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SUL MIGLIOR STILE DI ELOQUENZA FORENSE – DI GAETANO IANNOTTA

SUL MIGLIOR STILE DI ELOQUENZA FORENSE – DI GAETANO IANNOTTA

IANNOTTA – SUL MIGLIOR STILE DI ELOQUENZA FORENSE.PDF

SUL MIGLIOR STILE DI ELOQUENZA FORENSE

di Gaetano Iannotta*

Un breve excursus sull’eloquenza forense, dagli antichi oratori a quelli del ventesimo secolo.

 Sommario: 1. Sullo stile degli antichi oratori. -2. Dall’Atticismo all’Asianesimo. -3. Sullo stile di Cicerone. -4. Sullo stile degli oratori francesi e inglesi. -5. Sull’eloquenza forense italiana dal Cinquecento al Novecento. -6. Sullo stile di Marciano, de Nicola, Porzio e De Marsico. -7. Sull’arte dell’imitazione. -8. Conclusioni.

1. Sullo stile degli antichi oratori.

L’eloquenza giudiziaria antica, che non può certamente restringersi alle figure immortali di quei due giganti della parola che furono Demostene e Cicerone ma che si estende ai dieci grandi oratori dell’Antica Grecia e a quelli che contesero il campo all’Arpinate ai tempi della Repubblica a Roma, è caratterizzata da un fiorente dibattito che vide contrapporsi lo stile dell’Atticismo e quello dell’Asianesimo.

L’ Atticismo era fondato sulla sobrietà e la purezza della lingua mentre l’Asianesimo propendeva per la ricerca di un parlare aulico con l’intento di creare nell’interlocutore un effetto di magniloquenza.

Ora, certamente Lisia può essere ritenuto il maggior esponente dello stile attico in ragione della purezza della sua elocuzione.

Difatti, nella narrazione Lisia sa evitare la prolissità senza essere oscuro, e come i veri scrittori dice con poche parole chiaramente quello che altri non saprebbero esprimere senza sfociare in prolissità.

Tale brevità non si ottiene che con una cognizione piena e sicura della lingua e delle sue forme che Lisia, per l’appunto, padroneggiava; sia nel riferimento dei singoli concetti, sia dell’elegante resoconto del tutto.

Dunque, Lisia, nella scelta delle parole, ha una elocuzione estremamente pura: egli rappresenta un modello perfetto di lingua attica che gli antichi consigliavano continuamente ai giovani di emulare.

Anche nell’arte dei proemi non è, Lisia, inferiore ad alcun altro oratore, ma ciò su cui Dionigi d’Alicarnasso sofferma maggiormente la propria attenzione “è la grazia di cui il suo stile si ammanta e fiorisce”.

Adunque nonostante le molteplici qualità dei discorsi di Lisia: purezza del vocabolario, precisione della lingua, brevità, chiarezza, grazia (donde il sublime e la magniloquenza anche dello stile tenue di cui nessuno dei suoi successori ha saputo eguagliare la perfezione) lo stesso Lisia non ha mai pronunciato una sola delle sue arringhe nei tribunali perché la sua attività era semplicemente di logografo in quanto scriveva discorsi per coloro che dovevano pronunciarli davanti al giudice per la propria autodifesa.

Colui che superò di certo Lisia nello stile attico fu Demostene, il più grande fra tutti gli oratori, e questa opinione è confermata dagli antichi e condivisa anche dai critici moderni. D’altronde, anche l’Arpinate nella sua opera retorica Brutus preferì Demostene a Lisia considerando il primo perfetto oratore per l’acutezza, la finezza, la precisione, la chiarezza e la nobiltà di pensiero e di parola.

La sua qualità superiore è stata messa ben in evidenza da Dionigi d’Alicarnasso che coglie la vera grandezza di Demostene nell’essersi persuaso che quanto fino ad allora s’era visto nello stile degli oratori appariva imperfetto e che dunque bisognava individuare il meglio in ogni oratore e ricavarne uno stile adorno e semplice, pieno di slancio e misurato, aspro e amabile, appassionato e calmo. Difatti, la sua intelligenza consisté nell’aver saputo cogliere i pregi dei suoi predecessori ed evitato i difetti.

Rinomate sono le particolari doti degli antecedenti oratori, la robustezza di Antifonte, la grazia di Lisia, il ritmo elegante di Isocrate, l’austerità di Licurgo, il brio di Iperide, la corretta disposizione delle argomentazioni di Iseo e tante altre qualità degli antichi maestri d’eloquenza. Orbene, Demostene si giovò di tutti quei requisiti per apprestarsi alla lotta serissima che avrebbe dovuto sostenere prima nel foro e successivamente nell’oratoria politica.

Ed ora venendo allo stile, nelle orazioni sia deliberative che giudiziali di Demostene è ammirabile l’armonia delle parti e del tutto. Già col suo esordio Demostene riesce a fermare in poche parole l’importanza di tutta la questione, catturando l’attenzione degli uditori; nella narrazione gareggia con Lisia; nell’argomentazione con Iseo. Ma è di gran lunga superiore a ciascuno dei due nella rappresentazione delle immagini, nella vivacità e nella forza del sentire; in una parola, nell’azione.

Riusciva egli ad alimentare ogni sentimento che si proponeva di accendere nell’uditore. Conosceva, dunque, ogni mezzo oratorio appropriato di cui avvalersi per il conseguimento dello scopo che si prefiggeva.

Assai importanti sono il ritmo della prosa e la strutturazione, estremamente versatile, con passaggi da periodi lineari ed asciutti ad altri concitati ed incalzanti.

Ora, sono in molti a sostenere che Demostene fu sicuramente grandissimo oratore ma gli stessi sottolineano che brillò soprattutto nel genere deliberativo. Questo è indubitabile. Certamente diverso e rimbombante fu il tuono delle orazioni che egli tenne per i processi politici ma non può essere sottaciuto che le cause private, che talvolta non hanno la stessa intensità oratoria di quelle politiche, sono comunque svolte con chiarezza, ordine e spigliatezza: il che ci diletta non poco.

Chi le legge s’accorge che l’oratore ha posto ogni questione di fatto e di diritto sotto il vero aspetto ed espresso nel miglior modo possibile, come, ad esempio, anche in quella, di minore importanza, del risarcimento dei danni per l’irrompere dell’acqua piovana in un podere privato, nell’orazione Contro Callicle, o Contro Midia che lo aveva schiaffeggiato o ancora nella causa per percosse e offese, nell’orazione Contro Conone, o per questioni di debiti commerciali, in Contro Lacrito.

2. Dall’Atticismo all’Asianesimo.

Adesso, vanno spiegate le ragioni del passaggio dallo stile puro dell’Atticismo a quello ampolloso dell’Asianesimo.

In effetti, avendo raggiunto l’oratoria il punto più elevato con Demostene, o dovevasi imitare quel sommo oratore, come fece Dinarco, o creare, come preferì il retore Demetrio Falereo, uno stile nuovo che però si caratterizzò per affettazione e mollezza che effettivamente appaiono evidenti nelle opere di quest’ultimo.

Si avvertì il bisogno, dunque, di ritornare alla purezza della lingua attica e Carisio, imitando Lisia, introdusse quel genere oratorio che fu seguito più tardi da Egesia, antesignano dell’Asianesimo.

Infatti, l’Asianesimo originariamente era un movimento “linguistico-stilistico” nato nell’età ellenistica in ambito greco, con l’intento di riportare la lingua alla purezza degli attici. Iniziatore fu proprio Egesia di Magnesia (Lidia, Asia Minore), fiorito intorno al 250 a.C. ispirandosi all’opera dell’oratore attico Carisio (ca.300 a.C.) che a sua volta aveva avuto come punto di riferimento l’Atticismo di Lisia.

Il loro Asianesimo era costituito da periodi brevi e disposti con una certa arte, al punto che Egesia, un secolo dopo, veniva letto e ammirato come autore classico da Strabone, che ne aveva imparato brani a memoria, e fu lodato perfino da Varrone e dallo stesso Cicerone.

Tale esempio fu però perso completamente di vista, tant’è che le caratteristiche degli Asiani risultano totalmente differenti. A quella scuola aderirono via via altri oratori, fino ai due contemporanei di Cicerone: Eschilo di Cnido ed Eschine di Mileto. Entrambi usavano introdurre nella purezza del greco attico parole del greco ionico, cioè quello parlato in Asia Minore, regione di cui peraltro erano originari. Pertanto furono bollati dagli Atticisti come “Asiani” o “Asiatici”.

A quel punto, il termine “Asianesimo” finì per indicare non solo una scelta linguistica, ma anche un preciso stile, fondato su un’oratoria artificiosa e ricca di figure, di suono e di espedienti tecnici, quindi enfatica e ampollosa. In realtà, il genere di eloquenza che si sviluppò nelle città asiatiche divenne gradualmente corrotto e gonfio, per la scarsa finezza di cultura di quelle città e per il fatto che nell’Asia non era pura la nazionalità greca da lungo tempo mista ad altre stirpi.

Cicerone, infatti, distingue due sottotipi di Asianesimo retorico: il primo costituito dal cultus, cioè della «ricercatezza», praticato da Carisio ed Egesia, fatto di periodi brevi e spezzettati, di abbondanti concettismi, stile ritmato, nervoso, frasi brevi ma molto efficaci, ricche di cerebralità, volte a suscitare una forte impressione; il secondo dal tumor, cioè dell’«esuberanza», praticato da Eschilo di Cnido ed Eschine di Mileto, fondato sulla ampollosità, sul patetismo, sulla scelta di vocaboli poetici, su un periodare più ampio e complesso: periodi gonfi, ricchi di subordinate, carichi di aggettivi e figure retoriche, tesi a sollecitare l’emotività del pubblico.

È noto del resto che l’Asianesimo fece presa anche nell’antica Roma: non a caso l’oratoria appassionata di Cornelio Gracco viene spesso avvicinata all’asiana; così come quella di Cornelio Sisenna, con la sua smania di trovare parole nuove. Però, la vera bandiera dell’Asianesimo romano fu Quinto Ortensio Ortalo, vero principe del Foro, ai tempi dei primi passi di Cicerone.

Difatti Ortensio si era dato al genere di eloquenza asiano e per questa ragione era abbondante nelle parole e ne cercava lo splendore con molteplici ornamenti; forse l’eloquenza gonfia d’enfasi dipendeva anche dal suo temperamento focoso.

L’Asianesimo dunque giunse a rappresentare uno stile nuovo, da contrapporsi proprio alla tradizione e alla purezza dell’atticismo a cui si richiamava originariamente.

In verità l’eloquenza romana conobbe anche oratori come Calvo, Bruto e Giulio Cesare che si richiamavano al genere tenue legato all’atticismo espresso da Lisia.

3. Sullo stile di Cicerone.

Ora, è corretto anche dire che lo stesso Cicerone, quantunque apprezzasse la purezza ricercata da Calvo e si fosse sforzato di trovare uno stile nuovo, quello rodiese, al fine di superare la ridondanza dell’Asianesimo e la brevità dell’Atticismo, in realtà non riuscì mai a liberarsi di un certo stile gonfio della scuola asiana di cui sono impregnate le stesse opere retoriche che, per quanto possano essere state scritte con stile elegantissimo, presentano – per così dire – molto grasso sui fianchi da celare talvolta la pur robusta struttura muscolare.

Anche nelle orazioni giudiziarie, a partire dalla difesa di S. Roscio Amerino, si può notare una certa sovrabbondanza e prolissità, nonché una struttura sintattica non sempre rotondata e piena, sebbene tali difetti siano compensati dal contesto generale che determina il tutto. Invero, Cicerone non riuscì mai completamente a liberarsi della frondosità giovanile le cui tracce possono riscontrarsi anche nel monumento stesso delle orazioni giudiziarie: chiaramente faccio riferimento alla pro Milone.

Nondimeno, nessuno potrà e vorrà mai disconoscere a Cicerone la facilità meravigliosa d’indicare con chiarezza, grazia e precisione, qualsiasi forbito concetto. Tutto ciò gli fu possibile in ragione della sua attitudine ad allargare il patrimonio della lingua ed a perfezionare lo stile della prosa del quale fu grande maestro.

Orbene, io credo che, se il perfezionatore dello stile latino, il nostro Cicerone, manca talvolta nelle orazioni giudiziarie di quella sobrietà che tanto ammiriamo in quelle degli attici e, in particolar modo, in Demostene, è altrettanto certo che l’oratoria dell’Arpinate è sempre ricca di un giro di parole perfetto e pieno che compiace a ogni orecchio.

4. Sullo stile degli oratori francesi e inglesi.

Condividiamo ciò che Giacomo Leopardi (che di stile certamente se ne intendeva) affidava allo Zibaldone in una nota in cui metteva in rilievo la distanza, a suo avviso incolmabile, tra l’eloquenza degli antichi e quella dei moderni: “ Cicerone , dopo dato un consiglio al senato o al popolo, da mettersi in opera anche il dì medesimo, dopo perorata e conchiusa una causa, ancor di una piccola eredità, si poneva a tavolino, e dagl’informi commentari che gli avevano servito a recitare, cavava, componeva, limava, perfezionava un’orazione formata sulle regole e i modelli eterni dell’arte più squisitamente, e, come tale, consegnava all’eternità. Così gli oratori attici, così Demostene di cui s’ha e si legge dopo duemila anni un’orazione per una causa di tre pecore: mentre le orazioni fatte oggi dà parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano da lì a due dì, e ne son degne, né chi le disse, pretese né bramò né curò ch’elle avessero maggior durata.”

Tuttavia riteniamo che, per quanto gli antichi ci abbiano lasciato modelli di eloquenza giudiziaria imperituri, ogni epoca in diverse nazioni ha conosciuto eccellenti modelli di oratoria forense a partire dalla Francia di le Maistre, Patru, Erard, Le Normand, Cochin, D’Aguesseau, Linguet e Gerbier che si cimentarono nei diversi registri stilistici. Qui va segnalato anche la memorabile arringa con stile breve ma intenso pronunciata dall’avvocato Henrion de Pansej davanti alla Corte di Parigi nel 1770 in difesa del Roc contro la schiavitù impostagli dal francese Poupot, che lo aveva importato dalla Caienna; quella con stile fluido pronunciata dall’avvocato Bellart davanti al Tribunale della Senna nel 1771 in difesa di Joseph Gras accusato di aver ucciso l’amante che lo tradiva; infine l’elegante arringa pronunciata dall’avvocato Raimondo Desèze di Bordeaux davanti alla Convenzione al Club des Feuillants di Parigi, il 26 dicembre 1792, in difesa del Re Luigi XVI.

A parte merita di essere menzionato lo stile conciso ma estremamente chiaro ed efficace di Maurice Garcon che ebbe ad esprimere in quella straordinaria quanto brillante arringa che pronunciò nel maggio del 1942 alle Assise di Seine-et-Oise in difesa di Giovanna Roulet, Maddalena Artus, Yvonne Tréal, Viviane Brouilly, imputate di aver ucciso sei malati – incurabili – con iniezioni di morfina, nel giugno 1940, durante l’evacuazione dell’ospedale di Orsay.

L’oratoria forense britannica invece, a parte il facondo Pitt che fa vedere in lui il Lisia d’Inghilterra, presenta sempre uno stile pacato, dimostrativo e lineare come nei famosi discorsi dal patibolo nell’Inghilterra del secolo XVII di Walter Raleich, Algeron Sidney e Rye House per finire con la mirabile autodifesa di Strafford davanti alla Camera dei Lord del 13 aprile del 1641.

Non può essere, ora, sottaciuto lo stile pragmatico che caratterizzò le arringhe di due esperti oratori: il procuratore generale Robert H. Jackson degli Stati Uniti d’America, nella sua veste di Capo del Collegio d’Accusa nel processo di Norimberga e il dott. Jarrheiss del collegio di difesa sempre al processo di Norimberga sul problema della legalità del processo, pronunciate la prima il 2 novembre 1945, e il 4 luglio 1946 la seconda.

5. Sull’eloquenza forense italiana dal Cinquecento al Novecento.

È arrivato il momento di guardare all’interno di casa nostra al fine di comprendere chi eccelse esprimendo il miglior stile di eloquenza forense.

Marco Foscarini attribuisce al Cinquecento veneziano la rinascita dell’eloquenza della Roma Repubblicana e secondo il famoso letterato lo “stile veneto” ebbe inizio con i documenti a stampa di fine secolo nelle cinque Orationi civili (1590) di Pietro Badoaro, modello letterario autorevole anche se probabilmente lontano dalle vere pratiche del Foro della Serenissima.

In realtà prima di Badoaro, tra i testi forensi spiccano le arringhe dell’avvocato friulano Cornelio Frangipane, cultore della tradizione classica ciceroniana, che si distinse sia con la mirabile difesa di un suo amico accusato di omicidio e poi assolto, tale Duino Mattias Hofer, che della signora Isabella Frattina accusata di sospetta eresia in un famoso processo celebrato davanti al Sant’Uffizio veneziano.

Molto pregio si riscontra nell’arringa pronunciata dall’avvocato Giovanni Francesco Commendone, poi divenuto cardinale, in difesa di alcuni giovani studenti padovani che erano stati accusati di aver premeditato l’omicidio di un loro collega francese residente a Padova. L’eloquenza del Commendone valse, infatti, a far cadere la premeditazione e, dunque, a risparmiare agli studenti la pena capitale.

Durante il Settecento veneziano si distinsero per la loro eloquenza illustri avvocati come Francesco Duodo, Leopoldo Curti, Marco Barbaro ed il famoso letterato Carlo Goldoni che sino ai suoi quarant’anni si guadagnò il pane arringando.

La figura invece più rappresentativa della breve ma vivace stagione dell’eloquenza forense lombarda è quella dell’avvocato milanese Giuseppe Marocco, che nel 1818- 1819, a fine carriera, mise insieme una cospicua antologia (in sei tomi) di Difese.

L’ Ottocento toscano vanta invece due importanti figure di oratori come Francesco Domenico Guerrazzi e il professore pisano Giovanni Carmignani della cui eloquenza Giuseppe Zanardelli ebbe a metterne in evidenza: “Il vigore dell’argomentazione, il movimento oratorio, la venustà e il fulgore della forma, la ricchezza di una portentosa erudizione giuridica”.

Ora, per giungere alla tradizione partenopea, che è universalmente riconosciuta come la più ricca di facondi ed eccellenti oratori, possiamo affermare che essa prese le mosse nel Regno di Napoli alla fine del Seicento con la figura del celebre avvocato Francesco D’Andrea il quale nei testamentari Avvertimenti ai nipoti già tracciava una vibrata apologia dell’eloquenza degli avvocati napoletani.

Nel corso del Settecento poi si distinsero avvocati di successo come Giuseppe Pasquale Cirillo, l’eminente Francesco Mario Pagano o, a un livello più tecnico, l’illustre civilista Francesco Rapolla.

Diverse generazioni forensi napoletane conobbe invece l’Ottocento; oratori coloriti e impetuosi come Giuseppe Poerio, Nicola Amore e Giuseppe Marini Serra; artisti ed esteti come Francesco Lauria, Gaetano Manfredi, Leopoldo Tarantini; dialettici di precisione come Pasquale Borrelli, Francesco Antonio Casella, Francesco Girardi; oratori filosofi e giuristi come Nicola Niccolini, Luigi Zampetta, Enrico Pessina; dominatori dell’arringo penale come Pietro Rosano, Francesco Spirito, Giuseppe Pisanelli, Antonio Starace, Pasquale Stanislao Mancini,Pasquale Grippo, Raffaele Conforti, Roberto Savarese, Filippo de Blasio, Francesco Saverio Correra, Emanuele Gianturco, Giorgio Arcoleo.

Il Novecento si presenta ancora più florido di scuola oratoria partenopea che va dalla classicità di Gennaro Marciano alla penetrazione psicologica di Carlo Fiorante per giungere alla forma attica di de Nicola per passare alla tragicità di Giovanni Porzio e conchiudere con l’imponente figura che fu Alfredo De Marsico.

Accanto a questi crebbero per importanza Ettore Botti, Giovanni Leone, Giovanni Pansini, Amerigo Crispo, Cesare Loasses, Giovanni Napolitano, Giulio Nocerino, Pasquale De Gennaro, Ramiro Dell’Erba, Guido Cortese, Vincenzo Janfolla, Franco Di Lella, Enrico Morelli, Francesco Vitale, Michele Verzillo, Ciro Maffuccini, Enrico Altavilla, Francesco Saverio Siniscalchi, Vittorio Granuci, Orazio Ciccatelli, Alfredo Catapano, Mario Venditti, Mario Pierro, Luciano Pesce, Mattia Limoncelli, Adriano Reale, Renato Orefice.

Per obiettività va detto che anche altre regioni hanno espresso durante il Novecento insigni oratori la cui fama si estese su tutta la penisola come Genuzio Bentini in Emilia, Francesco Carnelutti in Friuli-Venezia Giulia, Francesco Rubichi nelle Puglie, Arturo Vecchini nelle Marche, Giuseppe Romualdi in Abruzzo, Bernardino Alimena, Mario Casalinuovo e Titta Madia in Calabria, Carlo Nasi in Piemonte, Orazio Raimondo in Liguria, Giovanni Rosadi, Adelmo Niccolaj e Bruno Cassinelli in Toscana, Ferdinando Li Donni in Sicilia.

Ora, ovviamente sarà impossibile valutare uno per uno tutti gli oratori che la nostra penisola ha conosciuto negli ultimi due secoli.

Da questa ampia e gloriosa tradizione, emerge su tutti l’affascinante stile argomentativo di Francesco Mario Pagano così come ammirabile resta l’impronta ieratica dell’oratoria di Enrico Pessina, mentre indimenticabile appare la prorompente eloquenza vulcanica di Nicola Amore e staglianti per la loro bellezza le arringhe di Gaetano Manfredi.

6. Sullo stile di Marciano, de Nicola, Porzio e De Marsico.

Ma vi furono almeno quattro eccellenti oratori che maggiormente rifulsero per la luce del loro stile e di cui intendo ora cogliere il loro tratto essenziale.

Inizio con quel gran dominatore dei processi penali che fu Gennaro Marciano, allievo di Gaetano Manfredi.

Marciano fu creatore di uno stile che si può definire adorno e semplice allo stesso tempo, un’oratoria che mette in luce tutta la bellezza della lingua italiana. Ma in particolare di Marciano è ammirabile la completa conoscenza di ogni rivolo processuale che si srotola dall’istruttoria al dibattimento e si tramuta in una arringa che ha un’armonia di progressione nella quale gli argomenti minori precedono e preannunciano i più importanti fino a creare una comunione spirituale in chi lo ascolta; difatti egli riusciva sempre, con singolari sillogismi e impeccabile dialettica, a placare le ansie del giudicante predisponendo questi alla persuasione che sfocia inevitabilmente nel convincimento. Lo stile di Marciano contiene gravità e fermezza come il rombo di un tuono che sovrastando ti inchioda.

L’eloquenza forense di Enrico de Nicola invece sorprende a colpo d’occhio per la semplicità ed essenzialità delle sue arringhe. Difatti, il suo stile è persuasivo per la sua limpidità. Le sue prevalenti attitudini sono la chiarezza, l’ordine, il raziocinio ed un acuto spirito di osservazione.

Le sue acquisizioni intellettive hanno sempre il carattere di concretezza e di precisione. Di de Nicola si potrà allora emulare sia il modo in cui descrive ogni cosa perché appunto egli eccelle soprattutto nell’esposizione chiara, comune e lineare dei fatti, conseguente alla semplicità dell’espressione senza fare mai ricorso all’amplificazione; che l’utilizzo della logica delle perfette figure geometriche quale metro unico di valutazione delle prove.

In virtù del temperamento da giurista, amava esaminare i problemi giuridici sino a risalire alle radici per ricercarne i motivi e i fini delle norme. Di questo pregio vi è prova nelle “Difese Penali” in cui si coglie, tra l’altro, il passaggio nell’oratoria forense dalla sontuosità ottocentesca alla sobrietà moderna introdotta proprio dal suo stile.

Nell’oratoria di Giovanni Porzio io riscontro un lirismo che infiamma ogni mente perché egli ha la capacità di scavare nei recessi impenetrabili dell’animo del colpevole nonché della natura e dell’ambiente in cui il delitto era maturato.

Porzio quindi potrà essere assunto quale modello di oratore, che con un linguaggio allo stesso tempo tecnico e lirico, è capace di scrutare i più profondi misteri dell’animo umano sino a piegare a compassione anche il più rigido cuore di un freddo giudicante.

Nello stile amplificato di Alfredo De Marsico predomina il culto della parola. Difatti, l’eleganza della sua elocuzione, avvolta sempre da argomenti convincenti e da una perfetta esposizione del diritto, colpisce la sensibilità irrazionale dell’ascoltatore al punto da fargli apprezzare anche i valori più strettamente aulici del suo stile. Allora, di questo raffinatissimo oratore avremo cura di studiare la sonorità delle parole, sempre levigate, delicate e virginali, che rifuggono da sillabe dure ed aspre.

Il suo stile equivale al profumo di un fiore delicato che diffondendosi ti inebria sempre di più.

Ordunque ci siamo soffermati in particolar modo sui loro pregi straordinari che si colgono a vista d’occhio e che si possono riassumere nel modo seguente: de Nicola ebbe sottilità, Porzio acume, De Marsico eleganza, Marciano forza.

7. Sull’arte dell’imitazione.

Deve essere ora precisato che gli oratori che abbiamo passato in rassegna hanno attinto dalla tradizione classica generando con arte un proprio stile nell’epoca in cui vissero.

Difatti, il giovane che intenda cimentarsi nell’arringo forense sarà tenuto a strutturarsi attraverso l’arte dell’imitazione dei grandi che l’hanno preceduto.

Va qui ricordato che già Aristotele afferma: “…in primo luogo l’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini, ed in questo l’uomo si differenzia dagli altri animali perché è quello più proclive ad imitare e perché i primi insegnamenti se li procaccia per mezzo dell’imitazione; ed in secondo luogo tutti si rallegrano delle cose imitate” (Poetica 1448b).

Del resto non bisogna scomodare i grandi pensatori dell’antichità per comprendere la valenza dell’imitazione atteso che pure il nostro Leonardo Da Vinci dopo aver assunto a propria guida e modello Archimede per la sua mentalità di “scienziato-ingegnere” pervenne di poi a consegnare all’umanità originalissime scoperte ed invenzioni fino a consacrarsi quale genio assoluto.

D’altronde anche le teorie cognitive moderne sembrano confermare l’importanza della mimesis nel processo di apprendimento.

Non dimentichiamoci poi le parole di Gabriel Tarde nella sua opera maggiore, Leggi dell’imitazione, in cui scrivendo: “l’essere sociale , in quanto sociale, è essenzialmente imitatore”, ebbe a delineare il concetto di imitazione quale nucleo della psicologia sociale.

L’imitazione è quindi tramite fondamentale per l’acquisizione di qualsiasi techne umana; la musica nella creazione di armonie di suoni diversi, la grammatica nell’unione di lettere mute e sonore ed ogni techne, in generale, sono solo imitazione dell’armonica composizione dei contrari operata dalla natura.

D’altra parte è certo che i pittori che vogliono eccellere nella loro arte non si perdono in lunghe discussioni su di essa ma passano anni e anni disegnando e compiendo modelli di artisti eccelsi.

Nel nostro caso è solo l’eloquenza, ovvero lo studio degli sforzi compiuti dai precedenti oratori, che guida e dirige la capacità creativa di ognuno dalla semplice conoscenza alla realizzazione artistica.

Questa è la ragione per la quale l’eloquenza è da ritenersi superiore alla retorica perché l’applicazione dei precetti retorici determina un’incapacità di appropriarsi delle caratteristiche costitutive del modello, producendo solo un effetto artificioso, con l’esagerazione solo delle qualità e degli aspetti più caratteristici ed evidenti.

Il giovane deve, invece, studiare principalmente le orazioni giudiziarie degli oratori più degni di stima sforzandosi di comprendere lo sviluppo delle idee e l’esame della logica che ha seguito l’oratore.

Se il giovane riuscirà a penetrare nel pensiero e nello spirito dell’oratore da imitare, e a vedere le cose alla stessa sua luce, sarà in grado di discernere le virtù oratorie dai suoi difetti, dopo di che ne emulerà l’aspetto migliore.

Difatti, l’oratore deve all’oratore, come nel passato così nel presente; non è facile trovare la strada delle orazioni mai pronunciate!

Non vi è oratore che non sia stato influenzato da un altro.

La trasmissione della cultura è incentrata sulla scrittura e sulla lettura e quest’ultima, in particolare, ha una funzione precipua: l’imitazione.

Quintiliano, a tale proposito, afferma: “come mandiamo giù i cibi masticati e quasi liquefatti perché siano più facilmente digeribili, così la lettura sia affidata alla memoria e alla imitazione, non cruda ma ammorbidita dalla continua ripetizione e direi quasi già digerita”.

Leggere e rileggere, se da un lato significa arricchire la propria cultura, dall’altro lato significa assimilare il testo, prendere possesso, raggiungere omogeneità stilistica con esso.

Questo tipo di lettura è chiaramente un’operazione creativa, poiché non è solo acquisizione di conoscenza, ma è già quasi un ricreare.

Il giovane deve acquisire dalla tradizione da cui nasce il canone di autori la cui opera assume validità di norma, poiché essi rappresentano l’auctoritas.

Ma se, come ci ricorda Dionigi d’Alicarnasso, “la mimesis è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole”, l’imitazione non è la riutilizzazione dei pensieri, ma equivale ad impossessarsi della stessa tecnica degli antichi, e imita Demostene non colui che rifà i discorsi di Demostene ma colui che riproduce la maniera di Demostene.

E se quest’ultimo ha raccolto in sé le migliori qualità dei modelli di oratori che l’hanno preceduto, allora vuol dire che Demostene costituisce anche l’esempio di perfetto imitatore che non fa riferimento ad un solo modello, ma partendo da più modelli seleziona quegli aspetti di ciascuno che risultano più utili e più riusciti, e plasma in un’unica forma di espressione che abbraccia le qualità opposte.

Lo stesso Cicerone, memore dell’arte demostenica, fu spinto a compiere prima un viaggio in Grecia, e precisamente ad Atene dove apprese le regole dei dieci grandi oratori, e di poi in Asia dove si affiancò ai migliori oratori del luogo.

Difatti, i sommi oratori compresero che nell’emulare quello che si ritiene essere un ottimo discorso di fatto si realizza una somiglianza del discorso nostro e quello emulato. A tale riguardo scrive Dionigi d’Alicarnasso: “Un agricoltore di brutto aspetto fu preso dal timore di essere padre di figli simili a lui e la paura gli insegnò la maniera di divenire padre di figli belli. Fece plasmare dunque alcune belle immagini e abituò la moglie a guardarle intensamente, quindi, unitosi a lei, ottenne nei figli la bellezza di quelle immagini. Allo stesso modo nell’imitazione dei discorsi si genera la loro somiglianza”.

Che poi ogni stile richiama i temperamenti più adatti ad attuarli, è conseguenza ovvia e spontanea. La necessità di leggere e studiare le orazioni giudiziarie degli antichi e dei contemporanei è diretta non solo al fine di trarne la materia per il proprio scopo ma soprattutto per ricercare un proprio stile attraverso il principium individuationis e ciò per evitare di diventare “scimmie degli antichi”. Difatti bisogna sempre diffidare di una certa sterile imitazione e a tale proposito il Poliziano dissentendo dal suo amato amico, Paolo Cortese, con eloquenti parole scrive: “A quel che mi sembra, tu non approvi se non chi riproduca Cicerone. A me sembra più rispettabile l’aspetto del toro o del leone che non quello della scimmia, anche se la scimmia rassomiglia di più all’uomo. Come ha detto Seneca, non sono simili tra loro quelli che si crede siano stati i massimi esponenti dell’eloquenza. Quintiliano deride coloro che credevano di essere i fratelli germani di Cicerone per il fatto che finivano i loro periodi con le sue stesse parole. Quelli che compongono solamente imitando mi sembrano simili ai pappagalli che dicono cose che non intendono. Quanti scrivono in tal modo mancano di forza e di vita; mancano di energia, di affetto, di indole; sono sdraiati, dormono, russano. Non dicono niente di vero, niente di solido, niente di efficace. Tu non ti esprimi come Cicerone, dice qualcuno. Ebbene? Io non sono Cicerone; io esprimo me stesso”.

Vi sono infatti certuni che imitano solo per imitare perché non sono in grado di creare alcunché; ma costoro per quanto si sforzino di ostentare una certa aurea di scrittori dotti, in realtà nascondono una profonda gelosia per l’originalità delle opere altrui. E tale fenomeno è stato indagato anche da un punto di vista antropologico dall’insigne studioso francese Renè Girard che ha chiarito che tutte le azioni dell’uomo sono determinate dal suo desiderio di emulare (desiderio mimetico) qualcuno che gli appare felice, perché egli spera di arrivare a possedere la stessa felicità, ma lo stesso Girard di poi chiarisce che la servile imitazione rende l’uomo più infelice di quanto non lo fosse prima dell’imitazione stessa.

Allora l’imitazione per costituire il punto centrale di ogni attività artistica, non deve mai tradursi in un procedimento sterile e meccanicistico ma deve essere incentrato sul fare creativo, ovvero sulla scelta degli autori da imitare e su una selezione di quelle loro peculiarità che devono essere emulate o evitate per ricavarne un proprio stile.

Infatti, il processo imitativo deve tendere all’acquisizione e allo sviluppo del talento artistico, dando alla nuova opera un tratto di originalità.

Perché ritornare all’antichità non significa ritrovare una modello già dato all’origine, ma risalire all’origine per darsi un modello. Spetta all’oratore ritemprarsi – come facevano gli antichi – con le passioni originali. Questa è la condizione indispensabile perché il foro si risollevi. In questo senso il foro è creazione.

Nell’arte non c’è mai imitazione pura e semplice: l’arte è produttiva ed è proprio il foro a rendere ragione di questa produttività. L’arte nel foro diventa allora essenza produttiva naturale per generare una presenza nuova, una presenza diversa che prima ancora di essere rappresentazione è rinascita di un modello ideale.

Ciò che deve essere chiaro è che lo stile dell’eloquenza forense non è il frutto di una scelta, ma, in astratto, degli scopi che l’ordinamento giuridico di un tempo impone al giudice o all’avvocato e dalla naturale vocazione di chi si dedichi a meglio rendere l’una o l’altra esigenza della funzione penale. È dall’incontro tra i vari aspetti di questa e i vari temperamenti degli uomini che traggono origini le distinzioni tra le scuole e gli stili.

Ad esempio, l’attuale rito accusatorio che vige in Italia richiede uno stile essenziale e sobrio di cui de Nicola può essere considerato un precursore.

E allora potrà definirsi arte solo quell’imitazione forense che si snoderà in tre fasi: bravura nel selezionare i grandi oratori per emularne i pregi; capacità di seguire il principium individuationis per ricavarne uno stile personale; abilità di adeguare il proprio stile al sistema penale del tempo in cui si opera.

E a tale riguardo, solo l’imitazione creativa è lo strumento che consente all’oratore di valorizzare al meglio ogni partizione dell’oratoria forense.

8. Conclusioni.

Da dove deriva l’essenzialità, la brevità e la chiarezza di de Nicola se non dal bisogno di ricreare lo spirito attico che seppe trovare Lisia nella sua lingua?

Perché lo stesso de Nicola amava ripetere che De Marsico era l’emulo di Demostene?

Tuttavia ritengo, dissentendo dal grande maestro, che lo stile di Demostene veemente e vibrato lo si ritrova più nella compattezza del pugnace Marciano che non in De Marsico, più vicino allo stile forbito di Cicerone per quella sua ricerca della parola aulica e raffinata.

Da che cosa si ricava la somiglianza tra l’oratoria francese e quella italiana, ed in particolare tra Parigi e Napoli, se non dallo sforzo comune di rivalutare le opere degli antichi che non sono altro che la comune radice?

Del resto anche la cultura tedesca fondata su una concezione di tipo logico-deduttivo per la soluzione dei processi ha dovuto cedere il passo rispetto a modelli persuasivi che si sono tramandati dall’antica Atene e Roma fino ai nostri oggi.

Nondimeno in America, in cui prestigiose università hanno da tempo istituito cattedre di oratoria classica, gli studenti si piegano sulle pagine delle orazioni dei grandi oratori greci e latini, considerati esemplari di lingua e di stile.

E grazie a tale sforzo di rifarsi alla tradizione classica gli oratori contemporanei sono essi stessi esempio di stili di eloquenza giudiziaria che i secoli incessantemente affinano.

Allora ecco come il nuovo non sia altro che la riorganizzazione delle qualità dei modelli che ci hanno preceduto attraverso “il giudizio dei secoli”.

Ordunque, la costante imitazione della tradizione oratoria diventa la forma stessa della creazione artistica e al di fuori di questo schema creativo, in cui il sistema oratorio riveste funzioni di guida critica, l’opera non può che fallire il suo scopo.

Anche le parole del grande pensatore partenopeo, Vico, ci confortano allorquando, tracciando in maniera illuminante l’ordine da seguire, scrive: “Prima leggiamo gli antichi, che sono di fede, diligenza e autorità provate; ed essi ci siano di norma per sapere quali dobbiamo preferire fra i moderni”.

Il giovane allora non potrà che aspirare ad abbeverarsi alla fonte di un vasto repertorio di modelli che gli vengono offerti a partire dall’antichità fino ai nostri giorni.

E da questo punto di vista gli stili di eloquenza giudiziaria da noi selezionati sono tutti validi modelli da apprendere e praticare a secondo del bisogno.

Allora i giovani, dopo aver emulato i pregi delle opere dei grandi oratori, ascoltino le voci del loro tempo; accolgano le nuove correnti di idee; seguano attentamente la perenne evoluzione del diritto, sotto l’urgenza delle necessità sociali.

Siano le grandi tradizioni giuridiche e morali le direttrici del loro cammino. Ma il loro spirito sia, costantemente, l’ispirazione di un proprio stile per la creazione di opere libere, spontanee, originali.

*Avvocato, Fondatore e Direttore della Collana di “Eloquenza Forense”