postula che l’intervento del Giudice, sussistendo i presupposti legittimanti l’adozione di una misura cautelare, non finisca per incidere sulla libertà di autodeterminazione del soggetto da proteggere.

6. La compatibilità tra la misura cautelare di cui all’art. 282 ter c.p.p. con il diritto alla libertà di movimento del soggetto attivo del reato.

Parimenti, la pronuncia in esame si sofferma anche sulla paventata limitazione del fondamentale diritto alla libertà di movimento dell’indagato, la cui analisi permetterà di giungere al contemperamento di entrambe le esigenze prospettate.

Il richiamo degli Ermellini è alla già citata sentenza n. 29907[16] attraverso la quale le Sezioni Unite, tra gli altri importanti principi, hanno affermato che l’art. 272 c.p.p., “limitazioni alle libertà della persona”, quando stabilisce che “le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo”, sancisce sì il principio di stretta legalità[17], diretta derivazione della doppia riserva (di legge e di giurisdizione) dettata dall’art. 13 comma 2 della Costituzione ma, ciò che qui importa, riduce le misure cautelari ad un numero chiuso, oltre il quale non sono applicabili forme diverse ed ulteriori di privazione o riduzione della libertà della persona.

Il riferimento alla libertà della persona (e non alla libertà personale) inserito nella rubrica della norma di apertura del Titolo I del Libro IV del codice di rito induce a ritenere che il legislatore abbia voluto comprendere non solo quegli strumenti che incidono sulla libertà in senso stretto, ma pure quelli che comprimono altri diritti dell’individuo, anch’essi fondamentali, quali la libertà di movimento e di circolazione.

Basti pensare, in tal senso, al fatto che le misure del divieto di espatrio, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, il divieto di dimora o l’obbligo di dimora impongono limitazioni alla locomozione della persona ad esse assoggettata senza, tuttavia, privarla della libertà.

La stessa collocazione delle norme di cui agli artt. 282 bis e ter c.p.p. tra l’obbligo di presentazione alla p.g. (art. 282 c.p.p.) e l’obbligo e divieto di dimora (art. 283 c.p.p.) inducono a ritenere che le relative prescrizioni facciano capo alla stessa tipologia di limitazioni.

Del resto, le Sezioni Unite[18] si erano già espresse, in vigore il codice Rocco, sulla natura del provvedimento del ritiro del passaporto quale atto limitativo della libertà personale di cui all’art. 13 della Costituzione, da collocare nell’ambito dei provvedimenti sulla libertà personale pronunziati da organi giurisdizionali.

In tale occasione, la Corte aveva stabilito che appare necessario distinguere tra il principio generale della inviolabilità della libertà personale (art. 13 co. 1 Cost.) dalla più particolare regolazione di determinati aspetti della libertà stessa (art. 13 co. 2 Cost.) la cui esatta portata non può essere determinata se non interpretando il significato della formula di chiusura “né qualsiasi altra restrizione della libertà personale” che lascia intendere, senza plausibili sottintesi, che questa è qualcosa di diverso dalla enunciazione ampia e generalizzata di cui al comma 1.

Pertanto, è possibile concludere che il costituente ha voluto garantire, accanto alle restrizioni che annullano totalmente la disponibilità che ogni individuo ha della propria persona fisica, anche quelle forme di privazione della libertà che la comprimono o la riducono parzialmente.

Conclude sul punto la Corte affermando che le libertà di cui all’art. 272 c.p.p. non vanno intese soltanto in termini fisici assoluti ma anche limitativi e relativi; la norma in esame, allora, è conforme ai principi fondamentali che trovano legittimazione nell’art. 13 della Costituzione, nella adeguatezza e proporzionalità propri di ogni misura cautelare e nella motivazione del provvedimento impositivo.

Un’ultima annotazione si impone, a parere delle Sezioni Unite, per fugare i residui dubbi circa la potenziale violazione dei principi di tipicità e determinatezza delle misure cautelari nel caso di applicazione “mobile” dell’art. 282 ter c.p.p[19].

Da un lato, è bene chiarire che tale “fluidità” è stata riconosciuta legittima quando la condotta del soggetto attivo è caratterizzata, come detto, da “persistente e invasiva ricerca di contatto con la vittima, ovunque si trovi”[20] e, pertanto, essa va disposta solo quando appare strettamente necessaria.

Inoltre, va considerato che, dinanzi a contegni irrefrenabili, l’unica alternativa utile a prevenire la commissione di reati rimane la coercizione integrale, pertanto, appare evidente come l’indagato, attraverso l’applicazione della misura non custodiale, benefici di uno strumento di favore in grado di evitare la soppressione totale della sua libertà personale, lungi dal poter essere considerato “indeterminato o eccessivamente afflittivo”.

In ultima analisi, la Corte si sofferma ad analizzare il contenuto delle prescrizioni.

I Giudici di legittimità affermano che, quando la misura è diretta a preservare i “luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”, non può prescindersi dalla esplicita indicazione degli stessi ma, parimenti, ai fini dell’accertamento della violazione, non rileva in alcun modo se la vittima risulti essere presente o meno.

Quando, invece, la prescrizione del divieto riguarda l’avvicinamento alla persona offesa, l’indagato è tenuto a rispettare sempre ed ovunque la distanza stabilita, anche in caso di incontro fortuito in occasione del quale questi ha il dovere di allontanarsi dal soggetto protetto nel più breve tempo possibile.

Una importante precisazione assunta incidenter tantum chiarisce infine che, contrariamente a quanto affermato da una recente pronuncia della Sezione Quarta[21], la misura cautelare de qua è stata introdotta avendo di mira determinati contegni che si manifestano, per lo più, in specifiche situazioni sopra meglio richiamate ma la scelta di inserire la norma nell’alveo della materia cautelare generale, senza alcuna limitazione o distinzione, lascia ritenere che la stessa possa trovare applicazione a prescindere dal reato per il quale si procede[22].

7. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

In conclusione, al quesito di diritto sottoposto alle Sezioni Unite, la Corte ha dato la seguente risposta: “il giudice che ritenga adeguata e proporzionata la sola misura cautelare dell’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p., comma 1) può limitarsi ad indicare tale distanza. Nel caso in cui, al contrario, nel rispetto dei predetti principi, disponga, anche cumulativamente, le misure del divieto di avvicinamento ai luoghi da essa abitualmente frequentati e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, deve indicarli specificamente”.

*Avvocato del Foro di Roma, componente del Comitato di redazione di questa rivista

[1] Si è sottolineato che, «rispetto alla sostanziale precisione descrittiva delle altre misure cautelari, qui la norma chiede al giudice di costruire la cautela di volta in volta, offrendogli ben pochi appigli», per cui «il ruolo del giudice appare esorbitante e stona con i principi in materia di limitazioni temporanee della libertà», MORELLI, sub art. 9 d.l. 23.2.2009, n. 11, 500.

[2] Sez. 6, n. 26819 del 07.04.2011, C. Rv 250728.

[3] Sez. 5, n. 27798 del 04.04.2013, S., Rv 257697.

[4] Sez. 6, n. 14766 del 18.03.2014, F., Rv 261721.

[5] Sez. 5, n. 495 del 21.10.2014, S.G.N., n.m.

[6] Sez. 3, n. 1629 del 06.10.2015, V.

[7] Sez. 5, n. 13568 del 12.01.2012, V., Rv 253297

[8] Sez. 5, n. 19552 del 26.03.2013, D.R., Rv 255512

[9] Sez. 5, n. 5664 del 10.12.2014, B., Rv 262149.

[10] Sez. 6, n. 28666 del 23.06.2015, I.A.K.W.S.

[11] Con il decreto di cui all’articolo 342 bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio [43] della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti [74 ss.]o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.

[12] La compenetrazione delle vicende sottoposte alla attenzione del giudice penale con quelle poste al vaglio del giudice civile nelle varie, e sempre più frequenti, fattispecie di violenza domestica, ha suggerito al legislatore di stabilire un “dialogo” tra le due giurisdizioni, soprattutto al fine di garantire la tutela preminente del minore anche se, come stabilito da Cass. Sez. V, n. 28393 del 17.09.2020, ciascuno di tali giudizi deve mantenere la propria indipendenza ed autonomia perché gli stessi rispondono a criteri e logiche assolutamente differenti (M.L. SASSI, in Penaledp.it).

[13] La misura si articola, quindi, in un possibile «doppio contenuto»: un divieto “generico” di avvicinarsi ai luoghi frequentati con abitudine dalla vittima e un obbligo “specifico” di restare ad una determinata distanza, assorbente il primo (MARANDOLA, I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. proc., 2009, 967).

[14] Il vero elemento di novità dell’istituto giuridico in questione concerne il divieto di avvicinamento “materiale e virtuale” all’offeso, indipendentemente dal luogo in cui esso si trovi, prescrizione non riconducibile ad alcuna delle misure precedenti (ZACCHE’, Vecchi automatismi cautelari e nuove esigenze di difesa sociale, in AA.VV., Il “Pacchetto sicurezza” 2009, cit., 297).

[15] Per completezza, va ricordato, da ultimo, l’art. 282 quater c.p.p., anch’esso introdotto dal d.l. n. 11 del 2009, il quale prescrive l’obbligo di comunicare i provvedimenti coercitivi ex artt. 282 bis e 28 ter c.p.p. alla competente autorità di pubblica sicurezza, ai fini dell’adozione di eventuali provvedimenti in materia di armi e munizioni, nonché ai servizi socio-assistenziali del territorio e alla stessa persona offesa.

[16] Sez. Un. n. 29907 del 30.05.2006, La Stella, Rv. 234138.

[17] Il principio di legalità, il quale resta, senza dubbio, uno dei canoni fondamentali in materia cautelare, non preclude al legislatore di dar vita a strumenti coercitivi caratterizzati da apprezzabile duttilità, consentendo così al giudice di assicurare un’efficace tutela caso per caso (COLLINI, 24.01.2012, Diritto Penale Contemporaneo).

[18] Sez. Un. n. 8 del 10.10.1987, Tumminelli, Rv 177102.

[19] I principi di tipicità e di determinatezza consentono di circoscrivere l’ambito della discrezionalità del giudice nell’applicazione concreta della singola misura cautelare: si è parlato, al riguardo, di discrezionalità vincolata, perché il giudice, «sciolto da meccanismi automatici», è chiamato ad una «valutazione da effettuarsi caso per caso», SPANGHER, sub art. 272 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda e Spangher, cit., 2817.

[20] Sez. 5, n. 13568 del 16.01.2012, V., Rv 253296.

[21] Sez. 4, n. 2147 del 13.01.2021, M., Rv 280408 “la disposizione de qua è stata inserita nel c.p.p. dal d.l. n. 11 del 2009, convertito in L. n. 38 del 2009, con cui sono state introdotte misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori, sicchè la ratio normativa esclude l’utilizzazione di tale misura cautelare per reati contro il patrimonio, quali il furto, per il quale si procede”.

[22] In questo senso MARANDOLA, op. cit., 966, secondo la quale «ancorché occasionata dalla nuova disciplina in tema di atti persecutori, la mancanza di ogni riferimento all’art. 612 bis c.p. consente di affermare la generale applicabilità della misura».