SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI – DI PAOLO BORGNA
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SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI[1].
di Paolo Borgna*
La trascrizione, rivista dall’autore, dell’intervento alla tavola rotonda del 27 luglio 2020 “SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI: La prima riforma dell’ordinamento giudiziario è in parlamento”, organizzata dall’Unione Camere Penali Italiane.
Sul tema della separazione delle carriere sono un pessimo testimone. Soprattutto, non sono credibile. Qualunque cosa dica. Perché, qualunque posizione io sostenga, depone contro di me il mio percorso professionale. Ho cominciato a ventitré anni facendo il praticante e poi l’avvocato (il giovane procuratore legale, come si diceva allora) al foro di Alba (distretto della Corte d’Appello del Piemonte e Valle d’Aosta). Poi, vinto il concorso in magistratura, a ventotto anni sono stato pubblico ministero, alla Procura di Torino. Otto anni dopo ho deciso di passare alla giudicante: giudice penale al Tribunale di Torino (allora non c’era ancora la separazione delle funzioni). E così mi sono trovato ad avere davanti a me, a sostenere l’accusa, pubblici ministeri che, fino al giorno prima, erano stati miei colleghi della porta accanto. Infine, dopo sette anni di lavoro da giudice, sono tornato alla Procura, sempre di Torino. Avrei dunque potuto sostenere l’accusa davanti a giudici con cui, fino al giorno prima, avevo fatto camera di consiglio. Questa cosa mi appariva totalmente sconveniente. E, se lo era per me, immaginiamoci come lo era per gli avvocati e, più ancora, per gli imputati. Chiesi al Procuratore di allora (Francesco Marzachì) di esonerarmi dall’andare in udienza in quella che era stata la mia sezione. E Marzachì subito accolse la mia richiesta. Anzi, mi sembrò sollevato che io gliel’avessi formulata.
Allora, voi capite bene che, quando avanzo qualche perplessità sulla proposta di separazione delle carriere, chiunque ha diritto di alzare il dito e rispondermi: “Certo, tu non puoi non essere contrario; perché difendi la tua storia professionale”. E se invece dico – come sempre più spesso mi capita – che comprendo molte delle ragioni con cui l’avvocatura sostiene questa proposta, vengo subito zittito da qualche magistrato che mi dice: “Ma come, proprio tu, che hai saltabeccato da una parte all’altra dei banchi del Tribunale, adesso vuoi impedire ai tuoi colleghi più giovani di fare la stessa cosa, peraltro cambiando distretto? Proprio il tuo percorso professionale dimostra che la separazione delle carriere è una pessima idea.” A questi amici rispondo che dimenticano che il mio percorso parte dagli anni di avvocato ad Alba. E che, se in tutti gli anni successivi, ho fatto qualcosa di buono, è anche e soprattutto grazie a ciò che ho imparato in quegli anni. A quelle piccole cose che impari da giovane avvocato. Non fare aspettare una persona nel corridoio senza poi nemmeno chiedere scusa. Non attaccare sulla porta cartelli su cui c’è scritto: “si ricevono gli avvocati soltanto dalle ore X alle ore Y”. Tutte piccole cose che, nella vita normale, si chiamano semplicemente buona educazione. Ma che, nel rapporto tra magistrati ed avvocati, sono l’ingrediente principale per evitare che indipendenza sia il nome in codice di arroganza. Come il ricordarsi sempre l’insegnamento di Calamandrei: che il cipiglio sul viso del magistrato è come un muro, mentre il sorriso è come una finestra. Perché l’avvocato sa molto bene che la giustizia è una cosa seria. Non c’è bisogno di ricordarglielo facendo la faccia feroce. Per imparare queste piccole cose, a volte, anche grandi magistrati ci impiegano anni. Ma se da giovane hai fatto l’avvocato, queste cose le conosci già, sin dal primo giorno.
E allora, ecco il punto: la famosa “unità della cultura della giurisdizione”, che i magistrati amano sbandierare come un vessillo per giustificare la loro contrarietà alla separazione delle carriere, deve comprendere anche l’avvocatura. L’unico modo per evitare la separazione delle carriere è di ampliare, anziché soffocare, la circolarità delle esperienze professionali. Ce lo dice la Costituzione. La filosofia che ispira l’ultimo comma dell’articolo 106 (che prevede la possibilità di accesso in Cassazione per gli avvocati con quindici anni di esercizio, oltre che per i professori ordinari di diritto) ci indica una strada che avremmo dovuto percorrere anche per gli altri gradi e che invece i magistrati hanno voluto sbarrare. Se una fatina con la sua bacchetta magica si posasse sul mio braccio e mi dicesse: “riscrivi come vuoi tu gli articoli 106 e 107 della Costituzione”, io scriverei, come prima regola, che possono svolgere le funzioni di pubblico ministero soltanto coloro che, per almeno cinque anni, hanno svolto la professione di avvocato. Ma poiché le fatine stanno solo nelle fiabe, mi accontenterei di un sogno più modesto: discutere di una proposta che feci, più di vent’anni fa, alla Camera penale di Torino e che avevo ripreso dalla quella straordinaria fucina di idee che fu Magistratura democratica della metà degli anni Sessanta: introdurre un concorso per entrare in magistratura, riservato agli avvocati. All’esito del quale, ovviamente, al vincitore dovrebbe essere riconosciuto non il ruolo di uditore giudiziario bensì la funzione corrispondente a quella dei magistrati di anzianità pari agli anni di iscrizione di quell’avvocato nel proprio Ordine. Se invece di consumarsi in questa specie di guerra dei cent’anni pro o contro la separazione, avvocati e magistrati avessero portato avanti una comune riflessione su come inverare l’articolo 106 della Costituzione, non saremmo oggi in questo stallo: in questa battaglia da opposte trincee, dove il canovaccio è già noto; in cui ad ogni battuta di una parte si sa già quale sarà la risposta dell’altra.
È mancata una riflessione comune. Per troppi anni. È mancato il ricordo della lezione dei primi decenni della storia repubblicana: quando le pronunce della Corte che gradualmente smantellarono il monolite autoritario del codice Rocco furono rese possibili dal lavoro di tanti piccoli giudici che, sparsi nelle aule dei Tribunali e delle Preture di tutta Italia – incoraggiati, sostenuti, incalzati dalle istanze di tanti singoli avvocati e dal comune clima culturale che li affratellava – sollevarono alla Consulta i dubbi di costituzionalità su quel relitto del passato. Ricordo sempre ai giovani avvocati una cosa che oggi ci pare inconcepibile: che solo nel 1971 (con la legge n. 62, che diede esecuzione alla sentenza costituzionale n. 190 del 1970) l’avvocato fu ammesso all’interrogatorio dell’imputato. C’era stato il ’68; c’era stato l’autunno caldo; erano già in moto nuove correnti di opinione per l’ampliamento dei diritti; eppure Pietro Valpreda, ingiustamente arrestato per la strage di piazza Fontana, veniva ancora interrogato senza difensore! Tutto questo fu superato grazie a un movimento culturale unitario di avvocati e magistrati che, in pochi anni, seppe ottenere ciò che quattro Legislature del Parlamento repubblicano non erano ancora riuscite a compiere: spingendo infine quello stesso Parlamento a legiferare in modo conforme alla Costituzione.
Quel clima culturale fondato sul dialogo si è spezzato a cominciare dagli anni ’80, per contingenze politiche che tutti conosciamo e non è qui il caso di ricordare. C’è un dato (per me disperante) che da solo ci testimonia la profondità di questa rottura: più volte, negli ultimi decenni, avvocati e magistrati sono scesi in sciopero. Lo hanno fatto, sempre, per motivi opposti: chiedendo modifiche a progetti di riforma che confliggevano tra loro. Il potere politico, già di per sé debole, ha spesso subito, con sbandamenti vistosi, il condizionamento di interessi corporativi o addirittura personali. Ne sono nate riforme stiracchiate, disorganiche, spesso mal scritte, frutto di mercanteggiamenti, contraddittorie, zeppe di emendamenti dell’ultima ora che le fanno pericolosamente pendere da una o dall’altra parte. Ma quel che qui mi interessa sottolineare è che, con questa rottura del dialogo, è cresciuta un’intera generazione di giuristi che, nel corso di tutta la loro vita professionale, non hanno mai partecipato a una mobilitazione o a una battaglia comune tra avvocatura e magistratura.
Questa è la nostra malattia. Questa è la dannazione dei magistrati della mia generazione. Hanno difeso la cittadella assediata dell’indipendenza quando andava difesa. Quando davvero veniva attaccata. Così facendo, hanno fatto la cosa giusta. Ma poi, a forza di difendersi dagli “attacchi strumentali” all’indipendenza, si sono trovati prigionieri dentro le mura della loro cittadella. E hanno perduto l’importanza del punto di vista esterno. Hanno continuato a chiamare indipendenza, autonomia, autogoverno, quello che, poco per volta, si stava trasformando in separatezza, arroganza, arroccamento corporativo.
Ed eccoci così ai giorni nostri: all’autogoverno dell’epoca Palamara. La vicenda Palamara ci aiuta a storicizzare. Perché, non dimentichiamolo, bisogna sempre storicizzare.
Venticinque anni fa, quando gli amici avvocati ci proponevano come modello la giovane e moderna Costituzione portoghese – in cui il pubblico ministero è indipendente ma ci sono, per giudici e p.m., due distinti C.S.M. – noi rispondevamo: ma dobbiamo ricordarci la storia! Non possiamo dimenticare che una tale divisione è stata giustificata dal fatto che, dopo la rivoluzione dei garofani, i partiti democratici non si fidavano dei Procuratori ereditati dal regime di Salazar e Caetano. Perché erano i Procuratori che, fino alla metà degli anni Settanta, avevano protetto gli ufficiali dell’esercito responsabili delle torture ai militanti del M.P.L.A. e del FRE.LI.MO (i fronti di liberazione dell’Angola e del Mozambico). E dunque c’era la paura che un unico Consiglio superiore eletto anche dai p.m. potesse intralciare le carriere dei giudici che non appartenevano a quella cultura.
Ebbene. Se era giusto “storicizzare” allora, ugualmente dobbiamo “storicizzare” oggi.
Quando sento dire, a commento di alcune proposte di riforma, che esse muterebbero l’assetto dell’ordine giudiziario voluto in Costituzione, mi viene da sorridere. Perché proprio questo è il punto: il magistrato di oggi è stellarmente diverso dal modello di magistrato che avevano in mente i Costituenti.
Calamandrei vedeva i giudici come “sacerdoti che dicono messa” e “non possono permettersi il lusso della fantasia”, perché i loro orizzonti sono “segnati dalle leggi”. Li dipingeva solitari nell’ultimo tavolo dell’unica trattoria del paese, avendo “come unica commensale l’indipendenza”. Quel tavolo, oggi, è assai più affollato. Ed è ben rappresentato dal tavolino dell’hotel Champagne.
Mi direte: ma cosa c’entra la vicenda Palamara con la separazione delle carriere?
C’entra. Eccome! C’entra perché quella vicenda ci conferma, per tabulas, quello che tutti già sapevamo ma che ora nessuno può ignorare: che i pubblici ministeri sono preponderanti non solo nelle cariche associative e nelle direzioni delle varie correnti ma anche nel governo delle carriere dei giudici. C’è una chat esemplare, riportata da molti giornali. È del 17 ottobre 2017. Un pubblico ministero di Milano, membro del direttivo dell’A.N.M., conversa con Palamara (allora consigliere del C.S.M.) e, parlando di una certa collega giudice, dice: “Se riuscite a fottere la *** sarebbe un bel colpo”. Penso che non ci sia bisogno di altri esempi. Ma è bene ricordare – perché alcuni dirigenti dell’A.N.M. e attuali membri del C.S.M. sembrerebbero averlo dimenticato – che Palamara non è stato paracadutato, anni fa, sulla poltrona di presidente dell’A.N.M., da un aereo di passaggio; ma vi fu eletto all’unanimità. E pochi anni dopo fu eletto al C.S.M., con un consenso molto ampio. Questo spiega il balbettio con cui le rappresentanze ufficiali della magistratura hanno reagito alla vicenda. Il Presidente Mattarella ha usato un eufemismo molto generoso per parlarne: ha parlato di “modestia etica”. Penso che – per spiegare la mancanza di una reazione dei magistrati che vada oltre il brontolio e il rinfacciarsi a vicenda piccole e grandi responsabilità – si debba parlare anche di “modestia culturale”. È, esattamente, il risultato di quella mancanza di confronto culturale, con avvocatura e accademia, di cui prima ho parlato. È il risultato del fatto che le antiche correnti – nate negli anni ’60 sulla base di contrapposizioni ideologiche forse troppo rigide ma vere – una volta esauritasi la loro forza propulsiva di battaglie ideali, sono sopravvissute come una vecchia crisalide vuota, rimanendo però lo strumento di gran lunga più efficiente per l’edificazione e la promozione delle carriere dei magistrati.
Questa modestia culturale impedisce oggi alla magistratura associata di affrontare con coraggio il vero tema che la sfida degli avvocati pone e che la vicenda Palamara ha confermato: la preponderanza dei p.m. in ogni aspetto della vita e della carriera dei giudici pone anche un problema di reale indipendenza dei giudici. Per decenni abbiamo detto che bisogna tenere unite le carriere per far sì che la cultura del processo e della prova del p.m. sia la stessa del giudice. Dobbiamo ormai chiederci se non si sia verificato l’effetto opposto. Non parlo di sudditanza del singolo giudice a questo o quel p.m. nel momento della decisione in questo o quel processo. Parlo di una inevitabile attrazione dei giudici (in particolare dei G.I.P.) nel mondo culturale del pubblico ministero. C’è un tema in cui questo timore è sempre più forte. È quello delle intercettazioni. Come mi è già capitato di scrivere[2], la quasi assoluta mancanza di discussione, tra i giudici, sulle regole e le prassi che oggi governano le intercettazioni, lascia davvero interdetti. Ma di questo converrà parlare più approfonditamente in altra occasione.
Faccio qui un richiamo a questo tema soltanto per ribadire che la proposta di separazione delle carriere è mossa da problemi veri, grandi e nuovi, rispetto al magistrato di mezzo secolo fa; problemi che non possono essere elusi. Fare finta di non vederli, semplicemente ripetendo gli allarmi sul rischio di “sottoporre il p.m. all’esecutivo”, come sta facendo la maggior parte degli esponenti della magistratura associata, mi ricorda l’anatema di Emilio Lussu contro i vecchi dirigenti socialisti aventiniani: state conducendo il vostro treno su un binario morto, sulle cui rotaie crescono le erbacce e volano le farfalle.
Negli anni Ottanta l’A.N.M. ebbe un presidente molto brillante e simpatico. Si chiamava Raffaele Bertone. Nel 1987, la sera del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, Bertone era in uno studio televisivo. E quando arrivarono i primi risultati (che annunciavano la schiacciante vittoria dei SÌ alla responsabilità, inaspettata onda lunga del “caso Tortora”) si udì Bertone esclamare, con scorata ironia tipicamente napoletana: “come ci vogliono bene gli Italiani!”.
Se un giorno mai il Parlamento dovesse approvare la separazione delle carriere e se la modifica costituzionale fosse sottoposta a referendum, penso che gli attuali dirigenti delle varie correnti dei magistrati sarebbero accolti dal medesimo scoramento. Ma noi esclameremmo: questo è il raccolto di ciò che avete seminato!
*Sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Torino
[1] Trascrizione, rivista dall’autore, dell’intervento alla tavola rotonda del 27 luglio 2020 “SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI: La prima riforma dell’ordinamento giudiziario è in parlamento”. Per la videoregistrazione integrale qui.
[2] Mi sia consentito, sul punto, richiamare quanto scritto sulla rivista Questione giustizia il 25 aprile 2020: “25 aprile e stato di eccezione”.