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RIFLESSIONI IN TEMA DI COLLEGIALITÀ DELLE DECISIONI GIURISDIZIONALI E SISTEMA – DI MARIO GRIFFO

RIFLESSIONI IN TEMA DI COLLEGIALITÀ DELLE DECISIONI GIURISDIZIONALI E SISTEMA – DI MARIO GRIFFO

GRIFFO – RIFLESSIONI IN TEMA DI COLLEGIALITÀ.PDF

di Mario Griffo 

Ipotesi di riforma del processo di appello, con composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta di cui all’articolo 550 del codice di procedura penale. Alcune brevi riflessioni in tema di collegialità della decisione.

1.Il 13 marzo 2020 è stato presentato alla Camera dei Deputati il disegno di legge C. 24351, che racchiude la tanto discussa proposta di riforma della giustizia penale, promossa dal Ministro della giustizia Bonafede.

In tema di impugnazioni, il fulcro del progetto riformatore è contenuto nella direttiva di cui all’art. 7, comma 1, lett. f, ove si prevede «la competenza della corte di appello in composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta di cui all’articolo 550 del codice di procedura penale».

Si tratta di una scelta radicale.

Ove tale proposta dovesse essere approvata, infatti, per un numero assai elevato di reati si perderebbe il diritto ad essere giudicati nel merito da un giudice collegiale, sacrificando, così, sull’altare della efficienza processuale, la garanzia della collegialità.

Il tema sollecita adeguate riflessioni.

2. L’esperienza politica e la cultura giuridica hanno guidato il legislatore della fine degli anni ’90 verso la “monocraticità temperata” da bisogni di collegialità, scelta che solo superficialmente può definirsi di compromesso.

La difficoltà di reperire scritti recenti specificamente dedicati alla collegialità – in materia di procedura penale – non è frutto di disattenzione della dottrina processual-penalistica, ma il risultato di una acritica convergenza di base su concetto, funzione e struttura della collegialità nel momento definitivo del giudizio penale.

Questa condivisione, però, se da un punto di vista effettuale rasserena, almeno quanto alla dichiarata funzione di garanzia del collegio, per altro aspetto alimenta il dibattito sulla tenuta della collegialità come momento di effettiva manifestazione della volontà comune (cd. collegialità apparente) e, di conseguenza, sulla individuazione dei correttivi idonei a correggere le cadute patologiche della condivisione di responsabilità nel e per il giudizio (ad esempio: nel processo scritto la presenza del relatore) o a rispettare le esigenze di distinguo fisiologico della autonomia del singolo (ad esempio: nel caso di dissenting opinion).

Per la stessa ragione, pure quando si è esaltato il bisogno di collegialità, l’attenzione è stata rivolta più alle esigenze di resistenza rispetto alla progettata “rivoluzione” o ai profili di organizzazione delle attribuzioni al giudice monocratico e/o collegiale, che all’attuale problematicità dei fattori strutturali e organizzativi del giudizio collegiale.

3. In questo panorama, ed ai fini del dibattito odierno, risulta, dunque, utile punto di partenza, non tanto il profilo strutturale-compositivo del giudice, quanto il versante funzionale e operativo della collegialità e la sua effettiva realtà all’interno di un corpo di giudicanti, talvolta di differente qualificazione professionale. Penso alle Corti di Assise, la cui ibrida costituzione ed il cui precario equilibrio interno appaiono lontani dalla volontà costituzionale della partecipazione del popolo alla Giustizia; penso alla Corte di Assise come emblema di distinzione – e di lontananza – della nostra esperienza giuridica e giudiziaria rispetto a quei paesi che “godono”, invece, della Giuria e quindi della distinzione funzionale tra giudice della legalità (il giudice togato) e giudice del fatto il giudice laico).

Secondo un approccio molto diffuso, il concetto di collegialità viene in rilievo nella classificazione degli organi giudicanti, contrapponendosi, in base alla loro composizione, organi individuali e collegiali «a seconda che l’esercizio della funzione sia demandato a un’unica persona fisica ovvero a un collegio, vale a dire a un corpo costituito da una pluralità di persone dotate di pari potere, le quali debbono provvedervi in seduta comune, attraverso una deliberazione unitaria»[1] (A.M. Sandulli). Quindi, un organo è collegiale «quando gli è preposta una pluralità di individui formanti un’unità giuridica» (G. Treves).

Senonché, entrambe le ricordate definizioni, con l’accento su una unità che superi e trascenda i singoli componenti, evidenziano che l’indagine non si può fermare al momento funzionale, alla descrizione del modo di formazione dell’atto nell’ipotesi di figura soggettiva pluripersonale, ma deve innanzitutto cogliere la dimensione della vicenda sul piano strutturale, forse – meglio –  sul piano dell’organizzazione quale momento di composizione di entrambi i profili (secondo l’intuizione di M. S. Giannini poi sviluppata da M. Cammelli.).

In questa proiezione emergono due profili di particolare interesse nello studio della collegialità: quello ordinamentale e quello della responsabilità.

Quanto al primo – su cui insiste particolarmente la dottrina amministrativistica – l’abbandono della prospettiva prevalentemente funzionale negli studi specificamente dedicati alla collegialità fa cogliere l’importanza del collegio come figura organizzatoria, da studiare prescindendo dai problemi, più noti, connessi ai moduli del suo operare. «Più precisamente, la collegialità viene risolta nella figura organizzatoria di composizione preventiva di interessi, ottenuta per il tramite della ricomprensione nel collegio dei portatori dei diversi interessi» (M.S. Giannini).

Quanto al secondo – su cui si intrattiene più specificamente la dottrina canonista – per aversi atto collegiale, in effetti, «è necessario che ci si trovi di fronte ad una scelta compiuta da un collegio che agisca in quanto entità unitaria, e che da questa scelta scaturiscano precise conseguenze giuridiche» (C. Gardia).

Anche in questa più precisa accezione, però, la questione della collegialità presenta ulteriori peculiarità: perché un esame giuridico esauriente non può essere compiuto se non tenendo presente l’indefettibile interazione che unisce il principio di collegialità a quello di unità (o autorità); perché la dimensione collegiale non può essere compresa se non si coglie la sua contiguità con la dimensione della corresponsabilità, «principio che trova un fondamento sacramentale nella cooperazione dei giudici e nella loro partecipazione alla manifestazione della volontà comune» (C. Gardia); e qui, specificamente si appunta il tema del dissenso interno al collegio e, quindi, il distinguo di responsabilità.

4. E, dunque – in linea di teoria generale – proprio sul profilo organizzatorio e sul carattere della corresponsabilità si evince la serietà del dibattito in ordine alla previsione del diritto di dissentire, che in questo Paese trova strenue resistenza soprattutto sul fronte della tenuta della decisione e che, viceversa, molto più laicamente ha trovato giuridico riconoscimento e strumenti operativi in molti altri Paesi, non solo di estrazione anglosassone; resistenze in gran parte ingiustificate, ove si consideri l’opinione dissenziente come diritto del giudice al distinguo di responsabilità, soprattutto quando si apprestano strumenti di attribuzione della stessa, vuoi quanto alla prevista possibilità di dichiarare la responsabilità civile del magistrato, vuoi quanto alla predisposizione di meccanismi di condanna per la ingiusta detenzione.

Ancora sul criterio della responsabilità, emerge – con vigore polemico nella dottrina civilistica – il tema del coinvolgimento del collegio nel procedimento probatorio.

Sul punto, rivendicando la specificità del settore processual-penalistico, l’argomento sembra sotteso – talvolta inconsapevolmente – alla scelta del modello processuale, alla contrapposizione reale tra codice Rocco e Costituzione, alla radicale contraddizione tra sistema accusatorio e sistema inquisitorio. E se, in altra sede, l’osservazione ci è servita per dimostrare la incompatibilità ideale tra i due termini e la eguale impraticabilità dei cc. dd. sistemi misti [2](G. Riccio), nonché il filo conduttore della riforma del codice di procedura penale attuata alla fine degli anni ’80 [3](G. Riccio), qui essa è utile per rinforzare le ragioni della scelta dell’attuale modello processuale, anzi, la sua irrinunziabilità.

Il tema – dal punto di vista teorico – è risalente e si aggancia alle istanze liberali dell’’800; anche se esse mai espressamente hanno denunciato i vizi insiti in un sistema processuale con istruzione.

Perciò suona monito di elevata intensità la “pretesa” di Giuseppe Chiovenda, per il quale, a giudicare, deve essere solo il giudice che ha istruito la causa e che ha ammesso le prove (sul punto, la dialettica con Francesco Carnelutti è storica: cfr. F. Cipriani[4]). Ricordandolo, Franco Cipriani informa di un singolare revirement della Cassazione – ovviamente in materia civile – la quale, a metà degli anni ’90, “acriticamente” mutò opinione sull’assunzione delle prove nei procedimenti camerali di competenza del tribunale per i minorenni, stabilendo – contro il pacifico indirizzo precedente –  che, se la prova non è assunta dal collegio, si ha una nullità per vizio di costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c. L’assunto porta l’autore alla inevitabile conclusione secondo cui, se la prova non è assunta dal collegio, al pari della sentenza non emanata dal collegio, è «insanabilmente» nulla per vizio di costituzione del giudice; la nullità si sana solo col passaggio in giudicato della sentenza (F. Cipriani[5]).

Il rimando, solo all’apparenza, può sembrare estraneo ad una più specifica osservazione sul processo penale.

Esso, viceversa, in linea ideale, rappresenta il filo rosso riformista del processo penale e contraddice alla radice – in termini morali oltre che in termini di responsabilità – affioranti tendenze controriformiste di chiara impronta nostalgica ed inquisitoria.

Sotto altro aspetto, poi, l’osservazione richiama in termini problematici la “legittimazione” della abolizione della collegialità in materia di reati gravi – specificatamente di quelli di competenza della Corte di Assise – quando si procede col rito abbreviato.

Ed anche a voler sostenere la coerenza della previsione rispetto al principio della precostituzione del giudice, anche in ragione della scelta volontaria dell’imputato, non si possono non denunciare i limiti “morali” dell’operazione legislativa compiuta, almeno quanto ai delitti puniti con l’ergastolo, soprattutto ove si consideri la mancanza di eguale volontaria riserva di collegialità. La vicenda è nota; ed ha visto impegnati Corte costituzionale e legislatore, oltreché la migliore cultura giuridica del Paese.

Peraltro, l’esame di coscienza di un processualista non potrebbe ritenersi compiuto se non rilevando – anche – le problematiche discrasie di un codice che punta sulla garanzia della collegialità in tema di cautele processuali ed esalta, poi, la monocraticità in ragione di esigenze di efficienza del processo e, quindi, della giurisdizione.

5. In questi termini di confronto tra garanzie ed efficienza si colloca la recente proposta di riforma.

Su di essa – ed abbandonando ogni tentazione di carattere ideologico e, quindi, i “miti” della collegialità – alcune osservazioni appaiono centrali; proprio come riverbero della filosofia che la sostiene.

Premesso che non è questa la sede per ripercorrere le varie tappe del contrasto tra fautori della collegialità e fautori della monocraticità, in estrema sintesi vanno ricordate, qui, le ragioni delle opposte idealità ai fini della comprensione della recente scelta legislativa. I primi raccolgono «i vessilli della ponderazione, dell’equilibrio, delle certezze e, perché no, dell’affidabile uniformità, della riduzione di rischi e di errori, della garanzia di anonimato per il giudice coperto dal rischio di sovraesposizione (rancori, inimicizie e vendette), ma con il beneficio della funzione didattica-competitiva della camera di consiglio» (V. Carbone[6]).

Costoro, dunque, considerano antistorica la opzione del giudice monocratico o, addirittura, «nemica del progresso o, peggio, forcaiola»; ed intravedono, nella monocraticità, più insidie che benefici reali.

Chi, viceversa e non soltanto per motivi ideali, reputa benefica la recente riforma sotto il profilo funzionale e della efficienza della giurisdizione non può non tener conto di talune osservazioni di metodo.

Lo scenario che fa da sfondo al problema è costituito da un tessuto normativo predisposto allo scopo di porre rimedio al gravissimo ed intollerabile stato di disservizio della giustizia. L’amarezza della realtà insegna che il tasso di inadempienza di fronte alla domanda di giustizia ha ormai raggiunto livelli da svalutazione selvaggia o da vera e propria bancarotta, tant’è che si sprecano termini come «coma», «sfascio», ecc. del nostro sistema.

Perciò, appare ancora più macroscopico il mancato collegamento tra processo e ordinamento giudiziario.

Su questi temi il dibattito è aperto; anche se sembra che gli attuali progetti all’ordine del giorno sembrino orientati su sponde totalmente diverse da quelle relative al recupero dei tempi ragionevoli del processo, nodo centrale per rivitalizzare la giurisdizione e per restituirle efficienza, effettività e trasparente credibilità.

[1] A.m. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1982.

[2] g. riccio, Itinerari culturali e premesse di metodo per la riscoperta del modello processuale, in Dir. pen. e proc., 2002.

[3] g. riccio, Introduzione allo studio dei diritti procedurali del processo penale, in Ideologia e modelli, 1995.

[4] f. cipriani,  Francesco Carnelutti tra il giudice delegato e il giudice istruttore, in Riv. dir. proc., 1996.

[5] f. cipriani, In memoria dell’udienza collegiale, in For. it., 1990, parte I; f. cipriani, Come si istruisce senza conoscere e come si giudica senza istruire, in For. it., 1990; f. cipriani, Sull’abrogazione del reclamo al collegio, in Giur. it., 1997.

[6] v. carbone, Giudice monocratico e giudice collegiale, in Riv. dir. proc., 1986.