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LA VIOLENZA ECONOMICA CONTRO LE DONNE. RIFLESSIONI DI DIRITTO COSTITUZIONALE – DI IRENE PELLIZZONE

LA VIOLENZA ECONOMICA CONTRO LE DONNE. RIFLESSIONI DI DIRITTO COSTITUZIONALE – DI IRENE PELLIZZONE

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LA VIOLENZA ECONOMICA CONTRO LE DONNE. RIFLESSIONI DI DIRITTO COSTITUZIONALE

di Irene Pellizzone*

Questo scritto è il frutto di una rielaborazione della relazione presentata al convegno dal titolo Violenza economica e parità di genere: l’educazione finanziaria come strumento di contrasto, organizzato dall’Osservatorio Parti Opportunità dell’UCPI il 26.11.2021.

SOMMARIO: 1. Premessa sugli obiettivi del lavoro alla luce dell’accidentato cammino della parità di genere – 2. La violenza economica: dimensioni, contenuto e ratio in assenza di una base normativa definitoria – 3. Alcune cause della opacità della violenza economica in prospettiva giuridico-costituzionale – 4. Il ruolo del diritto penale: da protagonista a co-protagonista – 5. Esempi virtuosi e qualche interrogativo

  1. Premessa sugli obiettivi del lavoro alla luce dell’accidentato cammino della parità di genere

Scopo di queste riflessioni è mettere a fuoco, in prospettiva giuridica, come la matrice della violenza economica contro le donne risieda nella mancata (o ambigua[1]) attuazione dei diritti costituzionali delle donne: in senso figurato, si cercherà di mettere in luce che la violenza di genere altro non è che la punta di un iceberg, alla cui base si collocano le varie forme di discriminazioni di genere.

Tale spettro di analisi consentirà di mettere in rilievo l’ineludibile e pressante necessità di irrobustire strumenti extra-penali che prevengano la subalternità della donna in famiglia, lavoro, sfera pubblica, estirpando ab origine il sostrato culturale in cui tale fenomeno si genera, rigenera e prospera, e proteggendo ed emancipando con misure di sostegno la donna che si determina a interrompere la relazione violenta, mentre il ruolo ‘protagonista’ giocato dal diritto penale dovrebbe venire meno, a favore dell’emersione di strumenti giuridici del diritto del lavoro, civile, di famiglia, tributario, in qualità di attori coprotagonisti.

Una breve notazione di metodo. Proprio perché si muove dalla convinzione che la subalternità della donna, percepita e vissuta nella società, renda possibile e permetta alla violenza economica di trovare spazio ed attecchire all’interno delle mura domestiche, nel corso del lavoro si assumerà una prospettiva di analisi non neutra sul piano del genere. Ciò significa che le riflessioni proposte saranno improntate alla specificità della condizione femminile e maschile in modo specifico. Tale visione non significa certo che anche la partner di genere femminile possa commettere violenza sessuale, fisica, psicologica ed economica nei confronti del partner di genere maschile, e che tale condotta non leda diritti umani di colui che subisce tali azioni violente. Tuttavia, giacché la violenza femminile nei confronti del partner maschile è priva di radicamento nella disparità tra generi esistente nella cultura e dunque nella società, tali comportamenti assumono un significato profondamente diverso non solo su un piano sociologico, ma anche nell’ottica del diritto costituzionale.

Ma è proprio vero che la violenza economica e l’isolamento che ne consegue riverberano la persistente condizione di fragilità della donna, dovuta a strutturali disparità nella conformazione dell’ambiente sociale, familiare, e lavorativo in cui vive?

A supporto di questa chiave di lettura, volendo allargare lo sguardo alla situazione precedente la pandemia, emerge che la disparità tra i generi su un piano lavorativo ed economico è endemica[2]. Come riportato dalla Commissione GREVIO (Gruppo di esperti istituito presso il Consiglio d’Europa col compito di monitorare la attuazione della Convenzione di Istanbul), nel suo primo (e sinora unico) report riguardante la situazione italiana, dell’inizio del 2020, “Le disuguaglianze persistenti sono particolarmente evidenti nell’ambito dei diritti economici: secondo i dati di Bankitalia, le donne in Italia possiedono in media il 25% in meno di risorse economiche rispetto agli uomini, e questo divario sale al 50% nelle coppie. Il 40% delle donne sposate è disoccupato; inoltre, le donne che lavorano guadagnano meno e continuano a essere discriminate sul posto di lavoro. […] I tassi di povertà tra le donne, in particolare le madri single, sono alti[3].

La pandemia ha solamente peggiorato questo quadro: i dati di Eurostat del secondo trimestre del 2020 dicono che il tasso di occupazione maschile in Italia è del 66% e quello femminile del 48%[4], in ragione di un duplice ordine di cause: i) i comparti lavorativi che vedevano impiegate di più le donne hanno visto una maggiore contrazione (es. turismo, commercio al dettaglio di tipo non alimentare); ii)l’accresciuta esigenza di far fronte e compiti di cura in famiglia ha probabilmente favorito un abbandono femminile del mondo del lavoro[5].

Per non parlare poi delle donne che vedono la loro condizione di svantaggio economico acuita (e dunque il punto di partenza arretrato), in ragione dell’intersezione con un ulteriore elemento di fragilità, che le rende ancora meno inserite e inseribili nel mondo del lavoro: l’età, la disabilità, la lingua, l’etnia, su cui in questa sede non si ha modo di soffermarsi[6]. Le cosiddette ‘vittime invisibili’[7].

Se questo è il contesto, non deve stupire il dato, riportato in un report dell’aprile 2020, realizzato da Episteme, per cui solo il 37,8% delle donne è completamente indipendente su un piano economico, a fronte del 63,4% maschile; inoltre, solo il 67,2% delle donne gestisce in autonomia il contro corrente, contro il 7,9% degli uomini[8].

  1. La violenza economica: dimensioni, contenuto e ratio in assenza di una base normativa definitoria

La nozione di violenza economica è di conio più recente rispetto a quella fisica, sessuale e psicologica, risalendo essa alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta nei confronti della violenza contro le donne e la violenza domestica, c.d. Convenzione di Istanbul del 2011 (ratificata dall’Italia con l. n. 77 del 2013), che, dopo un periodo di ‘miopia’ normativa di altri importanti testi normativi[9], è giunta ad abbracciare, nell’art. 3, recante prescrizioni normative definitorie, “tutti gli atti di violenza di genere che implicano o possono implicare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica[10].

Ancora, all’art. 18, comma 3, si prevede, quale obbligo generale per tutti gli stati aderenti, l’adozione di misure che “mirino ad accrescere l’autonomia e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenze”. Da notare che, nella Relazione esplicativa alla Convenzione[11], si specifica che “tutte le misure mirino ad accrescere l’autonomia e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenze, il che significa garantire che le vittime o gli utenti dei servizi conoscano i propri diritti e possano assumere decisioni in un contesto favorevole che le tratti con dignità, rispetto e sensibilità. Allo stesso tempo, i servizi devono essere in grado di instillare nelle vittime un senso di controllo sulla propria vita il che, in molti casi, include un lavoro sulla sicurezza finanziaria, in particolare sull’indipendenza economica rispetto all’autore delle violenze”.

Non solo. All’art. 48, comma 2, è stabilito che il pagamento di sanzioni alternative alla pena detentiva, quale una multa, deve essere subordinato alla previa verifica della “capacità del condannato di adempiere ai propri obblighi finanziari nei confronti della vittima”. Questo perché, come si sottolinea sempre nella Relazione esplicativa, provenendo spesso dall’uomo la principale fonte di reddito della famiglia, il pagamento di una sanzione economica può incidere negativamente sul “reddito familiare o sulla sua capacità di pagare gli alimenti e potrebbe portare a delle difficoltà economiche per la vittima”.

A livello nazionale, la legislazione ha cercato, sia pure modo puntiforme e sporadico, di intervenire al fine di contrastare questo fenomeno, come vedremo meglio dopo, senza però avventurarsi in contributi definitori. Pensiamo soprattutto all’art. 18 bis del d. lgs. n. 286 del 1998 (c.d. T. U. sull’immigrazione), introdotto con il d.l. 14 agosto 2013, n. 93), che ha introdotto un permesso di soggiorno speciale per vittime di violenza domestica, tra cui viene citata esplicitamente, in scia con l’allora neo-ratificata Convenzione di Istanbul (il cui recepimento è avvenuto con la l. n. 77 del 2013), la violenza economica come tipo di violenza domestica legittimante il permesso medesimo.

Altro spunto interessante, ricadente nel diritto penale, deriva dalla previsione del reato di “Violazione degli obblighi di assistenza familiare” (art. 570 c.p.), esteso anche al coniuge separato e/o divorziato (art. 570-bis)[12].

Ma, posto che nessun atto normativo la definisce, che contenuto assume questa forma di violenza?

Il tratto comune di queste disposizioni sembra che sia riconducibile allo scopo di ‘catturare’ le condotte a forma libera volte creare e sfruttare la dipendenza economica della donna dall’uomo in modo da mortificarne la dignità e avvincerla al partner maschile. La violenza economica conduce quindi all’atrofizzazione di tutte le sfere economiche, da cui la donna può trarre la propria autonomia: il diritto al lavoro ed alla proprietà, intesa come alla gestione e godimento dei beni suoi e della famiglia; in altri termini, conduce a limitazioni nel godimento di denaro o altri beni lesive della dignità.

Da questa sommaria disamina, emerge allora che è la società a produrre la principale leva per l’esercizio della violenza economica, ovvero la dipendenza della donna dall’uomo su un piano economico. La violenza economica deve essere quindi inquadrata come una velenosa, insidiosa e infestante conseguenza della mancata attuazione dei diritti della parte femminile della società, laddove la Costituzione come noto prevede parità di diritti tra uomo e donna dinanzi alla legge (art. 3, primo comma), nella famiglia (art. 29, 30, 31), nel mondo del lavoro (art. 37) e nelle istituzioni (art. 51 e 117, VII comma).

Da un certo punto di vista, allora, il legame della violenza economica con la mancata attuazione dei diritti al lavoro, alla proprietà ed alla parità in famiglia è ancora più evidente rispetto alla violenza sessuale, piscologica o fisica. La subalternità della donna nella società e nella famiglia, causa strutturale della violenza economica, si manifesta infatti materialmente con comportamenti violenti su un piano fisico o psicologico, direttamente lesivi dell’autonomia che la donna esercita grazie all’uso di disponibilità economiche e altri beni materiali. Proprio per il suo fine, di creare dipendenza, si muove dunque su due dorsali: insidia la vita lavorativa della donna ed ha la sua sede privilegiata nella famiglia.

L’insistenza sullo spettro patrimoniale della vita della donna, in modo trasversale alla realizzazione nel lavoro e nella famiglia, consente di mettere a sistema una forma di violenza altrimenti sfuggente e certamente non assorbita nella violenza fisica o sessuale, ma nemmeno psicologica, sebbene in tutte queste ipotesi le condotte violente siano accomunate dall’effetto finale della lesione della dignità della donna e della creazione di uno stato di soggezione e dipendenza permanente dall’uomo, con annientamento della personalità, dei gusti, dei desideri della vittima e di una sua sfera di autonomia. Per questo, la violenza economica è specchio fedele, nell’ambito della gestione patrimoniale, di quello che accade nelle ipotesi di violenza sessuale, fisica o psicologica, ma ha una sua tipicità che merita di essere valorizzata.

Ecco alcuni esempi di violenza economica che meritano di essere riconosciuti nella sua specificità: dissuadere la donna dal lavorare, per poi giungere a chiedere il controllo del bancomat e della carta di credito ed impedirle in modo sistematico di godere dei beni della famiglia (es. auto; casa); a questo ultimo proposito, si pensi alla donna che non può invitare nella casa familiare soggetti a cui è legata affettivamente, neppure quando il marito non è presente. Non si tratta certo di ipotesi minoritarie: come segnalato nel Rapporto Ombra della rete D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) inviato alla Commissione GREVIO, dal monitoraggio dei Centri della Regione Emilia-Romagna risulta che il 41,5% delle donne che si rivolgono ai Centri subisce violenza economica (dati 2016, su 2.555 donne accolte).

La chiara previsione di questa forma di violenza da parte della Convenzione di Istanbul è dunque preziosa, perché questo elemento di contesto esterno, oggi vincolante per l’Italia per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.[13], di innervare il genus della violenza di genere di fattispecie connotate dall’insistenza della violenza sul lavoro della donna e sulla sua (non) gestione di beni (pensiamo alla casa o all’auto) e denaro, che diversamente rischierebbero di annacquarsi nella percezione di tali comportamenti come ‘indifferenti’ o conflittuali e non violenti. La giurisprudenza è peraltro già da tempo giunta, per mezzo di un fondamentale arresto delle Sezioni Unite del 2016 – sia pure in riferimento alla idoneità dei reati commessi con minaccia a integrare la categoria delle fattispecie penalmente rilevanti per cui è chiesta la notifica alla persona offesa dell’avviso di archiviazione, di cui all’art.408, comma 3 bis, c.p.p. -, a riconoscere come vincolante la nozione di violenza di genere accolta dalla Convenzione di Istanbul per l’Italia (cui è affianca la Direttiva 2012/29/UE, la quale accoglie, nei considerando nn. 17 e 18, una definizione molto simile), tanto da richiedere, laddove possibile, un’interpretazione conforme a tale atto di diritto internazionale[14]. Questo arresto giurisprudenziale è stato da taluno ritenuto il primo passo per l’emancipazione della violenza economica dalle altre forme di violenza, tanto che sarebbe possibile contestare, all’interno del reato di maltrattamenti in famiglia, a prescindere dalla violenza fiscia, la condotta con cui l’uomo accentri su di sé la gestione economica della famiglia, privandola delle risorse minime e minacciandola di mali ingiusti nel caso in cui non soggiaccia alla richiesta di cedere conto corrente ed altri beni, nonché svilendola nella sua capacità di amministrare beni e denaro[15].

L’accento posto dalla categoria della violenza economica, peraltro, è tutt’altro che ideologico, bensì pragmatico, perché certe condotte, prima esulanti dal tema o neutre, ora sono valutate con la dovuta attenzione se finalizzate allo scopo di isolare e umiliare la donna.

Non si tratta solo di favorire l’acquisizione di consapevolezza dello spettro economico della violenza di genere. Vi è un altro ordine di motivi fondamentale per cui è importante metterla a fuoco. Come un gatto che si morde la coda, per la donna caduta nella rete della violenza domestica, perpetrata anche mediante la leva economica, è più difficile uscirne, per ragioni legate alla sua subalternità economica al partner e alla sua precarietà in ambito lavorativo (es. contratto a tempo determinato o lavoro nero), che la conduce sia a dipendere dal reddito familiare, sia ad un maggior isolamento sociale, che la rende più vulnerabile e sfiduciata.

Più la violenza fisica e sessuale, financo psicologica, fanno male, più è probabile che la vittima trovi la forza di reagire. Più la violenza economica è forte, invece, minori sono le probabilità di una reazione della donna. Una nota della Regione Lombardia ha posto plasticamente in rilievo (per un periodo precedente all’emergenza sanitaria) che gli ostacoli che di fatto incontra la donna nell’uscita da un rapporto di violenza: il titolo di studio delle donne rivoltesi a centri lombardi è medio-basso nell’80% dei casi ed il 40% di loro sono disoccupate[16].

Ovviamente, non è solo economica la causa per cui la donna fatica ad uscire dalla violenza domestica. Molto pervasive sono le difficoltà connesse alla sua stessa condizione di donna presunta ‘vittima’, che spesso provoca un giudizio negativo da parte della famiglia e della società, proprio per la facile caduta in visioni culturali o stereotipi di genere nemici del percorso di affrancamento dall’uomo maltrattante, mediante acquisizione o riacquisizione dell’autonomia, anche economica (c.d. vittimizzazione secondaria o ‘victim blaming’[17]). Tale fenomeno non solo è oggi ancora prepotentemente presente nelle relazioni familiari e sociali, ma trova anche spazio negli interventi degli operatori dei servizi sociali, nelle aule di giustizia per opera dei giudici e dei consulenti tecnici d’ufficio, come notato ancora una volta dalla Commissione GREVIO nel suo report relativo all’Italia[18]. Tutte esperienze, queste, che, frustrandola, frenano o arrestano la donna nel percorso di uscita dalla violenza, in modo ancora più netto e duro quando ci sono dei figli e dunque la prospettiva della donna contempla nel suo panorama le ripercussioni dell’interruzione del rapporto violento sulla stabilità della rete sociale delle relazioni del minore, spesso costretto a cambiare casa, ed economico.

  1. Alcune cause della opacità della violenza economica in prospettiva giuridico-costituzionale

Ma allora perché di violenza economica si parla così poco e da così poco tempo?

Su un piano culturale, abbiamo visto come i processi siano lunghi e tortuosi.

È ben vero che la Costituzione, all’art. 3, secondo comma, autorizza a ricorrere alla più forte ‘medicina’ per sradicare le discriminazioni di genere, che rendono così frequente il fattore di rischio della violenza economica: ovvero il principio di eguaglianza in senso sostanziale, per cui la Repubblica può spingersi sino ad introdurre anche in via legislativa azioni positive, attribuendo specifici vantaggi, anche economici, ai gruppi posti in posizione di subalternità mediante un aiuto mirato ed esclusivo, così da rimuovere fattori di arretramento dei punti di partenza non altrimenti superabili[19]. Gli approdi costituzionali rappresentano dunque non solo l’argine, ma anche l’arma che può sconfiggere la violenza contro le donne.

Occorre però evidenziare che l’attuazione del disegno costituzionale è stata particolarmente lenta: basti pensare appunto alla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e dunque alla parità nella famiglia, simboleggiata dal protrarsi di un diritto di famiglia oltraggioso per la parità dei coniugi[20], fino alla importante ma tardiva riforma del diritto di famiglia, avvenuta solo nel 1975 (con la legge n. 151), che ha formalmente equiparato moglie e marito anche nella gestione economico-patrimoniale della famiglia e riconosciuto valore al lavoro casalingo (art. 30).

La vicinanza nel tempo del modello di famiglia, sancito legislativamente, in cui la donna è espropriata della capacità di amministrare persino i beni appartenenti alla sua dote, deve ancora smaltire i suoi strascichi, avendo determinato la sopravvivenza di stereotipi oltremodo insidiosi.

In questo senso, la lentezza dell’evoluzione normativa, anche in ambito penale, può avere avuto un peso specifico non indifferente. Pensiamo che solo nel 1981 sono stati abrogati i c.d. crimini d’onore, tra cui il matrimonio riparatore; è significativo che nel dibattito di quegli anni esso fosse additato come un elemento problematico da un lato, per la centralità della salvaguardia morale pubblica nel suo spettro scriminante, ma, dall’altro, salutato con favore perché lasciapassare che avrebbe consentito alla donna vittima dello stupro di rimanere all’interno della società. Ciò, evidentemente, anche per motivi economici, essendo impensabile allora che una donna vittima di tale condotta potesse trovare un lavoro e provvedere a sé stessa, tenuto conto sia della condizione femminile nel mondo del lavoro in generale, sia dello stigma sociale che le avrebbe in molti casi impedito di raggiungere il traguardo dell’indipendenza economica[21].

D’altra parte, anche il quadro normativo tutt’oggi in vigore pone alcuni problemi, ovviamente minori.

Si condurrà dunque qualche riflessione su un istituto specifico, rappresentativo di un passato non del tutto superato o comunque recente, oggetto dello scrutinio della Corte costituzionale. Ci si sta riferendo alla scriminante dell’art. 649 c.p. (Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti), per cui i delitti contro al patrimonio (di cui al Libro II, Titolo XIII del codice), non sono punibili se commessi a danno dei coniugi non legalmente separati, di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell’adottante o dell’adottato, di un fratello o di una sorella che con lui convivano. Se la donna viene privata del suo stipendio dal partner maschile, che se ne impadronisce, la scriminante non opera qualora il reato sia commesso con violenza (comma III dell’art. 649 c.p.). Su questa norma si è pronunciata la Corte costituzionale nel 2015, con la sent. n. 223, a partire da un caso di truffa da parte del marito nei confronti della moglie[22], in cui ha dichiarato la questione inammissibile per discrezionalità legislativa, sebbene abbia ravvisato una manifesta irragionevolezza nella norma, frutto di un vero e proprio ‘anacronismo legislativo’ a cui solo il legislatore avrebbe potuto mettere fine. Non solo, però, il legislatore (come in molti altri casi) non ha dato seguito al monito della Corte: ma nel 2016 la scriminante è addirittura stata estesa al partner dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Ciò significa che all’interno del matrimonio condotte di violenza economica, già difficili da comprendere all’interno del reato dei maltrattamenti in famiglia, troppo generico per catturare forme di controllo imposto sul reddito e sui beni della famiglia, potrebbero risultare, in quanto rilevanti come semplici reati contro il matrimonio protette da una norma originariamente introdotta nel codice Rocco per salvaguardare l’unità familiare e non gravare sulle autorità inquirenti laddove il patrimonio dei due coniugi si unisce di fatto, ‘per confusione’, ma certo non la dignità della donna e le sue libertà.

Oltre alla lentezza dell’adeguamento legislativo al dettato costituzionale, sul banco degli imputati siede anche la innata resistenza della famiglia, intesa, per usare le parole dell’art. 29 Cost., come ‘società naturale’, da ingerenze dello stato. La scarsa permeabilità della famiglia rispetto ai precetti giuridici e alle decisioni emesse in via giudiziale ha indubbiamente nutrito una certa concezione del ruolo femminile nella società, come prevalentemente dedito alla cura e rivolto all’interno delle mura domestiche e non idoneo, venendo al tema della violenza economica, alla gestione del denaro[23].

Un riparo assai saldo di questa ritrosia della famiglia ad aprirsi ad una gestione paritaria delle risorse economiche non può non essere visto nelle condizioni del welfare state: adeguatamente improntato alla conciliazione dei tempi di lavoro e della famiglia, sino ad oggi penalizzante per il genere femminile, frenato nell’accesso e permanenza nel mercato del lavoro proprio dalle incombenze di cura domestica[24].

A livello simbolico, inoltre, il maggior radicamento degli stereotipi di genere, in un ambito, quello patrimoniale, slegato dai diritti personalissimi, come la libertà del corpo e della sfera sessuale, o rispetto alla educazione dei figli, può essere giustificato anche da ciò: il prisma del patrimonio rende meno ad occhi miopi contundenti e lesive, nel breve, medio e lungo periodo, le conseguenze della violenza. Tuttavia, non si tratta di diritti di ‘serie b’ o di condizioni dove la parità è meno importante o conseguenziale ad una parità morale. Spesso le due sfere, patrimoniale e morale, sono invece legate tra loro, o comunque rese strumentali ad una violenza psicologica quanto mai umiliante e paralizzante verso la donna. Anzi, più della violenza fisica e sessuale, e forse anche di quella psicologica, la violenza economica ha una valenza diacronica marcata, proiettando la sua ombra sull’uscita della donna dalla relazione violenta e dunque sul recupero di tutti i suoi diritti e la sua dignità, sia nel presente, che nel futuro, essendo i beni materiali l’oggetto delle azioni svilenti e di dominio.

Allo stesso tempo, la trasversalità del fenomeno della violenza di genere a tutte le classi sociali ha probabilmente indotto a stemperare la micidiale arma del ricatto economico, quasi a voler sottolineare come, a prescindere dalla cospicuità delle risorse finanziarie a disposizione, la donna sia lesa dalla violenza. Se ciò è indubbiamente vero, è anche vero che famiglie abbienti possono vedere la donna stretta nella morsa dell’imposizione di rinunciare al lavoro e dover rendere conto delle spese fatte per la famiglia.

  1. Il ruolo del diritto penale: da protagonista a co-protagonista

Arrivando al ruolo dello strumento punitivo, occorre arrendersi alla constatazione che, proprio per il radicamento culturale del fenomeno, il diritto penale fatica a svolgere la sua funzione general-preventiva, perché l’azione violenta, specie se perpetrata su un piano economico, viene ancora percepita come adeguata e ‘normale’ da chi la pone in essere.

Allo stesso tempo, dato il modo in cui la violenza viene solitamente realizzata, con fasi di rappacificazione e recrudescenza sempre più vicine e efferate, che portano ad una escalation della violenza fino all’atto più efferato, la donna non di rado è confusa, non percepisce la sua condizione di vittima in modo adeguato, indotta a ritardare la querela, a revocarla o ad attenuarne il contenuto. Una volta che la consapevolezza di subire violenza c’è, la decisione di interrompere la relazione violenta può inoltre scontrarsi inoltre con ostacoli percepiti come particolarmente densi e complessi, come il rischio di danneggiare i figli, perderne l’affidamento o la dipendenza economica. Ecco perché la querela spesso arriva quando le aggressioni sessuali, fisiche, psicologiche o economiche sono già ad uno stadio avanzato.

Pertanto, il diritto penale vede la sua funzione repressiva scalfita, o se interviene lo fa troppo tardi, non tutelando la sicurezza sociale e meno che meno della vittima. Peraltro, anche abbracciando una concezione vittimocentrica del processo penale, non è l’irrogazione pena ciò di cui la vittima ha bisogno.

Allo stesso tempo, il fatto che la violenza di genere rientri in paradigmi accettati culturalmente rende la rieducazione mediante pena ancora più difficile. Non è questa la sede per soffermarsi sui limiti della pena detentiva per percorsi rieducativi di questo tipo, ma ci si limita a segnalare l’importanza di diffondere progetti di trattamento per uomini maltrattanti detenuti, che diano un senso alla pena intramuraria[25].

Sono in vigore oramai da qualche anno, per la verità, norme con cui il legislatore ha cercato di mettere il processo penale in asse anche con le esigenze della vittima, anziché esclusivamente dell’accertamento della responsabilità penale nel rispetto del diritto di difesa, sull’onda della Direttiva n. 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, attuata dal d. lgs. n. 212 del 2015, e ridurre le occasioni di vittimizzazione secondaria. Come noto, la donna è vittima una ‘seconda volta’, a causa del trattamento subito dai soggetti a cui si rivolge per trovare aiuto, che la giudicano in modo negativo per ciò che ha subito (l’adagio più rappresentativo è: ‘se la è andata a cercare’; oppure, si invita la donna a risolvere il problema con una bonaria rappacificazione) o le richiedono comportamenti che la portano a rivivere continuamente l’esperienza subita, sebbene non strettamente necessario ai fini dell’accertamento dei fatti. La normativa in discorso ha come noto introdotto la condizione di particolare vulnerabilità della vittima (art. 90-quater c.p.p.), quale presupposto dell’applicazione delle norme processuali a sua specifica tutela (come, in particolare, l’audizione protetta, la riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni della persona offesa anche al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità o la disposizione di misure per evitare contatti con la persona sottoposta a indagini). Ebbene, essa indica anche la dipendenza economica della vittima dalla persona sottoposta a indagini o dall’autore del reato, come fattore cui il giudice deve per definirne tale status (oltre alla dipendenza affettiva o psicologica).

Tuttavia, i principi costituzionali supremi, ineludibili ed irrinunciabili, connessi con il giusto processo, il diritto di difesa e la presunzione di innocenza, rendono dunque il procedimento penale un binario ovviamente allineato al traguardo della ricerca del colpevole e dell’accertamento della sua responsabilità penale, con conseguente irrogazione della pena[26], ma disallineato rispetto all’obiettivo della tutela della vittima di violenza di genere (rectius: delle vittime, tra cui ovviamente anche i minori che assistono alla violenza), la cui primaria esigenza non è la condanna dell’autore della violenza, ma la erogazione tempestiva di una protezione nel percorso di uscita e affrancamento dal partner e padre violento[27].

A tale disallineamento teorico si assomma un disallineamento pratico, dovuto a problemi di natura organizzativa, per carenza di organico, di risorse, e di personale specializzato (che a partire dal c.d. ‘codice rosso’[28], in modo particolare, sono stati in parte affrontati dal legislatore, ma sussistono in via di fatto). Non solo, vi è anche una carenza culturale, per cui l’assenza di specializzazione tra avvocati, magistrati e forze dell’ordine, porta al fenomeno citato sopra della vittimizzazione secondaria.

Non si intende in questa sede sminuire l’importanza della pena, quale presidio dei rilevantissimi beni giuridici lesi dai reati di violenza di genere: la vita, la dignità, la libertà fisica e sessuale, l’incolumità individuale, la salute fisica e psicologica e via dicendo, sia della donna che dei minori che assistono agli episodi violenti[29]. Essa è fondamentale anche per proteggere la collettività[30] ed orientare su un piano culturale l’adeguamento al rispetto dei diritti della donna e dei figli.

Tuttavia, a livello generale si deve prendere atto che, accanto al diritto penale, l’attuazione di strumenti educativi, sensibilizzazione e, più in generale, azioni positive a tutela delle parità opportunità (come la conciliazione dei tempi di cura e di lavoro), per prevenire quei fattori di rischio che rendono la donna più facilmente assoggettabile all’agire violento, e poi, quando la relazione violenta si è innestata, politiche sociali ed economiche di sostegno alla donna e agli eventuali figli e loro re-immissione nel tessuto sociale, scolastico e lavorativo, sono essenziali per chiudere alla fonte il nutrimento della violenza.

Essi consentono di prevenire fattori di rischio per la donna, come la sua fragilità su un piano economico; di sorreggere e proteggere in modo effettivo la donna nel percorso di uscita dalla relazione violenta, cercando di emanciparla dal ricatto del disagio economico che la donna stessa o i figli patiranno; da ultimo, di mantenere e consolidare l’interruzione della relazione violenta. Un esempio che abbraccia tutte e tre queste categorie, se avviciniamo lo sguardo alla violenza economica, può essere proprio l’educazione finanziaria, con cui le donne che subiscono violenza economica possono essere rese indipendenti nella gestione del reddito da esse conseguito[31].

Si è consapevoli della banalità di questa constatazione, ma allo stesso tempo, dato l’incerto incedere di misure di questo tipo nel panorama normativo e delle politiche sociali, si ritiene opportuno sottolineare che questo approccio è imposto dal quadro costituzionale, che richiede l’attuazione di una effettiva parità.

Non è un caso che, acquisita, anche da esperienze diverse da quella europea[32], la consapevolezza del generalizzato appiattimento del diritto sulla cultura, apparentemente inscalfibile quando c’è in gioco la parità di genere, la Convenzione di Istanbul si connoti per la strutturazione delle strategie di contrasto alla violenza di genere nelle c.d. 4 p: Prevenzione, Persecuzione, Protezione, Politiche integrate, laddove il diritto penale di cui alla seconda ‘p’ deve senz’altro ridimensionare le aspettative di panacea di tutti i mali.

Fermo restando dunque che la vetta è già indicata inequivocabilmente dalla Costituzione, l’elemento di contesto esterno della Convenzione di Istanbul mette a fuoco che il cammino culturale dei diritti è certamente il più lungo ed accidentato. Fortunatamente, la Convenzione di Istanbul non solo punta sugli strumenti di prevenzione mediante un cambiamento culturale, ma ha anche messo a fuoco l’importanza dello strumento educativo e della sensibilizzazione, con due articoli esplicitamente dedicati a questi importanti momenti per l’attuazione della parità di genere, il 13 e il 14, a cui gli stati membri dovrebbero essere vincolati[33]. Sebbene ancora oggi manchino programmi educativi scolastici soddisfacenti[34], dunque, è questa la via per sconfiggere il fenomeno nel lungo periodo.

Oltre a questi importanti strumenti, però, la parità non sarebbe praticabile in assenza di un welfare state, oggi mancante, che renda la conciliazione tra lavoro e famiglia realmente praticabile alle donne e agli uomini, disincentivando scelte forzate delle donne di abbandonare il lavoro o ridurne quantità e rinunciare agli avanzamenti in carriera, è essenziale per rendere il cambiamento culturale possibile[35].

  1. Esempi virtuosi e qualche interrogativo

 Posto che nel lungo periodo la prevenzione mediante educazione, sensibilizzazione e welfare state per una parità realmente praticabile sono fondamentali, può essere interessante chiudere queste riflessioni con un’analisi delle norme in vigore oggi a sostegno di una sorta di prevenzione speciale, ovvero rivolte a far sì che la vittima di violenza domestica riesca ad uscirne e a non ricadervi, proprio per ragioni economiche.

Anche qui, la condanna del partner maltrattante è totalmente ininfluente. Ciò che serve è invece la presenza di strumenti per l’orientamento al lavoro, il reinserimento nel mondo del lavoro, la autonomia abitativa ed economica, che consenta alla madre di far fronte ai bisogni anche educativi degli eventuali figli minori, fin tanto che la donna non riesca a diventare o tornare autonoma.

La misura più nota oggi, volta a favorire l’inizio di un percorso che possa rendere la vittima indipendente, è il ‘reddito di libertà’, istituito con l’art. 105 bis del d.l. n. 34 del 2020 mediante lo stanziamento di 3 milioni di euro in un preesistente fondo ed effettivamente disciplinato, nei suoi criteri d’accesso, dal D.p.c.m. del 17 dicembre 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 luglio 2021. Il reddito di libertà è sorto, sull’onda dei devastanti effetti economici della pandemia sulla condizione delle donne in condizione di maggiore vulnerabilità, al fine di favorire percorsi di autonomia ed emancipazione della donna vittima di violenza che si trova in una situazione di povertà. Il reddito consiste nell’erogazione di 400 euro mensili per 12 mensilità a vittime di violenza che autocertifichino di avere intrapreso il percorso di emancipazione ed autonomia presso un centro antiviolenza riconosciuto dalle regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Occorre pertanto che la donna alleghi una dichiarazione firmata dal rappresentante legale del Centro antiviolenza di presa in carico ed un’attestazione di sussistenza dello stato di bisogno da parte dei servizi sociali. La misura è cumulabile col reddito di cittadinanza ed altri sussidi economici[36]. Al di là della bontà del sussidio nel breve periodo, non si può non segnalare come il fondo stanziato sia troppo esiguo, sia rispetto alle esigenze della singola donna e dei minori, potendo solo contribuire all’autonomia economica, sia rispetto al numero di vittime che ne potrebbero beneficiare, molto maggiore rispetto all’entità dello stanziamento.

Altra misura interessante, atta a favorire invece l’inserimento o il reinserimento nel mondo lavorativo della donna, è l’esonero contributivo per le cooperative sociali che abbiano assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato nel corso del 2021 donne vittime di violenza di genere inserite in percorsi certificati dai servizi sociali del Comune di residenza oppure dai centri antiviolenza, o dalle case rifugio, disciplinate dall’art. 5-bis del d.l. n. 93 del 14 2013, convertito in l. n. 119 del 2013. Tale misura, introdotta in origine dall’articolo 1, comma 220, della legge di bilancio 2018 (l. n. 205 del 2017), per le assunzioni avvenute nell’anno 2018, è stata rinnovata per l’anno 2021 dall’art. 12, comma 16-bis, del d.l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 176 del 2020. Anche qui, da notare che possono essere accolte, in base all’ordine cronologico di presentazione, le istanze presentate all’interno di un tetto di spesa piuttosto esiguo, ovvero 1 milione di euro annui, e che l’esonero può operare per un massimo di 12 mesi (nella previsione originaria, riguardante le assunzioni nel 2018, l’esonero poteva protrarsi per 3 anni nel limite di spesa di 1 milione di euro annui, dal 2018 al 2020) [37].

Si segnala un’ultima misura significativa, sebbene la sua utilità in concreto sia tutta da verificare: ci si riferisce all’accesso automatico, ovvero a prescindere da limiti di reddito, al patrocinio a spese dello Stato per i reati di cui agli artt. 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis c.p., nonché, ove commessi in danno di minori, di quelli di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies c.p. Tale estensione dell’istituto, al di là delle condizioni economiche del soggetto che ha sporto denuncia, è stata prevista dall’art. 76, comma 4-ter, d.P.R. n. 115 del 2002 e si pone in rapporto di parziale attuazione con l’art. 57 della Convenzione di Istanbul[38]. Lo scopo di questa misura può essere certamente quello di sostenere la scelta di denuncia della donna ancor prima che sia effettuata, eliminando alla radice preoccupazioni derivanti dalla necessità di dover affrontare spese legali, che costituiscono un onere eccessivo per la persona che subisce questi reati e le sottraggano risorse, con ripercussioni negative sulle necessità di provvedere agli eventuali figli. A tale scopo, si aggiunge quello di sostenerla mediante l’assistenza di un professionista che le permetta di partecipare con l’adeguato supporto tecnico al processo[39].

Sul punto, occorre citare la pronuncia costituzionale, apparentemente lineare, con cui il giudice delle leggi ha affermato che la scelta legislativa si inserisce in un percorso volto a dare “grande spazio a provvedimenti e misure tesi a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori. Di qui la volontà di approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti”. In questa ottica, per la Corte l’automatismo del gratuito patrocinio rientra nella discrezionalità del legislatore, non sindacabile in sede di scrutinio di costituzionalità se non nei casi di manifesta irragionevolezza, non sussistenti nel caso di specie, essendo la norma sorretta da una precisa ratio, da ricondurre alla “scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità”. Da notare che per la Corte costituzionale la regola base di questo assunto non risiede in una presunzione di scarsa abbienza delle vittime di questi reati, ma nella loro vulnerabilità. Se così stanno le cose, allora, l’assenza di spese per la difesa conduce ad una sorta di incoraggiamento da parte dello stato alla vittima di reati particolarmente brutali, che si risolve a percorrere la via della denuncia, in quanto consapevole che, in seconda battuta, potrà farsi assistere gratuitamente nel giudizio di accertamento della verità dei fatti e della responsabilità del soggetto violento, senza remore di natura economica[40].

In conclusione, l’assenza di limiti di reddito della persona offesa può suscitare qualche perplessità, perché lo strumento di natura economica non pare collimare con ostacoli di ordine economico. Ma è proprio questo il punto: sono altri gli ostacoli cui vuol fare fronte, di ordine non necessariamente economico, ma personale o sociale, che rendono oltremodo difficile per la donna affrontare, dopo la denuncia, il processo penale. La misura in questione, in disparte la effettiva attuazione del gratuito patrocinio, costituisce una di quelle misure che la Costituzione richiede alla Repubblica di promuovere, in ossequio al principio di eguaglianza in senso sostanziale. Ovviamente, peraltro, ciò non toglie che, alla luce di quanto si è affermato, la misura stessa possa essere funzionale e ben si presti a far fronte ad ostacoli anche di natura economica[41].

Sembrano piuttosto altre le obiezioni. La prima, che l’istituto sia irrazionalmente limitato ad alcuni reati, quando la medesima fragilità può verificarsi in molti altri casi, rendendo l’elenco delle fattispecie penalmente rilevanti a cui è associato arbitrario. La seconda: data la necessità di superare la visione ‘penale centrica’ del contrasto alla violenza di genere, è importante allargare lo sguardo ai costi della difesa nei procedimenti giudiziari in ambito di diritto di famiglia (es. separazioni) o concernenti provvedimenti di affido dei minori (es. affidi), in cui è accertata violenza domestica. Anche in questo caso, la vittima dovrebbe beneficiare di una analoga elisione dei costi dell’assistenza legale, come affermato anche nel rapporto della Commissione GREVIO riguardante l’Italia, citato all’inizio del lavoro (§§ 251 e 252).

Queste rapsodiche riflessioni sulle misure esistenti, in qualche misura incidenti sulla violenza economica, mettono in realtà il rilievo l’assenza di una strategia capace di far fronte alla emersione e contrasto di questo fenomeno, che tanto pesa sulla persistenza di casi sommersi di violenza di genere.

Chiudendo il cerchio, torna dunque alla luce l’esigenza di una visione diversa del fenomeno, rispetto alla quale l’approccio del diritto costituzionale, incentrato sulla necessità non tanto di un ennesimo ricorso allo spettro della pena, ma di leggi in ambito di diritto di famiglia, diritto civile e riti processuali collegati, di politiche sociali attente alla intersezionalità della fragilità economica con quella legata al genere, e di un welfare state rivolti all’attuazione dei diritti del genere femminile e della parità di genere, porti a recidere alla radice, in via di prevenzione generale, il rischio di dipendenza economica della componente femminile della coppia.

*Associata in Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano, avvocata del Foro di Milano, componente dell’Osservatorio Corte costituzionale dell’UCPI, coordinatrice dell’area costituzionale di questa rivista.

[1] Sul punto, v. per tutti M. D’Amico, Una parità Ambigua. Costituzione e diritti delle donne, Milano, 2020.

[2] V. in tema D. Gottardi – M. Peruzzi (a cura di), Differenziali retributivi di genere e contrattazione collettiva, Torino, 2017, e M.L. Vallauri – A. Tonarelli, Povertà femminile e diritto delle donne al lavoro, in Lavoro e Diritto, 2019, 173 ss.

[3] GREVIO/Inf(2019)18, Rapporto di Valutazione (di Base) del GREVIO sulle misure legislative e di altra natura da adottare per dare efficacia alle disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, adottato il 15 novembre 2019 pubblicato il 13 gennaio 2020, reperibile in italiano al seguente indirizzo: http://www.pariopportunita.gov.it/wp-content/uploads/2020/06/Grevio-revisione-last-08-06-2020.pdf (ultimo accesso, 20 novembre 2021).

Ancora, come osservato nel rapporto ombra della rete D.i.RE. (Donne in Rete contro la violenza), presentato alla commissione GREVIO in vista della stesura del report, ai sensi dell’art. 68, §5, della Convenzione di Istanbul, nel 2019, “L’Italia in Europa si piazza al quinto posto per divario del 2,7% del rischio di indigenza a sfavore del sesso femminile; la discriminazione in base al sesso, in Italia, resta ancora altissima, in quanto le donne non hanno lo stesso accesso alle risorse (dal credito, ai diritti di eredità, a lavori stabili) degli uomini, i loro stipendi sono mediamente più bassi e per molte di loro il lavoro non viene retribuito per nulla o devono lavorare in nero, senza alcuna forma di assicurazione o protezione sociale. Gli ultimi dati ISTAT riportano che nel 2016 le donne in povertà assoluta in Italia sono risultate essere circa 2 milioni e mezzo (il 7,9% dell’intera popolazione femminile), e sono soprattutto le madri a dover vivere in uno stato di povertà assoluta (un bambino su otto, infatti, si trova a vivere nella più totale indigenza)”.

[4] Istat, Settembre 2021 – OCCUPATI E DISOCCUPATI. Dati provvisori, 3 novembre, 2021, p. 3, in https://www.istat.it/it/files//2021/11/CS_Occupati-e-disoccupati_SETTEMBRE_2021.pdf (ultimo accesso 20 novembre 2021).

[5] Banca d’Italia, Relazione annuale, Roma, 31 maggio 2021.

[6] Si tratta della teoria proposta da a Kimberlé Crenshaw, su cui v. di recente, in riferimento al dibattito italiano, B. Bello, Intersezionalità. Teorie e pratiche tra diritto e società, Milano, 2020; per una contestualizzazione nella pandemia, v. A. Lorenzetti, Genere e condizioni di vulnerabilità nell’emergenza: l’inesorabile emersione di una doppia marginalità, in M. D’Amico – E. Catelani (a cura di), Effetto Covid. Donne: la doppia discriminazione, Bologna, 2021, 57 ss.

[7] Cfr., in relazione alle donne detenute, vittime di violenza domestica, che hanno ucciso il compagno, C. Pecorella – L. Autiero – M. Citroni – M. Dova – M. Trapani, Invisibili, inascoltate e dimenticate: le donne vittime di violenza di fronte al diritto, in Altre modernità, 2019(10), 132-144.

[8] Pagine 6 e 7; il titolo della ricerca è “Digitalizzazione e consapevolezza finanziaria. L’impatto della diffusione degli strumenti e dei servizi digitali sulla consapevole gestione del denaro da parte degli italiani”.

[9] Cfr. M. Ruiz Garijo, La violenza economica. Il ruolo degli stati e delle imposte, in B. Pezzini – A. Lorenzetti, La violenza di genere dal Codice Rocco al Codice Rosso. Un itinerario di riflessione plurale attraverso la complessità del fenomeno, Torino, 2020, 146.

[10] Cfr. l’art. 3, lett. b).

[11] STCE 210 – La violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 11 maggio 2011, § 118.

[12] D. Lgs. 01/03/2018, n. 21 concernente Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103, il quale riproduce l’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970, in tema di divorzio.

[13] La suddetta Convenzione, come noto, è stata ratificata con la l. n. 77 del 2013.

[14] Cass., SS.UU., sent. 29 gennaio 2016 (dep. 16 marzo 2016), n. 10959, Pres. Canzio, Rel. Bianchi, sulla interpretazione dei reati, commessi con ‘violenza’, per cui è fatto obbligo di notificare alla persona offesa l’avviso di richiesta di archiviazione, ai sensi dell’art. 408, comma 3 bis, c.p.p. Le Sezioni Unite risolvono il contrasto giurisprudenziale in atto, facendo propria la nozione di ‘violenza’ di cui alla Convenzione di Istanbul: non solo la ‘violenza fisica’, dunque, bensì anche di ‘minaccia’, fanno scattare l’obbligo, tale da includere dunque anche l’avviso di richiesta di archiviazione per il reato di cui all’art. 612 bis c.p.

[15] Così v. M. C. Amoroso, La nozione di delitti commessi con violenza alla persona: il primo passo delle sezioni unite verso un lungo viaggio, in Cassazione Penale, fasc.10, 2016, 3714B ss.

[16] Nota informativa dell’Ufficio Studi, Analisi Leggi e Politiche regionali, Il contrasto alla violenza sulle donne: emergenza o urgenza?, luglio 2020, in https://www.consiglio.regione.lombardia.it/wps/wcm/connect/79f40fa1-a767-45ac-a801-d1b0c4d8d5e2/NI_33_ViolenzaDonne_lug2020.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=ROOTWORKSPACE-79f40fa1-a767-45ac-a801-d1b0c4d8d5e2-ndRXomn (ultimo accesso 26 novembre 2021).

[17] Cfr. in tema, ad es., A.C. Baldry, M. G. Pacilli, S. Pagliaro, She’s Not a Person… She’s Just a Woman! Infra-Humanization and Intimate Partner Violence, in Journal of Interpersonal Violence, 2015, Vol. 30(9), 1567 ss.

[18] V. la nota n.5, e spec. i §§ 67, 91 ss., 107, 135, 151, 161, 181, 186, 222, 224 del report.

[19] V. la sent. n. 163 del 1993, in cui la Corte costituzionale definisce le azioni positive come “il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate – fondamentalmente quelle riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel primo comma dello stesso art. 3 (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) – al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico”. Si trattava di una misura, in quel caso, volta ad attribuire contributi all’imprenditoria femminile.

In tema, v. da ultimo: A. Deffenu, Parità di genere e pubblici uffici nel dialogo tra giudice costituzionale e legislatore, in Osservatorio AIC, n. 5/2021 (5 ottobre 2021), 67 ss.; G. Sorrenti, “Viaggio ai confini dell’eguaglianza giuridica”. Limiti e punti di caduta delle tecniche di attuazione del divieto di distinzioni in base al sesso, in Rivista AIC, 2/2020 (8 giugno 2020), 468 ss.

[20] V. in tema A. Spadafora, Regime patrimoniale della famiglia e principio di eguaglianza, in Giur. cost., 1991, 127 ss.

[21] Noto l’editoriale, La ragazza di Alcamo, del 14.12.1966, sul Corriere della sera, in cui, nei giorni del processo per stupro di gruppo alla minorenne ribellatasi alla logica del matrimonio riparatore, Indro Montanelli scrive: “La posta in gioco è grossa e va al di là del caso e dei protagonisti…Franca Viola e suo padre non hanno detto no soltanto a Filippo Melodia. Hanno detto no a un sistema di rapporti basato sulla sopraffazione del maschio sulla femmina. Hanno detto no a tutti tabu e feticci che fanno da pilastro a queste arcaiche società”. Cfr., per gli argomenti a favore della scriminante, L. Ponzato, Franca Viola, il coraggio di dire no, in Corriere della sera.

[22] A quanto consta, in base alla decisione costituzionale, la responsabilità penale oggetto di accertamento da parte del giudice a quo non sembrava sfociare nella violenza economica qui in esame. Tuttavia, per escludere a pieno titolo una simile ipotesi, sarebbe necessario esaminare gli atti del giudizio medesimo, non essendo la ricostruzione in fatto del giudice delle leggi sufficiente per tirare le somme.

[23] Sul punto, si tornerà dopo. È del 1970 l’affermazione della Corte costituzionale (sent. n. 46), per cui “é da escludere che gli interventi autoritativi in ordine alla […] gestione [della famiglia] siano consentiti solo ai fini di assicurare l’unità del nucleo familiare, nel senso restrittivo con cui questa é intesa nelle ordinanze. Infatti la stessa Costituzione, al successivo art. 30, dispone che la legge può provvedere a che siano assolti i compiti di spettanza dei genitori nel caso di una loro incapacità ad adempierli, allontanando quindi, se necessario, i figli minori dalla famiglia”.

La sentenza dichiara infondata la questione di costituzionalità sollevata sull’art. 570 c.p. nella parte in cui prevede la perseguibilità d’ufficio del reato ivi punito (Violazione degli obblighi di assistenza familiare), in quanto in contrasto con l’autonomia della famiglia. L’autorità remittente (il pretore di Roma e di Torino) aveva invece affermato, in un’ottica opposta a quella poi adottata dalla Corte, che “i limiti che gli organi pubblici possono porre all’autonomia della famiglia sono soltanto quelli che si ricavano dallo stesso art. 29, cioè il rispetto del principio di eguaglianza dei coniugi e dell’altro dell’unità familiare” e che la perseguibilità d’ufficio del reato in questione poneva in essere un ‘eccessivo controllo’.

[24] V. F. Rosa, Work-life balance e pandemia, in M. D’Amico – E. Catelani (a cura di), Effetto Covid. La doppia discriminazione, Bologna, 2020, 117 ss.; S. Leone, L’emergenza sanitaria e l’impatto sul (già) difficile equilibrio tra sfera lavorativa e sfera privata, in BioLaw Journal. Rivista di Biodiritto, 3, 2020, 67 ss.

[25] V. in tema A. Pauncz, Il lavoro in gruppo con uomini autori di violenza in ambito domestico, in Minori giustizia, 2016, 98 ss.; A. C. Baldry – A. Rodontini, L’intervento terapeutico in ambito penitenziario: limiti e opportunità con detenuti sex offender, in Rassegna Italiana di Criminologia, 2018, 32-42; A. Frenza – C. Peroni – M. Poli, Protetti da chi? Posizionamento, genere e vulnerabilità nel lavoro trattamentale con i sex offenders in carcere, in La circuitazione dei detenuti: differenziazione, contrattazione e gestione degli spazi del penitenziario, 2017, 31-52.

[26] Sul ruolo del diritto penale in questo ambito v. in tema C. Pecorella, Violenza di genere e sistema penale, in Diritto penale e processo, 2019, 1181 ss.; F. Basile, Violenza sulle donne: modi, e limiti, dell’intervento penale, in Diritto penale contemporaneo, 2013, 1 ss.

[27] Cfr., sulle aspettative della vittima al momento della denuncia, anche con riferimento a casi specifici, C. Pecorella, P. Farina, La risposta penale alla violenza domestica: un’indagine sulla prassi del Tribunale di Milano in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), in Diritto penale contemporaneo, 10 aprile 2018, p. 3 ss.

[28] Su cui v. per tutti F. Basile, La tutela delle donne dalla violenza dell’uomo: dal Codice Rocco… al Codice Rosso, in DPU – Diritto Penale e Uomo, 2019, 78 ss.

[29] Sull’importante ruolo del diritto penale, v. C. Pecorella, Violenza di genere e sistema penale, in Diritto penale, 2019, 1181 ss.

[30] Come sottolinea C. Pecorella, Sicurezza vs libertà? La risposta penale alle violenze sulle donne nel difficile equilibrio tra istanze repressive e interessi della vittima, in Diritto penale contemporaneo, 2016, 3-4.

[31] Cfr. in tema, anche per alcuni esempi, C. Segre – S. Spagnolo, L’educazione finanziaria può essere uno strumento fondamentale per riconoscere i comportamenti violenti all’interno di una relazione e intraprendere un percorso di autodeterminazione, in In Genere, 24/01/2018.

[32] Ci si riferisce alla Convenzione interamericana sulla prevenzione, la repressione e l’eliminazione della violenza contro le donne (c.d. convenzione Belem do Parà), del 9 giugno 1994, che ha fortemente influenzato la genesi della Convenzione di Istanbul.

[33] Mette in rilievo l’importanza di investire sulla prevenzione, proprio a partire dalla Convenzione di Istanbul e con riguardo alla violenza economica, A. Merli, Violenza di genere e femminicidio, in Diritto penale contemporaneo, 2015, 19 ss.

[34] Nella direzione della legge 13 luglio 2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti, comunemente nota come “La Buona Scuola”), di cui v. in specie l’art. 1, comma 16, ed il relativo «Piano Nazionale per l’Educazione al Rispetto» del 2017.

[35] V. F. Rosa, Work-life balance e pandemia, in M. D’Amico – E. Catelani (a cura di), Effetto Covid. La doppia discriminazione, Bologna, 2020, 117 ss.

[36] Cfr. la circolare n. 166 del 2021 dell’INPS (8 novembre 2021).

[37] Cfr. la circolare INPS 10 settembre 2021, n. 133, vengono fornite indicazioni in merito alle lavoratrici per le quali spetta il beneficio, la misura dell’incentivo e i necessari adempimenti da parte dei datori di lavoro.

[38] Secondo cui “Le Parti garantiscono che le vittime abbiano diritto all’assistenza legale e al gratuito patrocinio alle condizioni previste dal diritto interno”.

[39] Cfr. M. Dova, Patrocinio a spese dell’Erario, a prescindere dalle condizioni di reddito, per le persone offese (tra l’altro) dai reati di violenza di genere: la Corte costituzionale ne ribadisce la ragionevolezza, in Sistema penale, 28 maggio 2021.

[40] Così v. C. Gerosa, Il patrocinio a spese dello Stato per le vittime vulnerabili: un istituto soltanto di diritto processuale? Osservazioni alla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2021, in Osservatorio AIC, 1/2021, 263 ss.

[41] Op. ult. Cit., ibidem.