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GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 3/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 3/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU 3-2020.PDF

A cura dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane

3/2020

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE, CAUSA CITRARO E MOLINO C. ITALIA, RICORSO N. 50988/13, SENTENZA DEL 4 GIUGNO 2020

Nella decisione in commento, la Corte ha rammentato il proprio consolidato insegnamento per cui tale disposizione obbliga lo Stato ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione (cfr. altresì Keenan c. Regno Unito, n. 27229/95, § 89, CEDU 2001 III), tra cui quelle private della libertà.

Tale obbligo sussiste dal momento in cui le autorità statali sapevano o avrebbero dovuto sapere che vi era un rischio reale e immediato che la persona interessata attentasse alla propria vita – tenuto conto in particolare dei precedenti di disturbi psichici e della gravità della malattia da cui è affetto l’interessato, la commissione di atti di autolesionismo e di tentativi di suicidio, i gesti e pensieri suicidi e i segnali di malessere fisico o psichico (cfr. altresì De Donder e De Clippel c. Belgio, n. 8595/06, § 75, 6 dicembre 2011, e Renolde c. Francia, n. 5608/05, § 84, CEDU 2008) – e, ciononostante, abbiano omesso di adottare, nell’ambito dei loro poteri, le misure che, da un punto di vista ragionevole, avrebbero senza dubbio protetto l’interessato da tale rischio (cfr. altresì Fernandes de Oliveira c. Portogallo [GC] n. 78103/14, §§ 110 e segg., 31 gennaio 2019).

Nella fattispecie, il figlio dei ricorrenti, detenuto presso il carcere di Messina, era particolarmente vulnerabile in ragione della sua privazione della libertà e dei suoi disturbi psichici (disturbi della personalità «dramatic cluster», caratterizzato tra l’altro da un comportamento «borderline», attestato dalla cartella clinica). Inoltre, prima del suo arrivo in carcere, aveva commesso dei tentativi di suicidio e degli atti di autolesionismo.

In conclusione, la Corte ha stabilito che le autorità fossero a conoscenza che vi era un rischio reale e immediato che il detenuto potesse attentare alla propria vita e che, pur essendosi attivate per assicurare la protezione della vita del medesimo (trasferimento in una cella individuale; visita dallo psichiatra del carcere, che ha prescritto una terapia farmacologica; applicazione della «sorveglianza a vista», il massimo livello di sorveglianza), non sono state sufficientemente diligenti (sono passati dodici giorni tra gli episodi di autoaggressione e l’autorizzazione al trasferimento in OPG; passaggio da «sorveglianza a vista» ad un livello inferiore, nonostante il peggioramento della situazione e la distruzione della cella compresa l’illuminazione); nello specifico, le autorità non hanno adottato misure ragionevoli per ridurre il rischio di suicidio, come il trasferimento in un’altra cella dotata di illuminazione funzionale, la pulizia dei luoghi o la programmazione di consulenze frequenti con lo psichiatra (cfr. altresì Çoşelav c. Turchia, n. 1413/07, § 62, 9 ottobre 2012).

Pertanto, la Corte ha concluso per la violazione del profilo sostanziale dell’articolo 2 della Convenzione.

Per contro, non è stata riscontrata violazione della predetta disposizione sotto l’aspetto procedurale, atteso che i responsabili delle indagini, ossia i rappresentanti della Procura di Messina e i carabinieri, erano indipendenti dalle persone implicate nel decesso (cfr. altresì Malik Babayev c. Azerbaijan, n..30500/11, § 81, 1° giugno 2017). Inoltre, la Corte ha osservato che la Procura aveva adottato misure ragionevoli per garantire la raccolta degli elementi di prova riguardanti i fatti in questione, tra cui, in particolare, l’audizione dei testimoni e delle persone indagate, l’analisi delle registrazioni di videosorveglianza e l’autopsia. I ricorrenti erano stati coinvolti nel procedimento dal momento che erano stati sentiti dal magistrato inquirente, dapprima nelle fasi iniziali delle indagini e poi in qualità di parti civili durante il processo, nell’ambito del quale avevano potuto denunciare delle negligenze nella presa in carico del figlio (De Donder e De Clippel, sopra citata, § 86). Da ultimo, tenuto conto del volume delle prove raccolte, la Corte ha considerato che la durata del procedimento (2 anni e 9 mesi) non permetta di dubitare dell’effettività dell’indagine.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE, CAUSA MRAOVIĆ C. CROAZIA, RICORSO N. 30373/13, SENTENZA DEL 14 MAGGIO 2020

Il ricorrente Mraovic, imputato di violenza sessuale, lamentava una violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto a un processo equo) relativamente alla decisione del giudice nazionale croato di celebrare il processo a suo carico a porte chiuse per tutelare la vita privata della vittima, che aveva peraltro rilasciato interviste sui quotidiani nazionali, senza bilanciare tale diritto con quello della pubblicità del dibattimento.

La Corte ha respinto il ricorso, sottolineando anzitutto l’importanza di proteggere l’integrità e la dignità delle vittime di abusi sessuali nei procedimenti penali.

Con specifico riguardo al caso di specie, secondo il giudice europeo, le dichiarazioni rilasciate ai giornali non avevano in alcun modo dispensato lo Stato dai suoi obblighi di tutela della persona offesa dalla c.d. “vittimizzazione secondaria”. Nelle sue dichiarazioni ai media, infatti, la vittima aveva il controllo delle informazioni divulgate, mentre in tribunale ciò non era possibile, tenuto conto che l’esame incrociato può svelare informazioni sugli aspetti più intimi della vita privata.

I giudici di Strasburgo hanno dunque escluso, seppure a maggioranza (sei voti contro uno), che vi fosse stata la violazione dell’articolo 6 § 1 CEDU.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE, CAUSA BALDASSI E ALTRI C. FRANCIA, RICORSO N. 15271/16, SENTENZA DEL 11 GIUGNO 2020

Il caso riguarda la condannain sede penale di undici attivisti per incitamento alla discriminazione economica (ai sensi dell’articolo 24 della legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa) in ragione del loro coinvolgimento nelle azioni di boicottaggio dei prodotti israeliani nell’ambito nella campagna internazionale “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” lanciata da organizzazioni non governative palestinesi.

I ricorrenti lamentavano la violazione degli articoli 7 (nulla poena sine lege) e 10 (diritto alla libertà di espressione) della Convenzione e la Corte ha accolto soltanto quest’ultima doglianza.

Degna di nota la statuizione della Corte sulla conformità con l’articolo 7 CEDU dell’applicazione ai ricorrenti della legge sulla libertà di stampa. Pur esprimendo riserve sulla prevedibilità dei rapporti tra i diversi testi legislativi applicabili, vale a dire, da un lato, tra i vari articoli della legge del 1881 e, dall’altro, tra quest’ultima fonte e il codice penale, i giudici di Strasburgo hanno concluso che, poiché la giurisprudenza era consolidata all’epoca dei fatti, i ricorrenti dovevano sapere che avrebbero potuto essere condannati in forza di tale base legale per aver chiesto il boicottaggio dei prodotti importati da Israele.

L’assenza, poi, di ogni incitamento alla violenza ha indotto la Corte europea a ritenere la condanna degli attivisti contraria all’art. 10 CEDU, in quanto ingerenza non necessaria in una società democratica.

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